Cul-de-sac
Mentre le classi dirigenti europee fanno
tristemente mostra di una smisurata pavidità nei confronti di
Washington, negli Stati Uniti cresce invece il dibattito – e lo scontro
politico – tra le due attuali fazioni (trasversali) del bellicismo
imperialista: i russofobi neocon ed i super-falchi anti-cinesi.
Il punto di partenza, anche se i primi tendono ovviamente a nasconderlo,
è la consapevolezza che la strategia messa in atto in Ucraina contro la
Russia si è rivelata un fallimento, politico e militare. Per i neocon
ciò significa che bisogna rilanciare, alzare il livello dello scontro,
sino a portarlo – se necessario – ai limiti di un nuovo conflitto
mondiale. Mentre per i secondi significa trovare il prima possibile una
via d’uscita dal pantano ucraino, cercando di salvare la faccia (e non
solo quella) e prepararsi per lo scontro con Pechino.
Due errori
Può apparire tragicamente incredibile, ma in fondo all’origine del
prolungamento del conflitto ucraino ci sono due clamorosi errori; uno,
politico, di Mosca, ed uno, militare, di Washington.
È ormai abbastanza chiaro che, nel momento in cui la Russia dava il via all’Operazione Speciale Militare,
l’obiettivo era quello di forzare la mano (non solo a Kyev, ma anche e
soprattutto agli europei ed a Washington), portandoli rapidamente ad un
tavolo di trattativa, con l’intento di ottenere ciò che non era stato
possibile avere sino a quel momento: autonomia per il Donbass,
riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa, e
garanzia di sicurezza (no all’Ucraina nella NATO).
Quello che Mosca
non aveva colto è che negli USA era prevalsa la corrente più
oltranzista, che puntava allo scontro militare, e che i paesi europei
non avevano alcuna capacità di ritagliarsi una qualche autonomia, e
quindi la prospettiva era semplicemente irrealistica. Errore politico.
D’altro canto, le mosse militari della fase inziale della OSP, per certi versi incomprensibili e confuse, hanno generato negli states la convinzione che le forze armate russe fossero decisamente non all’altezza, e quindi piuttosto che con la strategia di guerriglia (con
cui la NATO pensava di impegnare i russi, e che effettivamente
caratterizzò la primissima tattica ucraina), si poteva batterle in una
guerra aperta. Errore militare.
Si tratta in entrambe i casi di errori clamorosi – e non solo per le
conseguenze. Il fatto che la leadership del Cremlino, certo non composta
da sprovveduti, anzi (uno su tutti, un personaggio di indubbia levatura
come Lavrov), abbia potuto non cogliere ciò che si stava muovendo in
campo occidentale, in quale direzione e con quanta determinazione, è
stupefacente. E sì che si trattava a quel punto di una storia abbastanza
lunga, dal golpe di piazza Maidan all’addestramento NATO
dell’esercito ucraino, dai finti accordi di Minsk alle tre grandi
esercitazioni NATO in Ucraina nel solo 2021, dall’aggressione alle
repubbliche del Donbass all’ostinato rifiuto di accettare qualsiasi
discussione sulla sicurezza in Europa.
Ugualmente, lascia stupiti che
al Pentagono si siano fatti ingannare così clamorosamente sulle
capacità militari della Russia, e del resto anche della stessa Ucraina.
E, conseguentemente, persino sulle proprie e su quelle della NATO nel
suo complesso.
La conclusione – sconcertante – è che entrambe le
potenze sono arrivate ad un passo dallo scontro diretto (peraltro ancora
niente affatto escluso) senza conoscersi e comprendersi davvero.
Da questo clamoroso e reciproco misunderstanding, ha preso
avvio la pericolosa spirale che ancora avviluppa l’Europa. Il cui unico
aspetto positivo è che, per come si sono messe le cose, la prospettiva
della sirianizzazione del conflitto è definitivamente
cancellata. Le possibilità di cronicizzare la guerra, congelandola in
una lunga stagione di guerriglia ucraina, con i nazisti locali nel ruolo
dell’Isis, è tramontata quando Washington (e Londra…) hanno convinto
Zelensky che con l’appoggio NATO avrebbe potuto vincere, spingendo gli
ucraini a cacciarsi in un tunnel senza uscita. O meglio, in fondo al
quale c’è un gigantesco tritacarne.
