Israele - