Benvenuti tra gli Elvezi: splendori e miserie del modello svizzero
Essere allo stesso tempo, come è il mio caso, svizzero, democratico e patriota potrebbe sembrare un truismo, tre modi quasi intercambiabili di manifestare la propria essenza “elvetica”. Tuttavia non è così, e in alcune circostanze nasce persino una specie di dilemma. Quando sono a casa, mi piace essere critico nei confronti del governo e delle nostre istituzioni: non sono così democratiche, così giuste, così equilibrate come uno Svizzero che ama il proprio paese spererebbe; il patriottismo e le mie convinzioni democratiche mi collocano quindi de facto nel ruolo di oppositore. Quando sono all’estero, in Francia in particolare, tutto è talmente peggiore, funziona tutto così male, che non posso impedirmi di provare un certo sciovinismo e difendere, in tono legalitario e quasi conservatore, il governo che ho tanto criticato quando ero dall’altra parte del confine. È uno strano conflitto. Eppure, in entrambi i casi, non si esprime solo lo stesso amore per il paese, ma anche lo stesso ideale politico: la democrazia diretta.
Mi ci sono voluti lunghi anni di introspezione per stabilire, nel mio rapporto con la democrazia svizzera, una via di mezzo che definirei “rivoluzionaria – conservatrice”. Rivoluzionaria perché questa democrazia è imperfetta, ha molti punti oscuri e sarebbe opportuno farla progredire per renderla, un giorno forse, piena e completa. Conservatrice perché questa democrazia, per quanto incompleta, è il bersaglio permanente di pressioni straniere (maastrichtiane, per dirla in breve), che vorrebbero annientarla dissolvendola nel grande giacobinismo europeista. Molti dei miei compatrioti che hanno a cuore la democrazia svizzera l’hanno capito: è importante sia difenderla di fronte a Bruxelles (una difesa conservatrice), sia svilupparla, riformarla ed estenderla (un’estensione rivoluzionaria) contro i conservatori interni, che preferirebbero accontentarsi di questa versione incompiuta per poter mantenere le loro prerogative. È questo approccio di adesione critica che cercherò di spiegare brevemente nelle pagine che seguono.
In origine: la Landsgemeinde
Lo scrittore François Schaller (1920-2006) definisce il sistema svizzero come “la democrazia più popolare, più imprevedibile, meno influenzabile del mondo”. Come si è gradualmente stabilita nel paese di Guglielmo Tell? Tra gli Elvezi, la culla della democrazia diretta si chiama Landsgemeinde. Si trattava di un’assemblea di cittadini che si ritrovavano fisicamente in un luogo per votare ad alzata di mano e prendere decisioni a maggioranza. A partire dal XIII secolo, tale istituzione ha competenza nel campo della giustizia ordinaria, dell’arbitrato, della polizia, dell’amministrazione del territorio, del diritto penale e della politica commerciale. Questo tipo di organizzazione fu favorito dalla sociologia della Svizzera dell’epoca, caratterizzata da un ambiente rurale omogeneo fatto di piccoli proprietari e operai agricoli; forse non sarebbe stata possibile nell’area germanica settentrionale dove dominavano i grandi proprietari terrieri. “Gli svizzeri non si limitano come i comuni a odiare i principi, osservava Machiavelli, ma odiano anche i gentiluomini, il loro paese non nutre nessuna delle due specie. L’assenza tra gli Svizzeri di gentiluomini (nella definizione di Machiavelli, persone che, aristocratici o meno, vivono del prodotto della loro terra senza lavorare) ha potuto infatti costituire un fattore di uguaglianza, una premessa filosofica favorevole allo sviluppo dell’ideale democratico.
Spesso si trovano equivalenti di queste assemblee popolari a livello di distretti, di parrocchie o per l’amministrazione dei pascoli e dei campi. Le Landsgemeinde sono sopravvissute nei secoli (oggi esistono solo in due cantoni), ma hanno avuto un ritorno di fiamma nel XVIII secolo, riflettendo una certa sete di libertà. Lo storico svizzero Olivier Meuwly (nato nel 1963) vede in questo periodo una forma di sintesi storica tra razionalismo e romanticismo, riecheggiando il pensiero di Jean-Jacques Rousseau, che rappresentò per eccellenza questa dualità. “Il romanticismo è immerso nelle nebbie medievali da cui emerge in tutta la sua maestosità la Landsgemeinde” scrive. “Essa si nutre di una doppia influenza: è allo stesso tempo quasi mitologica, attraverso la libertà che incarna il popolo riunito per far valere i propri diritti, e reale, poiché si tratta di diritti concreti, di privilegi stabiliti dalla tradizione e spesso riconosciuti da molto tempo”. È già presente, in embrione, il doppio imperativo rivoluzionario e conservatore… La Landsgemeinde rappresenta infatti per gli Svizzeri del XVIII secolo sia la continuità del meglio della loro storia politica, sia uno strumento di riforme, la leva di cambiamenti che potevano essere profondi, portati dai Volksmänner, questi capi-popolo che prendevano il comando di alcune piccole rivolte di spirito democratico. La Landsgemeinde mescola, nel suo funzionamento come nel suo simbolismo, la libertà rivoluzionaria di ispirazione razionalista esaltata dalla Rivoluzione francese, e la libertà romantica, più radicata nella comunità.
