DOPO BAKHMUT
Dopo otto mesi cade la città che Zelensky ha voluto erigere a simbolo della resistenza ucraina. Ma, al di là dal valore simbolico, non rappresenta in alcun modo un passo verso la fine del conflitto. Altre battaglie ci attendono, sul campo e fuori. Nell’intreccio tra strategie politiche e militari, nel loro reciproco condizionarsi, si trovano sia le possibilità di pace che quelle di una terribile escalation. Con sullo sfondo il pericolo che scatti, improvvidamente, la ‘sindrome di Pearl Harbour’.
https://giubberosse.news/2023/05/30/dopo-bakhmut/
Non è un punto di svolta
Purtroppo, la propaganda atlantista è così massiccia, pervasiva e
totalizzante che diventa abbastanza difficile sfuggirvi, sia pure
indirettamente. Benché sia ormai sempre meno credibile, persa com’è nel
disperato sforzo di tenere insieme le più varie balle spaziali con la
dura realtà, le sue tossine penetrano comunque nello spazio pubblico.
Così, mesi e mesi di martellante propaganda sulla battaglia di Bakhmut –
prima dipinta come importantissima, tanto da non poter essere
assolutamente persa, per poi diventare insignificante una volta perduta –
hanno comunque finito col sedimentare l’idea che il controllo di questa
città fosse in qualche modo decisivo per l’andamento della guerra. Così
non è.
Ovviamente, la conquista della città è militarmente
importante, sia perché spinge più ad ovest la linea del fronte nel
Donetsk, avvicinandola all’ultima linea difensiva fortificata di Kiev
(Sloviansk-Kramatorsk), sia perché ha consentito di assestare un altro
colpo durissimo alle forze armate ucraine: 72.000 caduti e circa 200.000
feriti. Considerato che, al momento dell’entrata delle truppe russe nel
paese, l’esercito di Kiev contava 230.000 uomini, significa che la
battaglia per la conquista di Bakhmut rappresenta, da sola, il terzo
esercito distrutto in 15 mesi di conflitto.
Né, d’altra parte, va sottovalutata l’importanza simbolica –
destinata a ripercuotersi profondamente sia nel morale delle truppe e
del paese, sia sulla determinazione della NATO a sostenerlo. Ma sotto il
profilo strategico non segna un cambiamento decisivo. Le forze armate
russe hanno a questo punto davanti ancora almeno tre/quattro problemi da
risolvere, prima di poter considerare d’aver raggiunto un punto di
svolta strategico.
Innanzi tutto, c’è appunto da affrontare la linea
Sloviansk-Kramatorsk. Si tratta della linea meglio fortificata, tra
quelle predisposte dall’esercito ucraino in questi nove anni, ed ha
proprio nelle due città i suoi punti di forza. Considerato che per
prendere Bakhmut le forze russe hanno impiegato otto mesi, pagando anche
un prezzo in perdite umane non indifferente (per quanto inferiore a
quello nemico), ciò significa che superare questa linea, e conquistare
le città su cui si articola, potrebbe richiedere anche più di un anno.
A
meno che i russi non decidano di cambiare drasticamente tattica, e di
procedere direttamente con massicci bombardamenti a tappeto; o che
riescano ad aggirarla, come fecero i tedeschi con la Maginot.
Un altro nodo importante da sciogliere è la conquista di Avdiïvka, la
cittadina a pochi chilometri da Donetsk, da cui gli ucraini bombardano
quotidianamente le città dell’oblast passate ai russi. Anche qui, la
battaglia infuria da tempo, la progressione russa c’è, ma la resistenza
delle forze di Kiev è tenace. La riconquista della città è importante,
non solo per poter allontanare le artiglierie ucraine, ma anche per
completare la liberazione della regione.
Quello della distanza di
tiro è tra l’altro uno dei problemi che devono fronteggiare i russi. La
fornitura di sistemi d’arma NATO a sempre maggiore gittata implica la
necessità di allontanare sempre più la linea di combattimento dagli
obiettivi sensibili, soprattutto le linee di rifornimento e le basi
militari della Crimea. Questo genere di sistemi d’arma, infatti, non ha
tanto la capacità di rovesciare le sorti sul campo di battaglia in
favore degli ucraini, anche per la quantità in cui viene fornito e per
il modo in cui viene utilizzato; ma sicuramente funziona come incentivo
al prolungamento delle ostilità, costringendo la Russia a spostare
sempre più in là il proprio orizzonte strategico.
C’è infine la questione del settore nord-orientale, dove la linea di
confine tra i due paesi è quella prebellica, e che dopo il ritiro delle
forze che erano penetrate in Ucraina il 24 febbraio 2022, è rimasto
(prevedibilmente) permeabile. Anche se sinora l’attività militare
ucraina è rimasta abbastanza contenuta, la – ancorché suicida –
incursione dei giorni scorsi, da parte di una unità DRG supportata da un
centinaio di volontari russi e bielorussi, testimonia una pericolosa fragilità di quella linea.
Sebbene
la NATO abbia sinora esercitato la sua influenza per tenere a freno le
tentazioni di Zelensky (che avrebbe voluto occupare stabilmente un pezzo
di territorio russo), non è detto che domani questa opzione venga
invece considerata accettabile. Il rischio è che si ripeta, in forma
diversa, quel che accadde nell’estate 2022, quando una delle due
offensive ucraine – quella appunto nel nord dell’oblast di Lugansk –
ricacciò indietro i russi di un centinaio di chilometri, perché la linea
del fronte era tenuta dalla Rosgvardia. Non si capisce per
quale motivo i russi non si assicurino una fascia della profondità di
almeno qualche chilometro, a protezione del confine.
Le incognite
La guerra è, per definizione, una faccenda mai del tutto prevedibile e
certamente fluida, soggetta a variazioni determinate dai fattori più
diversi.
Uno degli elementi particolari di questo conflitto è la
difficoltà di individuare, in modo chiaro e circostanziato, se non
proprio tutti gli obiettivi strategici che si pongono le parti, almeno
quelli che da ambo i lati sono ritenuti irrinunciabili. Ovviamente, se
prendessimo in considerazione l’Ucraina come un soggetto autonomo, in
grado di determinare liberamente e pienamente i propri goal,
sarebbe abbastanza semplice identificare almeno quelli di una parte; ma,
sfortunatamente per Kiev, l’autonomia politico-militare dell’Ucraina è
prossima allo zero. Le decisioni fondamentali si prendono a Washington,
con qualche margine di condizionamento da parte di Londra. Ma lo scarto
tra gli obiettivi conclamati della NATO e le reali possibilità sul
terreno è talmente vasto che è impossibile prenderli sul serio. Cosa
che, del resto, sembrano non fare persino i vari attori dello scenario politico statunitense.
Sul versante degli Stati Uniti, quindi, potremmo semplificare dicendo
che c’è una idea di massima (imporre il maggior danno possibile alla
Russia), che si traduce poi nell’adattare le tattiche alle possibilità
reali sul campo.
Per quanto riguarda invece i russi, anche qui al di là degli obiettivi ufficiali,
non è del tutto chiaro quale sia il disegno complessivo. In
particolare, non si riesce a comprendere se intendano vincere sul piano
militare – e quindi puntare ad una sostanziale resa incondizionata – o
se invece siano possibilisti riguardo ad un negoziato – che presuppone
necessariamente una di mediazione.
Più specificamente, se
intendono (o meno) liberare per intero gli oblast annessi alla
Federazione Russa, il che implica la riconquista di Kherson e la presa
della città di Zaporižžja. Se intendono (o meno) prendere Odessa. Se
prevedono di cedere/rinunciare a pezzi di territori liberati, in un
ipotetico negoziato, ed eventualmente quali.
Queste incognite rendono più complesso anche interpretare/prevedere
le mosse dello stato maggiore russo, perché rendono – forse anche
giustamente – più opachi gli obiettivi strategici e, quindi, le scelte
tattiche che ne conseguono.
Quello che è però prevedibile con
sufficiente sicurezza, è che le prossime iniziative concentreranno lo
sforzo nelle aree del Donetsk ancora occupate dagli ucraini. Quindi, il
prossimo obiettivo strategico dovrebbe essere lo sfondamento della linea
difensiva sull’asse Sloviansk-Kramatorsk. Se, come detto, non ci
saranno variazioni sostanziali nella condotta di guerra, presumibilmente
tale sforzo si svilupperà in due/tre step.
Il primo passo,
sarà probabilmente chiudere in una sacca il saliente ucraino di Seversk,
già parzialmente circondato da sud e da nord, e che deve essere
eliminato per poter manovrare nella parte settentrionale di quel
settore. Più o meno contemporaneamente, verrà investita Chasiv Jar, a
sud-ovest di Bakhmut.
