“Effetto contagio” e tetto al debito. La FED ha aperto il vaso di Pandora?
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
La spettacolarizzazione della diatriba tra democratici e repubblicani incentrata sull’accordo per l’innalzamento del limite legale – il cosiddetto “tetto” – del debito federale Usa sta distogliendo l’attenzione dai problemi strutturali che affliggono l’economia statunitense.
Lo scorso marzo, per evitare il temutissimo “effetto contagio” che
rischiava di scaturire dai fallimenti di Silicon Valley Bank, Signature
Bank e Silvergate Bank, l’amministrazione Biden ha elaborato un piano di
intervento in accordo con la Federal Reserve e la Federal Deposit
Insurance Corporation (Fdic) implicante l’estensione della garanzia
federale sui depositi superiori ai 250.000 dollari.
L’operazione,
ha tuttavia specificato la Casa Bianca, non avrebbe comportato alcun
costo per i contribuenti, perché l’intera copertura sarebbe stata
assicurata dalla Federal Reserve mediante l’apposita creazione ex nihilo
di nuova liquidità. Le modalità attraverso cui si è declinato
l’intervento sono state poste a fondamento del Bank Term Funding Program
(Btfp), un piano d’azione elaborato in fretta e furia al fine, testualmente,
di «supportare le imprese e le famiglie americane, mettendo a
disposizione finanziamenti aggiuntivi per gli istituti di deposito
idonei e far sì che le banche dispongano della capacità di soddisfare le
esigenze di tutti i loro depositanti». Spogliato dei toni edulcorati
della Fed, il Btfp si configura come un vero e proprio programma di
salvataggio generalizzato, perché consente alle banche di accedere al
credito a bassissimo costo assicurato dalla Fed impegnando come
collaterali i Treasury Bond a lunga e a lunghissima scadenza in loro
possesso. La Banca Centrale Usa, dal canto suo, si impegna ad accettarli
secondo la loro quotazione originaria, e non in base al loro reale
valore di mercato fortemente ridotto per effetto della stretta monetaria
della Fed.
Per un Paese reso fortemente dipendente dall’afflusso di liquidità
dall’estero dal marcatissimo squilibrio tra risparmi e investimenti,
difficoltà crescenti ad attrarre capitali stranieri comportano
inesorabilmente un incremento degli stress per il settore bancario. Lo
dimostrano la caduta dei corsi azionari accusata dal settore delle
banche regionali e il crollo fragoroso di First Republic Bank ad appena
un mese di distanza dalla creazione del Btfp e dalla trasfusione di
liquidità (30 miliardi di dollari) ad opera di un consorzio bancario che
aveva mantenuto l’istituto di credito – poi rilevato dal Fdic e quindi
acquisito da Jp Morgan Chase – in linea di galleggiamento.
Nel complesso, scrive
il «Telegraph» sulla base di confidenze rese da un nucleo di
specialisti della Hoover Institution, la metà dei circa 4.800 gruppi
bancari statunitensi avrebbe bruciato le proprie riserve di capitale e
risulterebbe gravato da un ammontare di passività di gran lunga
superiore a quello degli attivi. Parte assai ragguardevole degli
istituti, compresi uno di rilevanza sistemica e almeno tre grandi
gruppi, verserebbe per di più in una situazione di vulnerabilità
particolarmente critica. Complessivamente, le banche regionali
statunitensi erogano il 50% circa del credito all’economia nazionale
configurandosi come la principale forza propulsiva del settore
immobiliare, che alla fine del primo trimestre del 2021 aveva generato
su base annua – e quindi in piena crisi virale – Mortgage-Backed
Security (Mbs) a tassi del 2-3% per un ammontare di oltre 10.000
miliardi di dollari. Senonché, la combinazione tra esaurimento dei
fenomeni manifestatisi durante il periodo pandemico (smart working)
e stretta creditizia varata dalla Federal Reserve ha comportato un
forte rallentamento del mercato immobiliare, puntualmente tradottosi in
un proporzionale deprezzamento degli Mbs gravanti sui bilanci delle
banche. Secondo alcune stime, le perdite totali causate dalla caduta
degli Mbs supererebbero, valutate al mark to market, i 1.000 miliardi di dollari, e andrebbero a sommarsi alle minusvalenze, quantificate in 620 miliardi di dollari dalla Fdic, ascrivibili al deprezzamento dei titoli di Stato Usa in loro possesso.
