Netanyahu cerca l'escalation
L’assassinio del generale Reza Zahedi (nella foto) in un edificio dell’ambasciata iraniana di Damasco, assassinato insieme ad altri membri delle guardie rivoluzionarie, supera un’altra delle linee rosse che normalmente hanno limitato la portata dei conflitti del Secondo dopoguerra, evitando al mondo escalation ingestibili (il mondo guidato da regole esisteva prima dell’89; dopo il crollo del Muro, le regole sono state riscritte a uso e consumo degli Usa…).
Anzitutto perché Israele ha colpito un alto ufficiale di una nazione non ufficialmente in guerra. Per analogia, è come se la Russia uccidesse il capo del Pentagono o il Segretario della Nato perché gli Usa sostengono con armi, intelligence e tanto altro l’Ucraina. E per di più all’interno di una nazione sovrana, anch’essa non ufficialmente impegnata nel conflitto in corso, e infrangendo le norme riconosciute da tutto il mondo che fanno delle sedi diplomatiche luoghi inviolabili.
Netanyahu alla ricerca dell’escalation
Gli Stati Uniti hanno subito preso le distanze dall’attacco, comunicando a Teheran che non hanno nulla a che fare con esso (Axios). Certo, ma resta il sostegno incrollabile a Israele, nonostante la palese, tragica, azione compiuta, che aveva il potenziale di scatenare una guerra su larga scala.
Lo accenna anche Dagospia, in una nota tragicomica che fotografa la miseria dell’establishment italiano – il sito in questione subisce tale influenza e la riverbera in modalità popolare – evitando di interpellarsi seriamente sullo strappo compiuto e sulle responsabilità che tale strappo pone sulle spalle degli iraniani, che avevano tutto il diritto di rispondere allo stesso modo.
La tesi che Teheran non ha risposto solo perché sa che sarebbe incenerita dall’alleato americano, come annota il sito, non coglie la drammaticità della situazione, cioè che se gli Usa hanno subito comunicato la loro estraneità è perché non possono permettersi un ingaggio diretto con l’Iran.
Non hanno munizioni sufficienti a sostenere una grande guerra a causa del sostegno all’Ucraina, né sarebbe tanto semplice per loro usare l’aviazione. Anzitutto perché Teheran ha i missili ipersonici, contro i quali le portaerei risultano quasi indifese. Inoltre, perché Teheran ha una contraerea, al contrario di tutti i nemici affrontati finora dai top gun.
Peraltro, l’intervento Usa potrebbe arrivare troppo tardi, dal momento che Teheran ha il potenziale per incenerire Israele prima dell’intervento del golem Usa, reazione che potrebbe innescare l’uso dell’atomica da parte di Tel Aviv. Quest’ultima possibilità, però, è frenata dal rischio che Teheran, a sua volta, infierisca sia con vettori che con attacchi hacker sulla centrale nucleare di Dimona (vedi l’attacco-avvertimento del 20 marzo scorso).
Insomma, tante le variabili, e tutte a rischio ecatombe, di una eventuale reazione iraniana, che saggiamente ha deciso che la risposta non sarà in modalità escalation, ma a freddo.
Netanyahu, che naviga acque agitate a causa delle pressioni esterne perché freni la mattanza di Gaza e interne a causa delle contestazioni di sinistra, perché si dimetta, e di destra, perché riponga nel cassetto la norma sulla coscrizione degli ultra-ortodossi (finora esentati dalla leva), sta sparando a caso nel tentativo di allargare il fronte del conflitto, che gli permetterebbe di eludere la tagliola che rischia di schiacciarlo.
È dall’inizio della guerra di Gaza che spera in tale sviluppo e opera di conseguenza, ma l’attacco all’ambasciata segna un punto di svolta. Va frenato o vincerà la sua battaglia per la sopravvivenza, incendiando il mondo. Tale la follia del momento, tale la cecità di quanti, in Occidente e in Israele, plaudono al grande successo dell’operazione.
La mattanza di al Shifa e le invisibili kill zone
Intanto, sul fronte Gaza si rileva la fine della cosiddetta operazione al Shifa, che Israele celebra come un grande successo e i palestinesi e diverse organizzazioni umanitarie come l’ennesima mattanza consumata contro il più grande ospedale di Gaza, che prima della guerra era assurto a simbolo della sollecitudine della comunità internazionale per gli sventurati della Striscia.
Gli israeliani affermano di aver ucciso 200 persone e di averne arrestate 900 in 14 giorni di scontri. Secondo fonti diverse i morti sarebbero 300. Testimoni e operatori sanitari parlano di orrori consumati nel corso dell’attacco. Rimandiamo alla testimonianza della dottoressa Paola Manduca, della “Rete sanitaria italiana per Gaza”.
Nella sua testimonianza, l’assedio all’ospedale, con i pazienti lasciati senza cibo, acqua potabile, medicine e guanti (i medici hanno dovuto usare le buste di plastica, finché sono durate); il denudamento sistematico, anche per ore, dei medici che hanno tentato di negoziare con gli assedianti; le esecuzioni sommarie di tanti civili nei pressi dell’ospedale e di alcuni anche durante il “percorso sicuro” indicato per l’evacuazione. Dopo l’operazione, l’ospedale è ormai inagibile, essendo stato devastato e bruciato, come denuncia anche Medicines sans frontieres.
Israele nega tutto, ma la bolla della menzogna sta esplodendo. Lo evidenzia un articolo di Haaretz dal titolo “Israele ha creato delle Kill zone, chiunque vi entra viene colpito”.
Questo il sottotitolo: “L’esercito israeliano afferma che dall’inizio della guerra a Gaza sono stati uccisi 9.000 terroristi. Funzionari della difesa e soldati, tuttavia, dicono ad Haaretz che si tratta spesso di civili il cui unico crimine è stato quello di oltrepassare una linea invisibile tracciata dall’IDF”.
Al di là del contenuto, pure significativo, l’importanza dell’articolo sta nel fatto che i soldati israeliani hanno iniziato a parlare di gente uccisa solo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Prima o poi le voci dal sottosuolo cominceranno a emergere con più forza, com’è avvenuto per gli orrori di Sabra e Chatila. Anche per questo Netanyahu, e non solo lui, sogna una guerra su larga scala che tutto dilavi.
Quanto alla pressione degli States per frenare l’azione israeliana, si registra una certa distensione dopo l’invio di una delegazione di Tel Aviv negli Usa per sanare le divergenze.
Peraltro, l’America continua a essere distratta, non avendo ancora assorbito il trauma del collasso del ponte di Baltimora, trauma incrementato dalla paura per l’incidente che ha visto una chiatta urtare un pilone di un altro ponte (stavolta in Oklahoma e senza conseguenze disastrose) e di un incendio divampato sotto le campate di un altro ponte, sito quest’ultimo a Las Vegas, California.
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