Molto presto nella storia svizzera si parla di “referendum federale”, termine che designa l’aggregazione del voto di ogni comune in una decisione collettiva. Il referendum, nella sua accezione moderna di consultazione popolare effettuata sotto forma di una raccolta di firme e riguardante un testo legislativo votato dal Parlamento, appare più tardi. Ciò che i rivoluzionari francesi avevano sognato (si pensi ad esempio al sistema di Nicolas Condorcet o alla Costituzione montagnarda, che prevedevano entrambi diverse forme di referendum), gli svizzeri lo mettono in pratica. Durante la Rigenerazione (1815-1848) il Paese adotta il referendum costituzionale e poi, una tappa dopo l’altra, la Svizzera si doterà nel corso del secolo successivo degli strumenti democratici di cui dispone oggi. “Ciò che che unisce gli Svizzeri e li rende orgogliosi della propria identità”, scrive il sociologo svizzero Uli Windisch (nato nel 1946), “non è né la lingua, né la religione, né la cultura, ma il sistema politico-culturale della democrazia diretta, che presuppone sia valori forti, ampiamente condivisi, sia limiti chiari e intransigenti.”
Quando i Gilè gialli guardavano alla Svizzera
Se alcuni osservatori hanno potuto scorgere, nel 2019 in Francia, un piccolo assaggio di primavera popolare, una variante del 1848, è perché quell’anno ha espresso, attraverso la rivolta dei Gilè gialli, una profonda aspirazione alla democrazia. La protesta contro l’arbitrio macroniano, il rifiuto di un potere confiscato da pochi, la rivendicazione di un Referendum di iniziativa dei cittadini (RIC) hanno gradualmente disegnato, a grandi linee, un sogno di sovranità popolare, di vera partecipazione civica alla cosa pubblica, al di là dello specchietto per le allodole dell’elettoralismo. “È una farmacopea importante che ben si adatta a questa democrazia malata, se non morente”, commentava allora Michel Onfray sul RIC. “È un autentico rimedio da cavallo che fa venire i brividi ai dominanti, ai corpi intermedi, agli eletti, agli ingranaggi del sistema, perché vedono improvvisamente in pericolo i loro poteri quando li credevano acquisiti per sempre”! In quell’anno, molti sguardi si sono rivolti alla Svizzera, un paese così vicino eppure così diverso nel suo funzionamento. Allora alcuni di noi hanno trascorso mesi a viaggiare per la Francia, per partecipare a colloqui, dibattiti, e “laboratori costituenti” (per usare l’espressione di Étienne Chouard), invitati da gruppi locali di Gilè gialli che chiedevano tutti la stessa cosa: parlateci del modello democratico svizzero. L’obbiettivo non era cercare di importare questo modello in Francia (i modelli politici non servono a questo, e generalmente sopportano male un tale tipo di trapianti), ma studiare un caso da manuale per riflettere su come i Francesi potrebbero cercare di democratizzare il proprio paese.
