Gaza, il tiro al bersaglio sugli operatori umanitari
L’uccisione dei sette operatori umanitari della World Central Kitchen segna un altro punto di svolta nella guerra di Gaza. I leader e i media occidentali non hanno potuto minimizzare né accreditare del tutto la versione israeliana che parla di un tragico incidente.
Per tutti ha parlato Biden che, dopo aver espresso dolore e indignazione, ha affermato: “La cosa ancora più tragica è che questo non un incidente isolato” perché la guerra di Gaza “è stata una delle peggiori degli ultimi tempi in termini di numero di operatori umanitari uccisi”.
Parole, solo parole, che accompagnano l’alimentazione a ritmo continuo della macchina da guerra israeliana che sta infierendo sui palestinesi. Così il Washington Post lo scorso venerdì: “Negli ultimi giorni l’amministrazione Biden ha tranquillamente autorizzato il trasferimento di miliardi di dollari in bombe e aerei da combattimento a Israele”. Lo riporta, tra gli altri siti, Antiwar, che riferisce come l’articolo abbia attirato migliaia di commenti indignati.
Non solo, anche il fatto che gli Usa chiedano a Israele di indagare sulla strage degli operatori della WCK suonerebbe esilarante se non fosse così tragico.
La strage e la fuga degli operatori umanitari da Gaza
L’eccidio di ieri ha avuto l’esito di allontanare da Gaza l’organizzazione di cui sopra e altre. Anche le navi cariche di aiuti umanitari, salpate da Cipro dopo lungo indugiare (“bloccate per motivi tecnici”, scriveva il Guardian), hanno fatto marcia indietro, tornando al porto di partenza.
Nonostante le quasi scuse delle autorità israeliane per “l’incidente non intenzionale” (tale la giustificazione dell’accaduto), non sembra che siano eccessivamente dispiaciute per la fuga delle organizzazioni umanitarie. Nessun esponente del governo ha chiesto che proseguano la loro opera, né hanno ricevuto rassicurazioni sul fatto che quanto accaduto non si ripeterà.
Peraltro, questo non sarebbe un atto umanitario da parte di Tel Aviv, ma un passo obbligato: lo richiede il diritto internazionale che impone a una forza occupante di sovvenire alle necessità della popolazione che subisce l’occupazione. Tant’è.
Nessuno crede all’incidente non intenzionale. Lo ha dichiarato pubblicamente l’amministratore delegato della WCK, Erin Gore, il quale ha scritto in una nota: “Questo non è solo un attacco contro la WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che operano nella situazione più terribile [mai affrontata] dove il cibo viene utilizzato come arma di guerra. È imperdonabile” (il neretto è nostro).
Lo riporta il Washington Post che prosegue così: “’Non è stato un incidente isolato’, ha detto il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite James McGoldrick, citando l’uccisione di almeno 196 operatori umanitari […] da ottobre a oggi nella Cisgiordania occupata e a Gaza. ‘Si tratta di quasi tre volte il bilancio delle vittime che si registra in un singolo conflitto nell’arco di un anno’”.
“‘Non si colpisce ripetutamente un convoglio estraneo al conflitto, colpendo tre veicoli in successione nel corso di un chilometro di strada, per sbaglio’, ha scritto sui social Jeremy Konyndyk, presidente dell’organismo umanitario Refugees International ed ex funzionario dell’amministrazione Obama: ‘Lo si fa per ostentare una cultura militare che tratta Gaza come una zona di fuoco indiscriminato, nella quale vige la totale impunità per i deplorevoli attacchi contro i civili’”.
Infine, sempre dal Wp, Ciarán Donnelly, vicepresidente dell’International Rescue Committee, il quale ha confidato ai cronisti del media americano che il raid avrà “un effetto dissuasivo” sulle organizzazione umanitarie che operano a Gaza, proprio adesso che il bisogno è salito al parossismo. Infatti, la strage “invia il segnale che nessun posto a Gaza è sicuro per nessuno”.
L’attacco al convoglio
Quanto all’impossibilità di un attacco non intenzionale, il report di Haaretz è tombale. Il convoglio della WCK, tre auto e un camion, era stato autorizzato a portare un carico presso un magazzino. Secondo l’esercito israeliano sul camion si trovava un uomo che avrebbe potuto essere armato, da cui l’allerta (del caso, era un terrorista? Un uomo di scorta, necessario a evitare che gli aiuti fossero depredati?).
Così prosegue il resoconto del giornale israeliano: “Pochi minuti dopo, le tre auto hanno lasciato il magazzino senza il camion sul quale si trovava l’uomo apparentemente armato [il corsivo è nostro ndr.]. Secondo fonti della difesa, l’uomo armato non si sarebbe allontanato dal magazzino. Le auto viaggiavano lungo un percorso approvato preventivamente e coordinato con l’IDF [Israel defence force]”.
“A un certo punto, mentre il convoglio stava percorrendo il tratto di strada concordato, la sala operativa dell’unità responsabile della sicurezza del percorso ha ordinato agli operatori dei droni di attaccare una delle auto con un missile”.
“Alcuni passeggeri sono stati visti scendere dall’auto colpita e salire su una delle altre due auto”. La seconda automobile ha quindi proseguito la sua strada, mentre gli operatori “informavano i loro responsabili di essere stati attaccati, ma, pochi secondi dopo, un altro missile ha colpito anche la loro auto” [possibile che i loro capi, informati del primo attacco, abbiano contattato gli israeliani, con i quali doveva esserci un filo diretto ndr].
“La terza macchina del convoglio si è accostata e i suoi passeggeri hanno iniziato a caricare i sopravvissuti al secondo attacco per portarli fuori pericolo. Ma è arrivato anche il terzo missile. Tutti e sette i volontari della World Central Kitchen sono stati uccisi”. Le automobili colpite, come noto, avevano i simboli distintivi in bella evidenza.
Di interesse notare, infine, che la World Central Kitchen ha prestato soccorso agli israeliani dopo l’attacco del 7 ottobre, come ricorda Haaretz. Probabile anche che gli assassinati fossero tra i soccorritori di allora…
Infine, è da annotare che, senza un coordinamento, gli aiuti destinati a Gaza scateneranno il caos: la gente si ammazzerà per sopravvivere o far sopravvivere i propri figli. Un po’ quel che raccontava, mutatis mutandis, Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”, quando accennava alle segrete insidie del campo di concentramento in cui era stato ristretto.
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