Una volta sgomberata la strada verso la linea
fortificata, con la consueta tattica russa verranno attaccate le
piazzeforti di Sloviansk e Kramatorsk, con l’intento di bloccarvi le
forze ucraine, e possibilmente di attirare qui ulteriori rinforzi.
A
tale scopo è probabile che venga nuovamente utilizzata la PMC Wagner,
che per la fine di giugno dovrebbe essere nuovamente operativa – dopo un
doveroso periodo di sosta, per rimpiazzare le perdite, addestrare ed
integrare i nuovi arrivi, e recuperare le forze.
A coronamento della manovra, dovrebbe svilupparsi la spinta sulla
ali, cercando di aggirare la linea sia da sud che da nord. A sud, l’ala
sinistra dovrebbe puntare su Družkivka, per poi risalire verso
Kramatorsk, mentre da nord l’ala destra punterebbe su Lyman, per poi
scendere verso Sloviansk. Qui il terreno presenta ampie foreste, ed
alcuni bacini idrici, il che potrebbe rallentare l’avanzata, ma
certamente sarebbe più agevole della conquista casa per casa delle
città.
Questo, ovviamente, già di per sé è un compito che richiederà
mesi per essere portato a termine. C’è poi la grande incognita della
ormai mitica offensiva ucraina. A questo punto, è persino difficile
stabilire se prenderà avvio o meno, anche se tutto sembra indicare che,
in tal caso, la direttrice sarebbe quella verso sud a partire da
Zaporižžja, cercando di tagliare il collegamento terrestre tra il
Donbass da un lato, e la Crimea (e l’oblast di Kherson) dall’altro.
Nell’ultimo
mese i russi hanno intensificato di molto gli attacchi aerei e
missilistici contro le retrovie ucraine, colpendole molto duramente. E
questo, oltre alle pesantissime perdite nella difesa di Bakhmut, pesa
ovviamente sulle possibilità di sviluppare una manovra offensiva
efficace.
Di sicuro, Kiev dispone di almeno una decina di brigate addestrate
nei paesi NATO, per almeno 30.000 uomini, più alcune migliaia di
mercenari. E, ovviamente, non sono stati ancora utilizzati in
combattimento tutti i carri armati ed i corazzati forniti dalla NATO
negli ultimi mesi, per un numero complessivo di alcune centinaia. Tutto
questo potrebbe potenzialmente costituire la punta dello schieramento
offensivo, mentre almeno altri 40/50.000 uomini ne costituirebbero la massa critica.
Punto
debole rimane la scarsità (relativa) di proiettili d’artiglieria, ed il
dominio dell’aria da parte russa. Su questa direttrice d’attacco,
inoltre, gli ucraini incontrerebbero una linea fortificata in
profondità, predisposta dai russi in questi mesi.
In ogni caso, è
evidente che un’offensiva da parte ucraina costringerebbe a frenare
l’avanzata russa, distogliendo almeno una parte delle truppe.
Oltre la prima linea
Se osserviamo la situazione generale del conflitto da una prospettiva
più ampia di quella del campo di battaglia, possiamo osservare come
alcuni elementi si vadano delineando con una certa chiarezza.
Intanto, sul fronte interno degli
Stati Uniti, il partito della vittoria è ormai sostanzialmente
sconfitto; la questione non è più come/quando Kiev vincerà, ma
come/quando tirar via le castagne dal fuoco. A tal proposito, possiamo
identificare due costanti, nei vari ragionamenti che si fanno in merito
nell’oligarchia statunitense: lo sdoganamento dell’idea di cedere
territori alla Russia, e quella di scaricare sugli alleati europei
l’onere maggiore del sostegno all’Ucraina.
Per quanto riguarda la
prima questione, è significativo notare come questa ipotesi veda la luce
in sostanziale coincidenza con il pieno svelamento del piano di pace
cinese, che prevede appunto il riconoscimento dello status quo –
ovvero, i quattro oblast più la Crimea come parte della Federazione
Russa. Il fatto stesso che Pechino abbia avanzato la sua proposta in
questi termini, indica chiaramente che ritiene siano maturate le
condizioni per farlo.
Del resto, sul piano internazionale, benché il campo occidentale
(USA/NATO/altri alleati nel Pacifico) sia ancora molto forte e saldo, è
di fatto isolato a livello globale. Anche a prescindere dai paesi con
cui c’è una aperta ostilità (Russia, Cina, Iran e Corea del Nord), il
resto del mondo – la sua grande maggioranza – pur non essendo
anti-occidentale non è comunque disposto a seguire la NATO nella sua crociata anti-russa,
e si dimostra sempre più insofferente rispetto all’aggressività ed
all’arroganza dell’occidente, di cui inoltre diffida in modo crescente.