Va detto che all’entusiasmo dei Gilè Gialli corrispondeva, dalla parte delle élite, un’ostilità senza limiti nei confronti dell’ideale democratico e del modello svizzero. Il referendum? Una “piaga antidemocratica” secondo il consulente finanziario francese Alain Minc, che non ha mai tardato a pronunciare un’antifrasi pur di gettare fumo negli occhi. Ricordiamo anche Richard Ferrand, allora presidente dell’Assemblea nazionale, che dichiarò in una sessione plenaria nel luglio 2018 che nei paesi che praticano il Referendum di iniziativa popolare (tirava in causa direttamente la Svizzera), “le questioni trattate [sono] molto spesso il risultato di cricche d’affari e di alcuni lobbisti”. Bell’esempio di inversione dell’accusa. Viene in mente la famosa frase di Valéry Giscard d’Estaing all’epoca della campagna per il Trattato costituzionale del 2005: “È una buona idea aver deciso il referendum, a condizione che la risposta sia sì”. È evidente che oggi in Francia il principale ostacolo all’instaurazione di una democrazia sul modello svizzero è da cercare non solo nelle istituzioni assai centralizzate e verticistiche della Quinta Repubblica, ma anche (e forse soprattutto) nell’abbandono di ampie fasce di sovranità politica, imposto dai dettami europeisti. Si ripensa a quanto scriveva la compianta Coralie Delaume: “Sovranità nazionale da una parte, sovranità popolare dall’altra. Come articolarli? L’una e l’altra sono il dritto e il rovescio della stessa medaglia. Più esattamente, la prima è la condizione di possibilità della seconda”. Nulla di più vero: solo un paese libero può darsi istituzioni che garantiscano la propria libertà, cioè solo un paese veramente sovrano a livello nazionale può garantire, a livello istituzionale e di funzionamento politico, i mezzi per esercitare le sue libertà democratiche.
I limiti di un modello
Peraltro dire che la democrazia svizzera è ideale sarebbe presuntuoso: non lo è, ma è sicuramente preferibile al sistema oligarchico e confiscatorio che prevale attualmente in Francia; e ha ancora molte sfide da affrontare e difetti da correggere. Spesso votiamo, su argomenti molto diversi, e facciamo un uso frequente degli strumenti di democrazia diretta che sono l’iniziativa popolare e il referendum. Tutto ciò è molto positivo. Tuttavia le capacità di vincere un’elezione, di far trionfare una proposta politica durante una votazione, di portare a buon fine o meno un referendum attraverso la raccolta delle firme e poi con la sanzione del popolo sovrano, sono strettamente legate ai mezzi finanziari messi in moto dai diversi campi presenti. Questo gioco democratico è costantemente distorto dall’apparato dei partiti, dall’intervento delle lobby, dai vari interessi aziendali e dalla propaganda dei media, che dipende essa stessa dal potere del denaro. Le prese di posizione, spesso molto orientate, dell’esecutivo (il Consiglio federale), tendono a orientare il dibattito pubblico nella direzione voluta dai potenti. “Vale la pena di notare che il Consiglio federale si è costantemente schierato con la parte meno sociale dell’equazione, meno ecologica, meno indipendente, meno riformista, meno pacifica, mentre si è decisamente allineato con gli interessi delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, del settore immobiliare, delle armi, dell’agro-industria, dei produttori di sigarette e dei ricchi” osserva il giornalista economico Myret Zaki, caporedattore del mensile Bilan. Ciò solleva interrogativi su cosa sia il Consiglio federale, quale ruolo svolga nelle votazioni e quale sia la sua concezione dell’interesse pubblico. L’analisi del problema è in fondo abbastanza semplice: la democrazia diretta e il capitalismo sono come l’acqua e l’olio, non sono fatti per coesistere, procedono da due ordini inconciliabili. L’ideale svizzero dei diritti popolari è anche una delle ragioni che mi hanno portato al socialismo, perché non vedo come la sovranità del popolo, sia a livello territoriale (la nazione) che a livello politico (la democrazia diretta), possa prevalere in un sistema corrotto dalla plutocrazia.
Questi diversi problemi che la Svizzera sta vivendo (corruzione, nepotismo, disuguaglianza finanziaria degli attori politici, ingerenza degli ambienti economici negli affari pubblici, ecc.), la Francia li conosce in forme ancora più gravi, il che rende ancora più difficile la conquista della democrazia. Tale conquista, se sinceramente voluta dai cittadini, non è tuttavia impossibile, ma non potrebbe avvenire altrimenti, mi sembra, se non attraverso una netta rottura sia con l’attuale regime, sia con l’Unione europea. E in questo, il sistema svizzero, che non è un modello canonico, potrebbe forse servire da ispirazione per una nuova Francia. Perché, come scrive Olivier Meuwly, “come possiamo far partecipare il popolo se gli rifiutiamo gli strumenti collaudati ai piedi delle Alpi e provvisti di procedure precise ?”. È forse questo cantiere che i Gilè gialli hanno iniziato a preparare, ponendo la prima pietra miliare di una rivolta che deve ancora venire.
David L’EPEE è saggista e caporedattore di Krisis, una rivista di idee difficilmente classificabile a causa degli autori di tutte le convinzioni a cui dà voce, ma che può essere classificata come generalmente ostile al liberalismo. Il suo ultimo libro: Guillaume Tell. De l’histoire à la légende (ed. Artus, 2019).
Scelto e tradotto da Alceste de Ambris per ComeDonChisciotte
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