Giocare col fuoco
di Enrico Tomaselli - 04/05/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/giocare-col-fuoco
Fonte: Sinistra in rete
Alcune brevi note sul rapporto NATO-Russia, sul come
l’approccio statunitense si riveli pericolosamente inadeguato e sul
perché l’irrilevanza politico-militare dell’Europa si traduca in un
potenziale suicidio. Piaccia o non piaccia l’attuale configurazione
politica e strategica del cosiddetto Occidente, è impossibile non
rilevare come la sua supponenza sia in realtà la maggiore minaccia alla
sua stessa esistenza.
* * * *
La propaganda è una normale
condizione nei paesi coinvolti in un conflitto, anche quando si tratta
di democrazie liberali che amano pensarsi e rappresentarsi come il
paradiso della libertà di pensiero e di parola. In un certo senso, si
può anzi dire che la presenza della propaganda, e la sua pervasività,
possono essere assunti ad indicatori del coinvolgimento bellico.
Anche da ciò, risulta evidente quindi come i paesi della NATO siano parte attiva del conflitto in Ucraina.
Ma
ovviamente la propaganda non ha solo lo scopo di mobilitare la
popolazione, affinché sostenga – anche solo politicamente – lo sforzo
bellico; scopo, o quantomeno conseguenza della propaganda è anche quello
di rimuovere gli argomenti scomodi, le verità scomode.
Nel
contesto della guerra in atto in Ucraina, ciò risulta evidente sotto
molteplici punti di vista, ma ce n’è uno in particolare che
effettivamente riveste (rivestirebbe) una grande importanza, e che, al
contrario, scivola via.
Una delle ragioni ufficiali per cui i
paesi della NATO sostengono così massicciamente l’Ucraina è la teoria
secondo cui la Russia rapprenterebbe una minaccia per l’intero
occidente. Ne consegue, a logica, che la principale preoccupazione dei
paesi NATO – e segnatamente di quelli europei, che nell’ipotesi di uno
scontro sarebbero la prima linea di combattimento – dovrebbe essere
assicurarsi prioritariamente di mantenere ed accrescere le proprie
capacità difensive. Esattamente l’opposto di quanto sta in effetti
accadendo, visto che lo sforzo per sostenere l’Ucraina ha portato le
capacità militari dei paesi europei, già assai scarse, al di sotto dei
limiti minimi di capacità bellica.
La questione merita di essere osservata almeno sotto due diversi punti di vista.
Va
innanzitutto fatta una premessa: sotto il profilo geostrategico, è
abbastanza evidente come, all’interno della NATO, non solo vi sia una
diversa gerarchia (non è assolutamente un’alleanza paritaria), ed una
diversa distribuzione della potenza, ma che vi sia anche un’ineludibile
differenza per quanto riguarda il ruolo. Se si assume che la minaccia
viene da est (e, dopo la caduta dell’URSS, la NATO è tornata ad
affermarlo ufficialmente negli anni scorsi), ne consegue che l’Europa è
il terreno su cui si svolgerebbe lo scontro, e che gli USA – esattamente
come durante la prima e la seconda guerra mondiale – subentreranno
successivamente. Anche se esistono basi e truppe americane (soprattutto
in Germania ed Italia), queste sono comunque piccola cosa rispetto alla
dimensione di scala che assumerebbe un conflitto di tale portata. E per
quanto da allora le cose siano molto cambiate, sotto il profilo della
capacità di movimentazione di uomini e mezzi, è evidente che organizzare
e trasferire una grande forza di combattimento, dagli Stati Uniti
all’Europa, è una gigantesca operazione logistica, che richiederebbe
settimane se non mesi. Anche, ovviamente, a prescindere dalla capacità
russa di colpire le unità navali che effettuano il trasporto (1).
Ciò
significa che, per le prime quattro/sei settimane, il peso dei
combattimenti ricadrebbe principalmente sugli eserciti europei, oltre
che su un numero limitato di truppe statunitensi.
Stiamo ovviamente parlando di un’ipotesi di conflitto convenzionale, non nucleare.
La
prima questione, quindi, è l’ipotetica capacità di combattimento di
questi eserciti. Nessuno dei quali ha praticamente alcuna esperienza di
guerra simmetrica ad alta intensità. Anche a prescindere dall’impatto su
un territorio altamente antropizzato, fitto di infrastrutture sensibili
ed assolutamente non predisposte per un conflitto, c’è come prima cosa
un rapporto quantitativo rispetto ad uomini e mezzi, disponibili per le
due parti.