Ma se per Kyev la partita ha
ormai una portata drammatica, essendo in gioco non più soltanto
l’integrità territoriale del paese, ma la sua stessa sopravvivenza (1),
anche per i suoi sponsor la faccenda si sta facendo seria. Per
dirla con le parole di Alastair Crooke (ex diplomatico britannico,
fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut), “il palloncino ucraino è scoppiato. Lo sanno gli ambienti militari e civili di Washington. L’elefante nella stanza dell’inevitabile successo russo è riconosciuto (…). Sanno anche che il pallone della NATO (come forza formidabile)
è scoppiato. Sanno che è scoppiato anche il pallone della capacità
industriale occidentale di fabbricare armi – in quantità sufficiente e
per una lunga durata” (2).
Due opzioni
Mentre Mosca, mostrando grande duttilità e prontezza, è stata
rapidamente capace di riorientare non solo la propria strategia militare
(e industriale), ma l’intera direzione politica su cui si muove il
paese, gli ambienti NATO – ubriacati dalla veemenza oltranzista dei neocon,
e da quella ideologica dei Democratici – si sono a lungo cullati
nell’illusione che la propria narrazione propagandistica fosse realtà,
finché non hanno cominciato a sbatterci il muso.
Sostanzialmente, da quando l’Operazione Speciale è
stata posta sotto un comando unificato, ed è cominciata la pesante
offensiva missilistica su tutta l’Ucraina, la NATO procede per forza
d’inerzia, senza una vera e propria idea strategica, né su come
conseguire un’impossibile vittoria, né su come anche solo impedire la
vittoria russa.
Quella che viene rivenduta dalla grancassa propagandistica come una dosata e programmata escalation delle
forniture militari (sempre troppo poche e troppo tardi, per avere un
qualche effetto sul terreno), non è infatti altro che l’inseguimento
degli eventi.
Ma, come tutte le narrazioni lontane dalla realtà, prima o poi si sfaldano e la lasciano apparire.
Ormai su questo dato di fatto, negli USA, si è evidenziata non solo la polarizzazione tra
due opposte visioni strategiche, ma su di essa sta emergendo un vero e
proprio scontro politico, i cui esiti sono al momento assai incerti.
Ovviamente,
l’andamento della guerra, e le difficoltà che la NATO sta affrontando
per continuare a sostenerla, sono tutti elementi che giocano a sfavore
degli ambienti russofobici, che su questa guerra hanno scommesso. Ma,
per quanto i dati reali ne indeboliscano la posizione, ve ne sono altri
che invece la rendono ancora ben salda.
Innanzi tutto, l’entourage presidenziale ed il Democratic National Committee (3),
per il quali l’investimento politico sulla guerra è stato totale, hanno
ovviamente ancora moltissime leve del potere nelle proprie mani. E
naturalmente, oltre a poter contare sull’influenza dei think tank neocon su parte del GOP (4), hanno l’appoggio della potente lobby dell’industria militare, che sulla guerra sta lucrando riccamente.
All’opposto, buona parte dei Repubblicani, in particolare i trumpiani, sono sempre stati scettici sull’apertura di ostilità con la Russia, avendo in mente soprattutto il conflitto finale con
la Cina. A questo blocco politico si affianca – per ora assai
discretamente, soprattutto attraverso gli interventi di ex-militari –
una parte importante del Pentagono, che ha direttamente il polso della
situazione, sia per quanto riguarda l’andamento sul campo, sia per
quanto riguarda l’impatto sulle capacità operative delle forze armate
statunitensi (e NATO in generale). Probabilmente, potrebbero contare
sull’appoggio di alcuni grandi fondi d’investimento, che attendono la
fine della guerra per avventarsi sulla colossale operazione di
ricostruzione dell’Ucraina – anche se il colosso Blackrock è legato alla
famiglia Biden.
Si tratta al momento di una situazione fluida, in cui lo scontro politico è ormai alla luce del sole, ma ancora in una fase soft, e senza che tutti gli stakeholder abbiano
preso ufficialmente posizione. Molto dipende dagli eventi, e da come
saranno gestiti. Ma indubbiamente il partito anti-cinese sta guadagnando
punti, tanto da potersi permettere di criticare apertamente la scelta
oltranzista dell’amministrazione.
