Il 20 e il 21 febbraio si è tenuta l’udienza dell’Alta Corte di Londra chiamata a decidere in via definitiva sull’estradizione di Julian Assange, fondatore e attivista di WikiLeaks, accusato dal governo americano di spionaggio e cospirazione contro la sicurezza nazionale a seguito della pubblicazione di documenti governativi top secret riguardanti crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti e altri Paesi durante l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Si tratta della fase finale di un processo iniziato nel 2012, quando Assange ha trovato ospitalità come rifugiato politico all’interno dell’Ambasciata ecuadoriana di Londra fino al 2019, anno in cui il fondatore di WikiLeaks è entrato a Belmarsh, il carcere inglese di massima sicurezza spesso definito “la Guantanamo inglese”. La sentenza è prevista per i primi giorni di marzo e, in caso di condanna, ad attendere Assange negli Stati Uniti c’è la prospettiva di una condanna a una pena detentiva fino a 175 anni di carcere per i reati previsti dall’Espionage Act.
Il caso Assange ha diviso l’opinione pubblica mondiale e in particolare quella americana, destando preoccupazioni per la tutela della libertà di stampa e del delicato e fondamentale rapporto tra giornalisti ed informatori da un lato e tra giornalisti e pubblico dall’altro , soprattutto quando ad essere al centro dell’attenzione è l’enorme potere che gli Stati Uniti esercitano a livello globale e, ancor più, quando lo sono le guerre che a tutela e rafforzamento di questo potere sono state perpetuate.
L’Espionage Act “censura” l’opposizione alla guerra?
Su questo punto vale la pena di notare come il caso Assange sia fin dall’inizio stato inquadrato dai maggiori media mainstream americani per la minaccia che pone alla libertà d’informazione quando in ballo vi è la sicurezza nazionale, ma raramente i contenuti del leakaggio sono stati presi in considerazione dopo la loro pubblicazione.
D’altra parte, concentrare la discussione sulla forma piuttosto che rimanere sul contenuto è insito nella struttura dell’Espionage Act. Come viene spiegato in un recente articolo del The Guardian, l’Espionage Act è “una legge che originariamente reprimeva l’opposizione all’ingresso dell’America nella prima guerra mondiale. Negli ultimi anni, tuttavia, la legge è stata invocata principalmente contro i whistleblower. La legge […] non prevede alcuna difesa dell’interesse pubblico. Una persona accusata non può presentare prove sul contenuto del materiale divulgato, non può dire perché ha fatto ciò che ha fatto e non può sostenere che il pubblico aveva il diritto di conoscere quelle questioni.”
In questo caso, come nel caso di Daniel Ellsberg, whistleblower dei Pentagon Papers, e del più celebre Snowden, l’informatore ex agente della NSA, l’interesse pubblico che si stava tutelando è quello di sapere in che modo (e per tutelare quali interessi) sono state condotte le guerre portate avanti in nome della difesa della democrazia e, soprattutto, in nome dei cittadini americani.
Mentre si dibatte, la guerra continua
L’inscindibile legame tra il controllo della libertà di stampa e la difesa del diritto a fare la guerra è invece stato ripetutamente denunciato da diversi siti d’informazione indipendenti americani. Come scrive il giornalista indipendente Matt Taibi, ex collaboratore di Rolling Stones e figura di riferimento nella pubblicazione dei Twitter Files, “Julian Assange è diventato famoso mentre negli Stati Uniti stavamo creando un nuovo e più vasto governo all’interno del governo, un sistema di prigioni segrete, torture e rapimenti di sospettati, sorveglianza di massa e assassinii perpetuati attraverso droni. E molte di queste cose le conosciamo solo grazie a Wikileaks. Apparentemente, tutta questa segretezza era necessaria a combattere il terrorismo all’estero.”
Amy Goodman, co- fondatrice e presentatrice del programma televisivo Democracy Now!, ricorda che “nel 2010, WikiLeaks […] ha pubblicato una serie di video, noti con il nome di “Collateral Murder” (omicidio collaterale), in cui sono state fornite le prove di crimini di guerra perpetuati dall’esercito americano. Questi video avrebbero per sempre cambiato la traiettoria della “guerra al terrore” e della repressione del governo americano nei confronti dei suoi critici”.
Il video, ci spiega Goodman, rivela crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti a Baghdad. In particolar modo, il filmato in questione mostra un’unità di elicotteri Apache statunitensi colti nel momento in cui, tra risate e scherzi, uccidono oltre una dozzina di uomini, tra cui due dipendenti dell’agenzia di informazione Reuters. La pubblicazione di questo video, insieme alle successive rivelazioni dei registri di guerra dell’Iraq e dell’Afghanistan, ha messo in luce altri comportamenti militari di dubbia legalità, tra cui l’uccisione di persone che si stavano arrendendo alle forze statunitensi.
Non ci sono state conseguenze, processi o condanne, ed è questo fatto, insieme alla persecuzione giudiziaria che Assange ha subito e continua a subire, a rendere il suo caso una delle ipocrisie più emblematiche della liberal democrazia americana e dei suoi alleati. I crimini di guerra e il totale alienamento dei diritti umani che hanno caratterizzato l’invasione irachena così come quella afgana, e molte altre guerre prima e dopo di queste intraprese a difesa della democrazia, rimangono ignorati dai principali media mainstream, mentre si continua a puntare il dito contro le nefandezze altrui. Così come sono stati ignorati i documenti che suggeriscono il coinvolgimento di alcuni esponenti del partito democratico nel minare, a favore di Hilary Clinton, la candidatura di Bernie Sanders, uno dei più feroci critici (e, di certo, il solo candidabile) dell’aggressiva politica estera americana.
E mentre il processo si consuma, la macchina da guerra non si ferma. La vediamo anzi in azione in scenari operativi sempre più ampi.
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