L’Europa (oggi praticamente tutta nella NATO) conta
circa 750 milioni di abitanti, la Russia circa 144. La capacità
immediatamente operativa dei vari eserciti NATO europei potrebbe contare
su circa un milione e duecentomila uomini, la Russia su circa un
milione e quattrocentomila. Gli eserciti europei dispongono di circa
5000 carri armati (di tutte le classi), la Russia di quasi 15.000. Di
uguale supremazia la Russia dispone nel settore delle artiglierie.
In
poco più di un anno, il sostegno all’Ucraina ha peraltro diminuito non
solo la quantità di mezzi disponibili, ma ha prosciugato la
disponibilità di munizionamento – che è ovviamente il materiale con il
più elevato tasso di consumo.
Ne consegue che il sostegno
all’Ucraina – che non è un paese membro della NATO, né dell’UE – sta
spaventosamente abbassando la capacità europea di fronteggiare quella
che l’Europa stessa definisce come “la minaccia”. Giusto per dare
qualche cifra ulteriore, durante questi 14 mesi di guerra le forze
armate russe hanno distrutto quasi 9.000 carri armati e corazzati da
combattimento, praticamente il doppio della disponibilità totale degli
europei.
E sappiamo bene che la capacità produttiva
dell’industria bellica europea (che peraltro in caso di conflitto
diverrebbe bersaglio degli attacchi nemici) è lontanissima da livelli
adeguati, sia in termini di mezzi prodotti che in termini di velocità di
produzione.
In buona sostanza, la partecipazione dei membri
europei della NATO al conflitto ucraino, per un verso ha elevato il
pericolo di un’eventuale minaccia militare russa (Mosca è oggi
militarmente più forte, ed è preoccupata per le minacce alla propria
sicurezza che ritiene arrivino dall’Alleanza Atlantica), per un altro ha
ridotto le proprie capacità di fronteggiare tale ipotetica minaccia. A
prescindere da qualsiasi considerazione politica, da un punto di vista
puramente militare è un vero e proprio colpo di genio.
Un secondo interessante punto di vista è una riflessione sulle cause strutturali che hanno determinato questa situazione.
Prendiamo,
ad esempio, l’esercito britannico, sicuramente uno dei migliori tra i
paesi europei della NATO. Il bilancio della difesa 2022 del Regno Unito è
stato di 55 miliardi di dollari; quello della Federazione Russa, che
era già coinvolta in due guerre (Siria ed Ucraina), di 61 miliardi.
Nonostante una differenza non significativa nella spesa militare, la
capacità operativa del British Army è degradata al punto che, nelle
parole di un generale USA di alto rango, oggi è “a malapena di secondo
livello” – laddove al primo sarebbero soltanto USA, Russia e Cina.
Non
si tratta quindi di una mera questione di numeri di spesa. Il BA, tra
l’altro, può contare su meno di 200.000 uomini in servizio, appena un
quinto di quelli in servizio in Russia in periodo ordinario.
C’è
quindi in gioco un altro fattore, che deriva dal diverso approccio
strategico e concettuale dei paesi NATO, che dopo la caduta dell’URSS ha
subito notevoli variazioni, ma che oggi, alla prova dei fatti, si
rivelano assolutamente intempestive persino rispetto alle proprie
valutazioni. Da almeno dieci anni, infatti, la NATO è tornata ad
indicare la Russia come prima minaccia, ma non è stata in grado di
adeguare le proprie capacità belliche alla sfida da essa stessa
identificata.
Se durante la guerra fredda l’ipotesi fondativa
delle strategie NATO era quella dello scontro di massa sul terreno
europeo, con la caduta dell’Unione Sovietica l’orientamento strategico è
mutato profondamente. La natura stessa dell’Alleanza si è modificata
radicalmente: se dal 1945 agli anni ‘90 la sua funzione politica è stata
quella di tenere al guinzaglio i paesi europei, mantenendo però una
natura essenzialmente difensiva, la nuova proiezione imperiale USA –
oltre che all’allargamento dell’alleanza stessa – ha puntato a
trasformarla in strumento operativo offensivo, costringendo gli alleati a
condividere le guerre asimmetriche da allora portate avanti (Serbia,
Afghanistan, Iraq, Siria, Libia).
