In Italia c’è un problema con la repressione, da ben prima dei manganelli di Pisa
Alla fine, la repressione del dissenso è diventata materia buona per alimentare lo scontro politico. Quanto avvenuto a Pisa lo scorso sabato, con la polizia che ha manganellato senza alcun motivo gli studenti in corteo, ha fornito il giusto appiglio a opposizioni e giornalisti della sinistra liberale per lanciare un attacco al governo, come se quanto accaduto rappresentasse quasi qualcosa di inusuale e inaspettato. Eppure, episodi di questo genere sono tutt’altro che isolati. Al contrario, essi si inseriscono in un contesto di repressione del dissenso violenta tanto sul lato attuativo quanto su quello legislativo. Dalle manifestazioni vietate alla creazione di reati ad hoc per colpire la disobbedienza civile pacifica, dai manganelli in piazza ai processi per reati d’opinione, la repressione del dissenso è un fenomeno di lunga data nel nostro Paese, che si manifesta nelle forme più svariate e creative e che limita sempre più la possibilità dei cittadini di protestare contro le scelte imposte dall’alto.
Torino, 28 gennaio 2022. Al governo c’è Mario Draghi. In piazza Arbarello si sono radunati gli studenti dei licei, per protestare contro la morte di Lorenzo Parelli, 18 anni. Sono per la maggior parte minorenni. Siamo ancora in periodo pandemico: con la scusa dell’ipotetico rischio di contagio, le manifestazioni sono autorizzate solamente “in forma statica”. Gli studenti si avvicinano ai poliziotti in cordone intorno alla piazza per chiedere di poter marciare attraverso le strade del centro di Torino. Lì, secondo i testimoni senza alcun motivo, i poliziotti iniziano a manganellare tutti: in tanti hanno il cranio aperto, i volti sanguinanti, una ragazza è stata portata via da un’ambulanza priva di sensi. Nessun giornale ritiene che un tale abuso meriti uno spazio in prima pagina. Politicamente, il caso non è di interesse. D’altronde, una cosa è certa, in quel periodo: non esiste, sulla stampa mainstream, una sola voce che osi mettere in dubbio la ragione sanitaria. L’allora ministro dell’Interno, Luciana Larmorgese, si limita a definire l’episodio un semplice «cortocircuito».
Trieste, 18 ottobre 2021: nel porto si svolge una manifestazione pacifica contro il green pass e le regole sanitarie imposte dal governo (allora presieduto da Giuseppe Conte). I poliziotti cercano di disperdere la folla aprendo a più riprese (e senza preavviso) gli idranti, ma non funziona. Così, nel pomeriggio, si decide di optare per le cariche e il lancio di lacrimogeni. Niscemi, 7 agosto 2022. Il governo di Mario Draghi sta per volgere al termine. I manifestanti di fronte ai cancelli della sede del terminale MUOS (il sistema di telecomunicazioni militari USA) sono appena 300 e si muovono in un corteo pacifico, ma la polizia decide comunque di disperderli utilizzando prima gli idranti e poi i lacrimogeni, lanciati ad altezza uomo (alcuni colpiranno i manifestanti alla schiena). La combinazione è micidiale, in quanto per via della grande quantità d’acqua liberata, i gas non si disperdono correttamente nell’aria, formando una nube tossica ad altezza uomo. Una conseguenza che difficilmente i tutori dell’ordine possono aver ignorato. Sempre a Torino poi, nel febbraio 2023, una donna viene condannata a 8 mesi di carcere per aver cercato di appendere uno striscione all’esterno del tribunale di Torino. A emettere la sentenza è il giudice del tribunale di Sorveglianza Elena Bonu, la stessa che impose due anni di detenzione all’attivista no Tav Dana Lauriola per aver parlato in un megafono nel corso di una manifestazione. Lo stesso destino toccato a Sara, appena ventenne, che ha trascorso 7 mesi ai domiciliari per un motivo analogo. Lo scorso dicembre, poi, decine di attivisti sono stati colpiti da misure cautelari, tra fogli di via ed obblighi di dimora, per azioni di disobbedienza civile pacifica. Alcuni di essi, prima che ai loro legali fossero comunicati i capi di imputazione, hanno dovuto trascorrere alcuni giorni in carcere. Il tutto, per essersi seduti per terra in mezzo alla strada e aver bloccato il traffico. In Val di Susa, dove gli episodi repressivi non si contano più, i fogli di via sono stati consegnati anche a chi alle proteste non ha presenziato. E questi sono solo alcuni delle decine di episodi che abbiamo trattato su L’Indipendente.
La violenza della piazza è solamente la più evidente tra le modalità con le quali si cerca di reprimere le voci in contrasto con il potere. A legittimarne l’azione è l’apparato legislativo, che sostituisce ai manganelli norme volte a criminalizzare le voci del dissenso. Così, per contrastare gli episodi di disobbedienza civile vengono inventati nuovi reati ad hoc. A fronte dell’aumento dei casi di disobbedienza civile da parte degli attivisti per l’ambiente come quelli di Ultima Generazione, per esempio, il governo si è letteralmente inventato nuove fattispecie di reato pur di poterli reprimere: l’introduzione del reato di danneggiamento di beni culturali e artistici e l’inserimento dei reati di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni che appartengono al patrimonio artistico e culturale tra quelli che prevedono l’arresto facoltativo in flagranza. Vengono poi varate misure amministrative creative come il Daspo urbano (introdotto dal decreto Minniti del 2017 e declinato dai vari governi nelle forme più fantasiose e disparate, da quello universitario a quello ferroviario). E poi il dl Caivano, che riempie le carceri di detenuti minorenni senza risolvere il problema del disagio giovanile, i tentativi di abolizione del reato di tortura per poter “tutelare” i poliziotti, che grazie a questo governo possono essere autorizzati a portare armi senza licenza anche quando non sono in servizio.
Le forme di controllo della piazza si moltiplicano, mentre chi è preposto a tale controllo gode di sempre maggiore libertà d’azione. L’Italia è infatti uno dei pochissimi Paesi europei che ancora non dispone dei codici identificativi sui caschi degli agenti, per renderli immediatamente riconoscibili in caso di uso eccessivo della forza. La repressione del dissenso in forma violenta non è una novità di quest’ultimo periodo, ma piuttosto una prassi sempre più consolidata, che priva il popolo del suo diritto a dissentire dalle decisioni imposte dall’alto.
[di Valeria Casolaro]
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