27 Febbraio 2023
Non è necessario però aiuta
Davide Miccione
Avanti.it
A partire dagli anni Ottanta la perdita di stima nei confronti della nostra classe politica ci ha accompagnato fedelmente. Li abbiamo sempre più ritenuti dei ladri e, a partire dagli anni Novanta, anche degli ignoranti intellettualmente poco dotati. Sebbene in Italia questa discesa della stima popolare per la classe politica sia stata particolarmente evidente, anche negli altri paesi il percorso dell’opinione pubblica non si è di molto differenziato dal nostro. Nessun politico contemporaneo ha accumulato anche una minima parte dell’aura che (a torto o a ragione è qui irrilevante) circonda un De Gaulle, un Churchill, un Einaudi, un Kennedy. E anche laddove studi storici successivi abbiano mostrato macchie e limiti dei leader della storia il fatto rimane. In Italia, dopo Pertini, è difficile citare un politico che non raccolga, in un ipotetico interlocutore, altro che uno sguardo perplesso o sarcastico.
Ovviamente, se ci inoltrassimo seriamente nella questione, potremmo chiederci se la perdita di stima faccia parte più in generale del disincantamento di un mondo dove ognuno ha un rapporto intimo con i personaggi del potere seguendone mediaticamente la quotidianità e incappando nel vecchio adagio che ritiene che nessuno sia un grand’uomo per il proprio cameriere. Comunicare attraverso discorsi istituzionali, peraltro non sempre scritti dai diretti interessati, e comunicare attraverso Twitter più volte al giorno sono attività con un tasso di pericolo di “svelamento” ben diverso.
Oppure potremmo pensare che i cittadini degli anni passati fossero più ingenui (ma è possibile essere più ingenui di oggi?) e dunque disposti a credere nei “grandi uomini” mentre oggi sarebbero più cinici e smagati. O, ancora, potremmo immaginare una capacità di convincimento, una macchina della propaganda passata, ben più efficace di quella di oggi indebolita dal web, dall’istruzione diffusa, dalla varietà delle fonti informative, dalla globalizzazione culturale e quindi ora meno capace di salvare l’aura dei suoi esponenti politici. O, infine, potremmo variamente incrociare e miscelare queste posizioni nella misura che riteniamo più verosimile.
In queste righe daremo per realmente avvenuto un certo declino (ci si lasci perlomeno la consolazione che la stoffa degli uomini al potere non sia stata sempre quella di oggi) per riflettere un po’ su tutto questo. Le tre caratteristiche che tendenzialmente attribuiamo ai politici sono dunque disonestà, stupidità e ignoranza e necessitano di una riflessione mirante ad articolarle nelle loro differenze e conseguenze. La disonestà è quella che è stata messa più in evidenza in questi anni anche perché è la più facile da manipolare e da utilizzare (per uno scandalo basta qualche magistrato interventista, persino in buona fede, e una buona campagna di stampa e il gioco è fatto). La disonestà inoltre porta il discorso ad un livello piuttosto primitivo e semplificato (ha preso o no quei mille euro per il rimborso spese che non gli spettavano?) e devia il discorso da altri concetti più seri (l’immoralità, concetto se si vuole persino più pericoloso ma perlomeno più ampio, oppure utilità per il benessere collettivo o per la civiltà eccetera). Un popolo ossessionato dalla disonestà spicciola può accettare qualsiasi cosa non rientri in questa categoria e gustarsi tutto contento un politico che lo impoverisce, che fa magari solo gli interessi delle banche, ma che ha i conti in ordine e fa delle liste rimborsi verosimili. Così intesa, l’onestà, da prerequisito ovvio per il funzionamento delle interazioni umane diventa il nucleo fondante per una classe politica che può portarci in guerra, dividere il Paese, renderlo diseguale, inefficiente, ignorante, ma che è fondamentale non tragga soldi o utilità aggiuntive dal proprio ruolo.
