Prima l’invio di carri armati e mezzi militari in un’area, quella del Sinai orientale, che in base agli accordi di pace con Israele del 1979 dovrebbe essere smilitarizzata. Adesso la creazione di barriere e muri in un’aera attigua al confine con la Striscia di Gaza, destinata forse ad ospitare i profughi palestinesi. E per chissà quanto tempo. L’Egitto teme le possibili conseguenze relative a una crisi umanitaria a Rafah, ultimo lembo della Striscia dove gli sfollati da Gaza City possono trovare rifugio, ma al contempo sembra non poter fare altro che aspettare l’afflusso dei profughi.
L’esercito israeliano è infatti prossimo ad attaccare anche Rafah, nonostante le rimostranze e i segnali dello stesso Egitto. Oltre che degli altri Paesi arabi e degli Stati Uniti, con Washington che nelle scorse ore ha presentato una bozza di risoluzione al consiglio di sicurezza Onu in cui si chiede un cessate il fuoco temporaneo. Il timore, non solo egiziano, è che l’afflusso massiccio di sfollati verso il Sinai sia in grado di sferrare il colpo di grazia a un’economia egiziana già parecchio provata e alla stabilità della regione.
Le strutture costruite in territorio egiziano
Alla città di Rafah è toccato il destino di ritrovarsi al centro di uno dei confini più delicati al mondo. Una sorte che la storia le ha assegnato nel 1906, con il trattato tra ottomani e britannici con cui è stata tracciata una linea di frontiera tra un Egitto ancora sotto il mandato di Londra e una Palestina sotto il controllo della Sublime Porta. Da quel momento in poi la cittadina, con all’epoca poco meno di 600 abitanti, è diventa un posto di confine e un vero e proprio simbolo divisorio tra due mondi tanto attigui quanto spesso lontani: da un lato c’è l’Egitto e il Sinai, dall’altro inizia il mondo palestinese, la cui storia verrà da lì a breve risucchiata come un vortice dalle più recenti vicende mediorientali.
La frontiera si è mantenuta anche in quegli anni in cui la Striscia di Gaza era sotto amministrazione egiziana: Il Cairo ha sempre preferito controllare i transiti nella zona, sospettando la presenza di traffici non proprio leciti. Poi con la guerra dei sei giorni del 1967, il confine a Rafah ha diviso un territorio sotto occupazione israeliana dall’Egitto governato ancora dal rais Nasser.
Nel trattato di pace del 1979, Il Cairo e Tel Aviv hanno fissato il passaggio del confine nel cuore di Rafah. Si è così costruito l’attuale valico che divide la Striscia dal Sinai, reso nel frattempo smilitarizzato. A sud di quel valico adesso il governo del presidente Al Sisi ha iniziato a inviare mezzi, non solo militari ma anche civili. Si tratta di bulldozer e trattori che stanno spianando un’area di almeno tredici chilometri quadrati.
Le immagini satellitari confermerebbero l’esistenza di lavori molto pesanti, già ben avviati. Sul Wall Street Journal, un funzionario egiziano ha rivelato che in effetti nel Sinai orientale si stanno costruendo campi per ospitare almeno centomila persone. Il tutto in un’area recintata e isolata sia dall’Egitto che dalla Striscia. Il Cairo, in poche parole, si sta preparando a dover fare i conti con un altro intricato tassello della sua storia.
Al Sisi costretto ad accogliere?
Quella de Il Cairo sembrerebbe una resa alla prova dei fatti. Nonostante un attacco su Rafah sia stato considerato, dall’Egitto come da molti altri Stati arabi, come una linea rossa invalicabile sia per motivi politici che umanitari, Al Sisi ha capito che il governo israeliano di Netanyahu andrà avanti. L’Idf tra non molto attaccherà anche Rafah e i palestinesi da qualche parte dovranno pur scappare. Volenti o nolenti, le autorità egiziane devono prepararsi al peggio.
Lo ha lasciato intendere nelle scorse ore anche il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry: “Non è intenzione de Il Cairo fornire aree o strutture sicure – ha dichiarato ai media locali – ma dovesse accadere ce ne occuperemo con l’umanità necessaria”. Come dire, per l’appunto, che è meglio prendere in considerazione l’idea di accogliere piuttosto che credere ancora di poter fermare la guerra. La mediazione con Hamas, l’organizzazione di summit tra israeliani e statunitensi nella propria capitale e le varie altre iniziative intraprese da Al Sisi probabilmente non serviranno. Da qui la costruzione, nel giro di pochi giorni, di campi e recinsioni.
La risoluzione Usa su Rafah
Il prezzo che però pagherà l’Egitto sarà salatissimo. Costruire strutture di accoglienza per migliaia di persone influirà molto su un budget già oggi allo stremo. Non solo, ma un afflusso di profughi del genere provocherà non pochi problemi legati alla sicurezza: nel Sinai sono attivi da tempo gruppi jihadisti in grado di tenere sotto scacco la sicurezza egiziana, il rischio è che estremisti locali ed estremisti palestinesi entrino in contatto e sferrino attacchi congiunti sia contro Israele che contro Il Cairo.
Una destabilizzazione del già fragile quadro egiziano potrebbe a sua volta a gravi conseguenze regionali. Per questo anche gli Usa stanno provando a fermare l’iniziativa israeliana su Rafah: Washington, in particolare, ha presentato al consiglio di sicurezza dell’Onu una bozza di risoluzione in cui si chiede un cessate il fuoco temporaneo.
“Gli Stati Uniti – si legge nel documento – condannano Hamas per l’attacco del 7 ottobre, in particolare per la cattura e l’uccisione degli ostaggi, gli omicidi e le violenze sessuali, compreso lo stupro. Nonostante ciò, il Consiglio di sicurezza stabilisce che, nelle circostanze attuali, una grande offensiva di terra su Rafah, la città nel sud della Striscia di Gaza dove si sono rifugiati oltre un milione di profughi, comporterebbe ulteriori danni ai civili e il loro ulteriore sfollamento, che avrebbe gravi conseguenze e implicazioni per la pace e la sicurezza regionale”.
“Si sottolinea – conclude non a caso il testo – che un’offensiva di tale portata non dovrebbe avere luogo nelle circostanze attuali”.
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