Nel 2008, la Federal Reserve e il Dipartimento del Tesoro scongiurarono il tracollo del sistema finanziario nazionale acquisendo dal settore bancario 600 miliardi di dollari di Mbs immediatamente trasformati, previa attribuzione della garanzia governativa, in collaterali accettabili a fronte di temporanee richieste di liquidità – sia sul mercato interbancario che presso la Banca Centrale – da parte degli istituti di credito. Ora, il problema si ripresenta con ordini di grandezza enormemente superiori, e pone le condizioni per una esasperazione del credit crunch varato dalla Fed, alla luce della marcata contrazione dei depositi bancari e del carattere illiquido – e quindi assai difficilmente impiegabile come collaterale per ottenere liquidità – che contraddistingue molti degli investimenti (in settori come il private equity, il private credit, il leverage loan, ecc.) facenti capo al settore bancario statunitense.
Di qui, osserva l’economista Michael Hudson, la decisione di Washington di ricorrere al «solito piano: nascondere il problema bancario sotto il tappeto e inondare il sistema di salvataggi (per i banchieri, non per gli studenti oberati dai mutui)», nel tentativo piuttosto scoperto di concentrare ulteriormente il credito in un numero minore di grandi istituti ritenuti maggiormente “controllabili”. Con tutte le prevedibili implicazioni in termini di sostenibilità del sistema: «supportando chiunque si trovi ad affrontare problemi riconducibili al rapporto asset/tassi, la Fed sta di fatto consentendo un massiccio allentamento delle condizioni finanziarie e un incremento del rischio morale», hanno scritto gli strateghi di Rabobank Michael Every e Ben Picton in una nota indirizzata ai clienti.
Garantendo una rete di sicurezza al sistema bancario nel suo complesso, la Federal Reserve apre per di più il varco a un approfondimento potenzialmente catastrofico della crisi del dollaro.
L’attivazione
del Btfp comporta una immissione di liquidità a getto continuo che
stride clamorosamente con la politica monetaria restrittiva adottata
dalla Fed per contenere l’inflazione, e destinata pertanto a tradursi
inesorabilmente in depressione del corso della moneta Usa rispetto alle
altre valute del Forex, analogamente
a quanto accaduto nell’estate del 2022 alla sterlina. Cioè alla divisa
di un Paese caratterizzato al pari degli Stati Uniti da una posizione
finanziaria netta profondamente negativa, che per ovviare alla
svalutazione imputabile anche allo scriteriato programma di spesa
promosso dal governo guidato da Liz Truss si è visto costretto ad
adottare misure d’austerità volte ad attenuare la dipendenza dai
capitali esteri. Come ha dichiarato
con sbalorditiva disinvoltura il capoeconomista della Bank of England
Huw Pill, famiglie e imprese britanniche sono inesorabilmente chiamate
ad “accettare” la prospettiva dell’impoverimento pur di tenere a freno
l’inflazione.
Per gli Usa, gravati da un debito federale in forte espansione e pertanto bisognoso di continui innalzamenti al relativo limite legale – il cosiddetto “tetto” – da parte del Congresso per evitare il default, dalle garanzie concesse gli investitori istituzionali di rilevanza sistemica e da un indebitamento del settore privato pari a circa 17.000 miliardi di dollari, si profila un orizzonte sinistramente somigliante a quello stagliatosi dinnanzi alla Gran Bretagna
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