La parola chiave in questo caso
è proprio asimmetriche. In mancanza di un nemico di primo livello
(contro cui infatti non si è mai azzardata a confrontarsi direttamente),
ma in presenza di un nemico fittizio da agitare, le forze armate NATO
sono state via via coinvolte in una serie di guerre a bassa intensità,
preferibilmente ad altissima concentrazione di fuoco iniziale per
renderle veloci, contro avversari infinitamente più deboli.
Il
concetto strategico shock and awe si è tradotto in un’organizzazione
delle forze armate NATO finalizzata alla supremazia tecnologica, quindi a
strutturare le forze armate intorno ad armamenti caratterizzati da
un’elevata capacità offensiva/difensiva, quindi ad altissimo costo, sia
di produzione che di manutenzione, prodotti in una quantità
relativamente ridotta.
Va notato qui, riprendendo quanto si
diceva prima rispetto alle differenze gerarchiche interne all’Alleanza,
che non solo le grandi linee politico-strategiche della NATO vengono
decise a Washington in base agli interessi statunitensi, ma anche
l’elaborazione delle strategie militari (e conseguentemente industriali)
è esclusivo appannaggio del Pentagono: gli alleati europei si adeguano.
Già
nel 1961, nel suo famoso discorso di fine mandato, il presidente
americano Dwight Eisenhower (un ex-generale…) avvertiva dei pericoli
insiti agli accordi segreti fra potere politico, industria bellica e
militari, in quello che lui stesso definì complesso
militare-industriale. Il potere di tale complesso – e per quanto
riguarda l’industria stiamo parlando di qualcosa interamente privato –
si è centuplicato negli anni susseguenti la WWII, che hanno visto gli
Stati Uniti impegnati quasi ininterrottamente in guerre. Ed è abbastanza
evidente come l’interesse dell’industria bellica USA sia quello di
sviluppare (e vendere) sistemi d’arma ad altissimo valore aggiunto.
C’è
quindi un insieme di concause, praticamente tutte riconducibili al
paese egemone dell’alleanza, che hanno determinato l’attuale situazione:
aver portato in primissimo piano una presunta minaccia, aver
contribuito a renderla effettivamente tale e, al contempo, aver
abbattuto drasticamente le proprie capacità di fronteggiarla.
Ovviamente,
parte di questa insensatezza risiede nel fatto che gli strateghi
politici e militari statunitensi pensano alla Russia soprattutto come ad
un feticcio, un simulacro, da agitare ad usum vassalli – come è stato
precedentemente fatto col terrorismo islamico, dagli USA prima creato in
funzione anti-sovietica, poi utilizzato appunto come spaventapasseri
globale, ed infine messo da parte quando gli interessi si sono allineati
diversamente.
A ben vedere, infatti, anche se Washington insiste
sul pericolo della minaccia russa, nei fatti sembra non tenere in alcun
conto la Russia. Non ha saputo valutarne né le capacità militari,
nell’affrontare la proxy war scatenata in Ucraina, né quelle di
fronteggiare la guerra ibrida messa in campo sul piano
politico-economico.
Ed anche sotto un profilo più strettamente
strategico, e relativamente alla guerra in corso, la non-strategia USA –
che oscilla continuamente tra l’illusione di sconfiggere Mosca e quella
di semplicemente logorarla – continua a non tenere in alcun conto
l’avversario; non le sue capacità, non le sue intenzioni, non le sue
preoccupazioni, non i suoi obiettivi.
Come se ciò accade
dipendesse esclusivamente dalla volontà della Casa Bianca, le cui
decisioni diverrebbero automaticamente realtà solo perché la volontà
imperiale si impone sempre.
Ma questo – l’ingaggiare una lotta contro un potente avversario senza mai tener conto della sua essenza – è un altro discorso.
Note
1
– Ovviamente, nel giro di pochi giorni sarebbe possibile dispiegare sul
teatro europeo una forza d’intervento rapido aerotrasportata, ma la
quantità di uomini e mezzi necessari per affrontare un conflitto ad alta
intensità richiederebbe mesi per essere organizzata e portata in
Europa.
Nessun commento:
Posta un commento