L’Unione Europea all’attacco del comparto agroalimentare italiano
Giorgia Audiello
Avanti.it
Le cosiddette politiche verdi, contenute all’interno del Green Deal europeo – il progetto della Commissione europea che mira a ridurre a zero le emissioni di CO2 entro il 2050 – non stanno creando solo gravi scompensi al settore automobilistico, per via della difficile transizione all’elettrico, o all’edilizia a causa delle costosissime direttive “green” sugli immobili, ma anche e soprattutto al comparto agroalimentare italiano, che rischia di essere smantellato dai programmi di Bruxelles. Questo è quanto sostiene il consigliere delegato di Filiera Italia Luigi Scordamaglia che, in una recente intervista, ha affermato che «non c’è mai stata una coincidenza, e in così poco tempo, di proposte legislative mirate a smantellare la produzione agroalimentare europea e in particolare la zootecnia che significa anche latte e formaggi. In contemporanea si propongono la carne sintetica, i grilli, le proteine alternative. Delle due l’una: o sono poco attenti o sono in male fede». Il programma più importante di rimodellamento del sistema agroalimentare europeo all’insegna della “sostenibilità” e della transizione ecologica promosso dalla Commissione è il Farm to Fork: si tratta di un piano decennale che coinvolge l’intera filiera alimentare europea, dalla produzione al consumo, passando per la distribuzione con l’obiettivo di rendere i sistemi alimentari più sostenibili di quanto lo siano oggi. Tuttavia, dietro le buone intenzioni di facciata, il piano potrebbe comportare diverse conseguenze catastrofichee, tra cui un calo della produzione agricola e zootecnica che implicherebbe necessariamente una maggiore importazione dall’estero e, di contro, il calo dell’export, oltre ad una crescita notevole dei prezzi della maggior parte dei beni alimentari, di cui già oggi le classi sociali meno abbienti pagano le conseguenze per l’interruzione parziale delle catene alimentari.
I principali obiettivi del Farm to Fork sono azzerare l’impatto ambientale per contrastare il cambiamento climatico, aumentare la biodiversità e garantire cibo sostenibile per tutti. Per raggiungere questi traguardi, sono previste misure che rischiano di paralizzare l’export italiano che oggi vale 60 miliardi di euro e cresce del 17% l’anno. Tra queste, la riduzione della domanda di carne del 20%, la destinazione del 25% dei terreni agricoli all’agricoltura biologica, il dimezzamento dell’uso dei pesticidi e la diminuzione del 20% dei concimi chimici. Tutte iniziative apparentemente lodevoli: tuttavia, in base a studi rigorosi, come quello effettuato dall’Istituto di economia agraria dell’Università di Kiel, in Germania, i risultati in termini ambientali sarebbero modesti, mentre le ripercussioni sul piano economico sarebbero pesanti soprattutto per i ceti meno facoltosi. A ciò si aggiunge anche il fatto che la UE pretende che l’Italia riduca del 4% la superficie di terreni coltivati per lasciarli a riposo. Il tutto si traduce in una riduzione della produzione e, di conseguenza, nell’aumento della dipendenza alimentare dall’estero e in una inflazione dei beni alimentari dovuta alla scarsità di offerta e a una domanda, invece, costante. In altre parole, è a rischio la sovranità alimentare europea – che seguirebbe le sorti di quella energetica – e la possibilità di acquisto di generi alimentari di qualità da parte della popolazione. Per quanto riguarda il piano ambientale, secondo lo studio dell’Università di Kiel – firmato da Christian Henning e commissionato dal Grain Club, un gruppo di cinque associazioni tedesche impegnate in vari comparti agroalimentari – «il progetto Farm to Fork, limitandosi a dettare riduzioni della produzione, si dimostra incapace di soddisfare gli stessi obiettivi del Green New Deal». .