Il secondo attributo è la stupidità, che ci fa sentire bene ad attribuirla al singolo politico perché ci mette in una situazione psicologica di superiorità (immaginata). Rientra però più nella dimensione dell’offesa che della comprensione delle cose e inoltre rimanda a un concetto di riferimento, “l’intelligenza”, che è tra i più complicati e scivolosi con cui si abbia a che fare quotidianamente. Insomma non ci fornisce nessun criterio d’analisi ma in compenso intorbida parecchio le acque. Ognuno di noi conosce del resto uomini intelligentissimi (secondo i vaghi criteri che perlopiù irriflessivamente usiamo) che prendono decisioni pessime e catastrofiche per sé, per la propria famiglia, per la collettività e individui limitati che mettono pregevolmente in sicurezza se stessi e i propri cari.
Resta il terzo, l’ignoranza, tema anch’esso difficile ma in fondo più ostensibile. Basta ascoltare su un tema libero o conversare più volte con una persona per rendersi conto della sua cultura. La complessità delle argomentazioni, la ricchezza di riferimenti (ben diversi dallo sfoggio non richiesto), la consapevolezza della ampiezza e della profondità delle questioni ci danno un’idea sufficientemente chiara della struttura culturale di chi ci sta innanzi. In questo senso già una breve esperienza di ascolto di una qualsiasi tribuna elettorale degli anni Sessanta o Settanta ci mostrerà la voragine in termini di eleganza e ricchezza linguistica, complessità concettuale tra un politico nazionale medio dell’epoca (alcuni di loro neppure considerati colti dai loro colleghi del tempo) e un politico, anche di prima fascia, degli ultimi anni.
Basterebbe comunque qualche spezzone di un programma di una decina di anni fa, Le iene, in cui alcuni parlamentari venivano intervistati su questioni di cultura generale e costituzionale, per togliere ogni ulteriore dubbio. Gli onorevoli intervistati non sanno dire chi sia Mandela o i quattro evangelisti, cosa sia la Consob o il deficit o lo spread o quanti mesi duri una gravidanza. Non sembrano in grado di assicurare le prestazioni minime che ci si aspetterebbero da un adulto alfabetizzato. Anche ipotizzando che siano stati scelti, in fase di montaggio del girato, solo coloro che non sapevano rispondere a nulla, già la sola presenza in un parlamento di un certo numero di persone che non ha la minima idea di ciò di cui si discute è sufficiente a dare inizio a una serie di amare riflessioni.
Uno dei migliori saggisti europei, Hans Magnus Enzensberger, morto di recente spiegava, in un breve saggio pubblicato in Italia nel volume Zig Zag. Saggi sul tempo, il potere e lo stile, perché la classe politica sia unanimemente considerata come caratterizzata da «dominio della mediocrità, incapacità di formulare giudizi e di elaborare progetti a lungo termine, mancanza di idee guida, sete di potere, avidità …». Enzensberger descrive le giornate del politico medio e soprattutto la sua traiettoria biografica, perlopiù sostanziata da lotte per il potere interne al proprio partito, tentativo di farsi conoscere, infinite discussioni, attività (pseudo)relazionali solo con chi può essergli utile, mancanza di tempo per farsi una cultura e un campo proprio di competenze profonde. Un girone d’inferno che inizia prestissimo e non può essere adatto a chi possegga doti di rigore intellettuale, desiderio di conoscenza, finendo con il selezionare negli anni solo i più idonei a reggere tutto questo.