Mentre, di converso, crescono i buoni rapporti con la Russia e la Cina.
Sotto
questo punto di vista, gli ultimi tempi sono stati densi di avvenimenti
negativi, per l’occidente stesso. Il successo della mediazione cinese
tra Arabia Saudita ed Iran, e quello della mediazione russa tra Turchia e
Siria. La riammissione di quest’ultima nella Lega Araba. La corsa
all’adesione ai BRICS+ di 20/30 nuovi paesi. Il crescente malumore di
alcuni paesi europei rispetto alle politiche atlantiste dell’UE
(Ungheria, Bulgaria, Grecia…). Da ultimo, la certamente sgradita
riconferma di Erdogan.
Tutto questo, se per un verso costituisce un insieme di fattori che
potrebbero condurre ad uno stop delle attività belliche, come preludio
ad una più complessiva (e complessa) trattativa, dall’altro potrebbe
rivelarsi foriero di esiti negativi.
Molto dipende dalla effettiva
disponibilità, da parte degli USA, di accettare quella che
sostanzialmente sarebbe una sconfitta, la quale a sua volta avrebbe
ripercussioni negative tali, da riflettersi via via – per cerchi
concentrici – sulle ambizioni egemoniche di Washington. E, ovviamente,
anche dal fatto che gli ucraini accettino supinamente o meno il destino
loro riservato.
Posto che assai difficilmente si arriverà ad un
cessate il fuoco nel corso del 2023, perché tutti cercheranno di
avvantaggiarsi al massimo possibile, proprio in vista di un successivo,
possibile negoziato, e che quindi il conflitto potrebbe – tra una cosa
ed un’altra – protrarsi anche per tutto l’anno a venire, in questi mesi
potrebbero intervenire fatti nuovi, tali da imporre (secondo il punto di
vista) una brusca frenata alla possibilità di mediazione, o persino una
accelerazione verso una pericolosa escalation.
Ci sono naturalmente le variabili di origine militare (un imprevisto
successo, anche parziale, degli ucraini, oppure un loro collasso). Ci
sono quelle di ordine politico (un regime change a Kiev è
inevitabile, per arrivare a negoziati, ma è imprevedibile quello che
potrebbe innescare). Ci sono quelle di ordine internazionale (mentre gli
USA diminuiscono il proprio impegno, e si concentrano sulle elezioni
del 2024, i malumori interni all’UE potrebbero aumentare, mentre Pechino
moltiplicherebbe le pressioni sulle capitali europee).
Va inoltre
considerata l’ipotesi che, contrariamente a quanto immaginato, negli
Stati Uniti prevalgano quanti vogliono fortemente la sconfitta della
Russia, e che quindi il conflitto riprenda fiato. La cosa più
preoccupante, a mio avviso, resta comunque l’idea – ben radicata negli
ambienti della leadership statunitense – che Mosca non farà ricorso alle
armi nucleari, a meno che non sia soggetta ad un attacco di tal genere.
Questa convinzione, in parte alimentata anche dalla Russia, contrasta con quella che io definisco sindrome di Pearl Harbour.
Quando nel Giappone imperiale si diffuse la convinzione che lo scontro
con gli USA era ineluttabile, si resero altresì conto che l’unico modo
di vincere la guerra era assestare un colpo micidiale alla flotta
statunitense, perché la guerra si sarebbe combattuta essenzialmente nel
Pacifico, e la Marina vi avrebbe rivestito un ruolo decisivo. Da qui,
l’attacco del 7 dicembre 1941 alla base navale delle Hawai.
Ugualmente,
se Mosca dovesse sentirsi minacciata seriamente nei suoi interessi
vitali (la Crimea, tanto per dire), anche non attraverso l’uso di armi
nucleari, ha già dimostrato di saper rompere gli indugi e passare
all’attacco. È esattamente ciò che ha fatto – e per molto meno – il 24
febbraio 2022. Se, quindi, la situazione dovesse evolvere in un senso
tale che la Russia si percepisse a rischio di subire un colpo
strategico, potrebbe non esitare nel ricorrere ad un first strike nucleare contro la NATO.
E gli obiettivi sarebbero in Europa.
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