Contro il modello “disfunzionale” europeo, Scordamaglia mette in risalto quello italiano: un modello virtuoso da prendere ad esempio per una produzione sostenibile. Il consigliere di Filiera Italia, infatti, ha affermato che «l’Italia, con l’agricoltura di precisione, con l’abilità dei produttori, ha gli impatti più bassi e la maggiore valorizzazione delle risorse al mondo», aggiungendo che si tratta di un modello che per le multinazionali e i concorrenti stranieri «deve essere fermato in ogni modo», in quanto «è pericoloso per chi, come la Cina, vuole produrre senza vincoli e per le multinazionali che vogliono omologare con i sintetici». Non a caso, il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, è molto vicino alle multinazionali della chimica e della nutrizione e Scordamaglia lo ha descritto come «animato da una volontà liquidatoria dell’agricoltura», spiegando che con la presidenza svedese «vuole assimilare le piccole stalle alle grandi industrie per il pagamento e i livelli di emissione di Co2. È la fine della zootecnia».
A danneggiare la produzione e i mercati agroalimentari europei, e italiani in particolare, sono stati anche i trattati di libero scambio voluti dalla Ue, come il CETA: un accordo commerciale di libero scambio tra Canada e Unione Europea che ha permesso l’invasione dei mercati europei da parte delle merci canadesi, la cui produzione segue standard qualitativamente inferiori a quelli europei. A mero titolo d’esempio il Canada consente l’uso di glifosato – un diserbante risultato cancerogeno –per la coltivazione del grano. Ma non solo: dal punto di vista dell’Italia, l’accordo tutela solo 41 prodotti tipici, un numero esiguo se paragonato al dato totale comprensivo di IGP, DOP, DOC e IGT. Di conseguenza, l’accordo favorisce la contraffazione del Made in Italy e in particolare danneggia il settore DOP che vale 19 miliardi, di cui 10,5 fatturati all’estero. Nell’accordo col Canada, la Commissione europea ha sacrificato proprio due dei prodotti DOP italiani più importanti: il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano. La conseguenza è che tra il 2018 e il 2019 la contraffazione di formaggi italiani in Canada è aumentata di 484 tonnellate (+49%). Senza la contraffazione dei prodotti DOP, il fatturato italiano potrebbe raggiungere i 30 miliardi.
Le iniziative europee – che puntano anche a colpire la produzione vinicola inserendo il vino all’interno dei prodotti nocivi per la salute – paiono strategicamente orientate a picconare la produzione agroalimentare italiana che con il solo 0,4% di terreni coltivabili vale 170 miliardi, produce un valore aggiunto agricolo di 60 miliardi e ha il record di DOP e IGP per un valore di 19 miliardi. Il settore agricolo, inoltre, dà lavoro a 4 milioni di persone, tra le quali sono in aumento i giovani: secondo Divulga, infatti, nell’ultimo anno sono nate 17 nuove imprese agricole al giorno gestite da under 35. L’Italia ha il primato quasi assoluto in questo comparto, proponendo un modello alimentare – quello della dieta mediterranea – e agricolo tra i migliori al mondo: sembra che la cosa disturbi la Commissione europea e le nazioni del nord Europa, tanto che l’Irlanda ha ottenuto il benestare della Commissione per scrivere sulle bottiglie di vino: “non lo bevete, fa venire il cancro” e ha già depositato il regolamento delle etichette antialcol al WTO (l’Organizzazione mondiale del Commercio). Dopo aver smantellato l’industria pubblica italiana con la grande stagione delle privatizzazioni negli anni Novanta, dunque, ora Bruxelles tenta di ripetere lo stesso schema col settore alimentare che, nonostante la mancata tutela dei nostri prodotti, ha risultati eccellenti in termini qualitativi e commerciali. Si tratta quindi di non cedere alle iniziative di matrice ideologica promosse dalla Ue, difendendo una delle tante eccellenze nostrane. Secondo Scordamaglia, «la Commissione vuole in tutti i modi forzare la mano sul “green”, anche se le misure non stanno in piedi». Ha quindi aggiunto che «siamo in una fase critica, ma se riusciamo a resistere per due o tre mesi a questa deriva ideologica, alcuni pericoli li scongiuriamo, proponendo le nostre soluzioni. Per esempio, l’agricoltura di precisione e la difesa della qualità e della ruralità».
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