Ma se per un palato tedesco ciò può bastare, per uno italiano non è sufficiente. Per stare anni in parlamento e in un partito e non avere idea di cosa sia la Consob, Enzensberger non è sufficiente. Forse può venirci in soccorso, e con uno sguardo più sistemico, il sociologo Jean Lojkine. Lojkine sostiene che il capitalismo moderno escluda anche i dirigenti da ogni forma di decisione strategica. Il potere si è trasferito molto in alto è tutti i dipendenti, compresi i dirigenti (in contraddizione semantica con il termine che li designa) sono solo degli esecutivi. Se estendiamo questa descrizione alla politica ci accorgiamo di quanto sia illuminante. Un parlamentare, un sottosegretario, un ministro non decidono nulla. Accordi, trattati, commissioni europee, authority e organismi internazionali hanno già deciso la direzione, un ministro deve solo dare corpo a queste decisioni e presentarle in modo che servano la propria reputazione, quella del proprio partito, quella del proprio governo e, infine, che nei meandri delle applicazioni, si possano favorire quegli attori economici a cui la propria area fa grato riferimento.
Ecco perché, in generale, e più sfacciatamente in quei ministeri (Cultura, Istruzione, Ricerca universitaria) dove sarebbe ovvio succedesse, non vedrete mai intellettuali. Dunque non solo non abbiamo come ministro dell’istruzione un Croce o un Gentile, ma non dobbiamo neppure averli perché un individuo che conosce le questioni, ci abbia riflettuto e abbia costruito una propria visione cozzerebbe con il ruolo che ormai il ministro deve avere. Averli sarebbe penoso per loro e per il governo stesso. Un Croce ministro verrebbe sconfessato all’istante dal proprio governo o si dimetterebbe lui stesso. Le sue decisioni si infrangerebbero con i mille protocolli, accordi, agende, indirizzi delle organizzazioni internazionali, che prima di lui sono stati sottoscritti. Non avere idee, non avere cultura e visione del mondo, forse non sarà necessario, ma di certo aiuta nell’esercizio attuale della politica. Un uomo di cultura verrebbe costantemente intralciato dalle proprie idee pregresse sui temi e dalla propria attitudine a ragionare invece che a eseguire. Persino nel caso in cui se ne trovi uno del tutto prono agli interessi esterni non sarebbe mai adatto quanto può esserlo qualcuno che non sappia nulla. Ecco perché, ad esempio, in questi anni l’università e la scuola sono state riformate da oscuri tecnocrati o da esordienti assoluti e perché anche l’attuale governo dopo una manfrina sulla contro-egemonia culturale si sia ben guardato dal chiamare un intellettuale e abbia preferito dare un segnale di continuità ben chiaro mettendo all’Istruzione un ex-sottosegretario del ministro Gelmini e collaboratore del ministro Bussetti.
Un sistema politico che metta il possesso di una visione del mondo e di una cultura come una nota d’ostacolo al proprio successo lancia un segnale molto chiaro. In una società a trazione tecnocratica essere moderatamente ignoranti e restare sempre dentro il perimetro della ragione strumentale è la presentazione ideale. Ignoranti che votino in parlamento, tecnocrati che organizzino i meccanismi parlamentari, economici e governativi e qualche “intelligenza emotiva” deviata che organizzi il consenso e l’interfaccia comunicativo con il popolo sono più che sufficienti per mandare egregiamente avanti la baracca.
Resta la questione dei leader. Le personalità “tecnocratiche” appaiono fredde e poco convincenti (si pensi a Letta, Tajani, Gentiloni eccetera). I leader devono invece massimamente simulare una visione del mondo e un ideale sapendo però come tutto vada subitaneamente dismesso quando cozzi con le linee guida del potere internazionale e come questa visione, qualunque essa sia, non debba mai incidere la polpa del sistema. Un ottimo caso di studio in proposito è costituito da Berlusconi qualora si pensino le sue reali convinzioni e amicizie estere e le azioni invece intraprese dai governi che ha guidato o di cui ha fatto e fa parte, oppure si pensi alla assai varia traiettoria politica di Matteo Renzi. Qui però il tema dell’ignoranza trova i suoi limiti e non può più aiutarci a capire. Qui serve, più che altro, una conoscenza profonda della capacità di divaricazione della persona e della sua capacità di reggerla.
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