Le due fazioni si sferrano colpi su colpi, segno che la questione sta
diventando urgente per entrambe. E così, in rapida successione, si
registra dapprima un’intervista al generale Mark Malley, Capo degli
Stati Maggiori congiunti USA, che dichiara al Financial Times “è
molto difficile che l’Ucraina cacci i russi da tutto il territorio”, un
eufemismo per dire che l’obiettivo della vittoria ucraina è pura
utopia. Immediata è però arrivata la risposta della Nuland (5), vera e
propria anima nera dell’intero dossier ucraino, che è tornata a rilanciare, dichiarando pubblicamente (al Carnegie Endowment for International Peace) che Washington sostiene gli attacchi dell’Ucraina contro le strutture militari russe sul territorio della Crimea.
Ma
è stata la Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, il palcoscenico scelto
dai russofobi per inscenare un notevole fuoco di fila. Dai tedeschi
(Pistorius, Ministro della Difesa: “l’Ucraina deve vincere la guerra”;
Baerbock, Ministro degli Esteri: “una risoluzione anti-russa sarà
presentata alle Nazioni Unite”) ai britannici (Sunak, Primo Ministro:
“il Regno Unito invierà missili a lungo raggio in Ucraina”), e
ovviamente la NATO (Stoltenberg, Segretario Generale: “il rischio di
un’escalation del conflitto in Ucraina per la NATO è incomparabile con
il pericolo di una vittoria russa”).
A calare il carico da undici sono ovviamente gli USA, rappresentati
ai massimi livelli; il Segretario di Stato Anthony Blinken: “non abbiamo
dubbi sulla vittoria e il successo dell’Ucraina”, la vice-presidente
Kamalah Harris: “Gli Stati Uniti hanno stabilito formalmente che la
Russia ha commesso crimini contro l’umanità”.
Il messaggio lanciato è una sorta di mussoliniano vincere e vinceremo!, che suona però più come un training autogeno
che non come un effettivo programma politico-militare. Da un certo
punto di vista, la Conferenza di Monaco sembra essere stata una
gigantesca manifestazione di autismo dell’occidente, che continua a
rappresentare (e rappresentarsi) la Russia come un’entità quasi
demoniaca (a quando il revival de l’impero del male di
reaganiana memoria?), ed al tempo stesso ne oblitera l’esistenza, quasi
che l’unica cosa possibile per Mosca fosse la resa incondizionata.
Paradigmatica di questo autismo occidentale è una frase pronunciata
sempre da Blinken, secondo il quale “tutti i legami della Russia con il
mondo sono stati recisi uno per uno”. Per i cortigiani ed i vassalli
dell’impero, riuniti nella colonia germanica, sono loro il mondo intero.
Una realtà
Ciò con cui entrambe le linee devono fare i conti è comunque la realtà del conflitto. Per i neocon,
la questione va risolta – appunto – rilanciando continuamente; fornendo
carri armati pesanti e sistemi anti-missile, fornendo jet da
combattimento, e se fosse necessario trovando il modo di fornire
significativi rinforzi di personale combattente, usando a tal fine gli
scalpitanti polacchi. La speranza è che, grazie a questi aiuti,
l’Ucraina riesca a non collassare, a mantenere non solo una parvenza di
struttura statuale e politica ma anche una capacità di combattimento,
quanto meno tale da rallentare al massimo l’avanzata russa. In una sorta
di corsa contro il tempo, il piano sarebbe quello di imbottire
l’esercito ucraino con una dose di mezzi e sistemi d’arma occidentali,
affinché riesca in estate a tentare una qualche controffensiva,
recuperando magari qua e là pezzi di territorio; o quanto meno, a non
farsi travolgere dalla prevista offensiva russa (che però nessuno ha
idea come e quando si dispiegherà). A quel punto, sfruttando la
successiva stasi autunnale, puntare ad un qualche accordicchio (una
sorta di Minsk III), che dia a Kyev tempo e modo per riprendere fiato.
Ovviamente,
questo approccio ha due grossi limiti: non tiene sostanzialmente conto
dei russi (di ciò che faranno sul terreno, e della loro disponibilità ad
accordi al ribasso), e si gioca sul filo del rasoio, con la possibilità
che le cose si mettano talmente male da non potersi più tirare
indietro, e trovarsi coinvolti direttamente in uno scontro con la
Federazione Russa.
