Le sanzioni anti-russe riconfigurano il commercio mondiale... a danno dell’Occidente
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Una delle ricadute più dirompenti generate dal conflitto russo-ucraino è indubbiamente costituita dalla ristrutturazione degli equilibri commerciali a livello globale, spinta anzitutto dalla celerità con cui una serie di nazioni asiatiche sono penetrate negli interstizi aperti dalle sanzioni draconiane irrogate contro la Federazione Russa dagli Stati Uniti e dai loro alleati/vassalli.
A partire dall’India, che nel corso del 2022 ha beneficiato degli sconti applicati da Mosca per incrementare il volume giornaliero di petrolio importato dalla Russia di ben 33 volte (da 36.255 a 1,2 milioni). Un aumento colossale, che ha portato la quota di fabbisogno indiano coperta dal greggio russo dallo 0,2 a 25% nell’arco di dieci mesi, consentendo altresì a Nuova Delhi di accreditarsi come grande centro di redistribuzione del petrolio russo verso i Paesi aderenti alla campagna sanzionatoria contro Mosca promossa da Washington. Tra cui gli stessi Stati Uniti, che acquistano dall’India ingenti quantità di Virgin Gas Oil (Vgo), una particolare miscela prodotta dalle raffinerie di proprietà delle società indiane Reliance Energy e Nayara Energy a partire dal greggio russo, acquistato presso Abu Dhabi in cambio di yuan, euro, dollari di Hong Kong e dirham degli Emirati Arabi Uniti. Paese, quest’ultimo, il cui interscambio con la Russia è aumentato nel corso del 2022 del 68%, a quota 9 miliardi di dollari, grazie soprattutto all’impatto delle importazioni dalla Federazione Russa. Stesso discorso vale per la Turchia, che con il raddoppio dell’import dalla Russia realizzato tra il 2021 e il 2022 si è imposta come imprescindibile «piattaforma commerciale tra la Russia e i suoi sanzionatori occidentali».
Anche la Cina ha approfittato della campagna sanzionatoria orchestrata nei confronti della Russia per consolidare la propria posizione commerciale, attraverso l’apertura di trattative con i vertici del Cremlino volte alla definizione di contratti a lungo termine per la fornitura di materie prime a prezzi notevolmente inferiori a quelli di mercato. Per un verso, il conseguente incremento del differenziale inflazionistico con l’Occidente conferisce alle merci cinesi accresciuti livelli di competitività assicurando Pechino la possibilità di conquistare nuove quote di mercato e di accelerare il rinnovamento tecnologico della propria struttura economica. Per l’altro, l’accesso privilegiato alle immense riserve minerarie ed energetiche russe supporta in maniera potenzialmente decisiva le ambizioni nutrite dall’apparato dirigenziale di Pechino in materia di incremento dell’influenza cinese sui mercati mondiali delle materie prime. Dal rame al litio, dall’alluminio alle terre rare, dal petrolio al Gas Naturale Liquefatto (Gnl), la Cina sta facendo crescente affidamento sulla solida sponda russa non soltanto per assicurare la copertura della domanda interna, ma anche per ergersi a punto di riferimento inaggirabile delle catene di approvvigionamento che caratterizzeranno il futuro assetto multipolare.
Se India, Emirati Arabi Uniti, Turchia e – anche se in maniera quantitativamente e qualitativamente diversa – Repubblica Popolare Cinese vanno accreditandosi come canali paralleli per l’export russo, le nazioni dell’Asia centrale e del Caucaso sembrano invece propense a svolgere un ruolo opposto e complementare: quello di “porte secondarie” volte a garantire alle merci occidentali l’accesso al mercato della Federazione Russa. Lo si evince in maniera inequivocabile dalle drastiche variazioni dei dati relativi all’export dell’Unione Europea verso tutti questi Paesi intercorse tra la fascia maggio-luglio 2019 e lo stesso arco temporale relativo al 2022. Secondo le statistiche fornite dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, tra i due periodi in oggetto l’export europeo ha subito un calo rispettivamente del 56 verso la Russia e del 39% verso la Bielorussia, a fronte di una crescita stratosferica realizzata in direzione degli Stati dell’Asia centrale e del Caucaso. Si parla di un incremento del 14% in riferimento al Kazakistan, del 19% alla Georgia, del 21% al Tajikistan del 72% all’Armenia e dell’84% al Kirghizistan. Ancor più sbalorditivi risultano i dati relativi all’export statunitense, diminuito dell’88% verso la Russia e del 90% verso la Bielorussia, ma aumentato del 24% verso il Kazakistan, del 33% verso la Georgia, del 152% verso il Kirghizistan, del 220% verso il Tajikistan e del 348% verso l’Armenia.
Di fatto, le sanzioni irrogate dallo schieramento euro-atlantico contro Mosca hanno stimolato la creazione ex novo di canali paralleli per l’import-export alternativi a quelli “tradizionali”, che stanno a loro volta non solo mitigando enormemente l’impatto delle misure punitive sull’economia della Russia, ma anche ristrutturando i flussi del commercio mondiale secondo una conformazione particolarmente vantaggiosa per i Paesi non allineati, e nettamente sfavorevole per gli Stati membri del cosiddetto “G-7 allargato”.
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