Stesso problema, e stessa difficoltà, per i fautori del disimpegno. Poiché la questione cruciale rimane come uscire dal cul-de-sac,
come porre fine al conflitto senza aver l’aria di perdere – cosa che,
dopo la sconfitta afghana, e quella (sostanziale) siriana, rischierebbe
di avere enormi contraccolpi sulla credibilità di USA e NATO, sia verso
amici ed alleati, sia (ancor più) verso quel resto del mondo che già li
guarda con fastidio e diffidenza. Questo è ovviamente l’ostacolo
maggiore, ma non il solo. Va infatti tenuto conto che, oltre ai già
menzionati avversari interni, un disimpegno (relativamente) rapido (6)
incontrerebbe ostacoli sia a Kyev che a Londra e Varsavia. E se da un
lato la sostituzione di Zelensky non sarebbe certo un problema (i
candidati stanno già scaldando i muscoli, a partire da Arestovyč (7)),
incrinare i rapporti con gli ultras britannici e polacchi non farebbe comunque bene alla NATO.
Lo
sganciamento graduale sarebbe ovviamente la situazione ideale, tenuto
anche conto che – nella prospettiva dello scontro con la Cina – gli USA
devono recuperare la loro piena capacità offensiva, senza mai perdere
quella dissuasiva (8).
In considerazione di tutto ciò, i prossimi sei mesi saranno decisivi.
Non solo perché sono quelli in cui è possibile che si operino dei
cambiamenti significativi (in un senso o nell’altro) sul campo di
battaglia, ma perché questa è anche la finestra temporale entro la quale
dovranno essere risolte alcune questioni fondamentali della politica
statunitense, per la quale il 2024 è anno di elezioni presidenziali.
La
ricandidatura – o meno – di Biden, dipenderà molto dalle scelte che
verranno operate in ambito democratico; l’attuale presidente potrebbe
essere ritenuto un utile capro espiatorio, e quindi affondato in
favore di un altro/a condidato/a, oppure potrebbe darsi che venga
ritenuto più utile fare quadrato intorno a lui. Ugualmente, si dovrà
vedere se i Repubblicani candideranno nuovamente Trump, o se opteranno
per una candidatura più possibilista rispetto al conflitto. O se magari Trump deciderà di andare per proprio conto.
Una
sola cosa è certa, e cioè che in tutto questo gli europei continueranno
a fare da spettatori, aspettando di capire dove saranno condotti
prossimamente, e gli ucraini continueranno a farsi macellare in una
serie di battaglie senza speranza.
1 – Anche al netto della sempre più probabile spartizione (con
polacchi ed ungheresi pronti a prendersi pezzi di territorio più o meno
ampi), c’è il combinato disposto di un paese praticamente distrutto
dalla guerra, privato delle sue regioni più ricche e produttive,
dissanguato – tra guerra e fughe all’estero – della sua forza lavoro, e
con un debito semplicemente spaventoso – destinato ad aumentare giorno
dopo giorno.
2 – Cfr. Alastair Crooke, “Endgame for Ukraine: America vs America”, strategic-culture.org
3 – Organo collegiale che dirige il Partito Democratico statunitense
4 – Good Old Party, il Partito Repubblicano
5 – Victoria Jane Nuland, Sottosegretario di Stato per gli affari politici
6
– Il fattore tempo è decisivo, sia perché gioca a favore di Mosca, sia
perché più si va avanti più diventa difficile la situazione dei paesi
NATO, sia perché diventa sempre più complicato districarsene.
7 –
Oleksij Mykolajovyč Arestovyč è un politico, militare e psicologo
ucraino di origini bielorusse, ex consulente esterno per le strategie di
comunicazione in ambito difesa e sicurezza nazionale dell’Ufficio di
presidenza dell’Ucraina.
8 – Anche se Pechino non vuole risolvere
militarmente la questione della riunificazione di Taiwan, è ovvio che
qualora vedesse aprirsi una finestra di opportunità, in cui portare a
termine l’operazione al riparo da qualsiasi reale reazione americana,
potrebbe anche prenderla in considerazione.
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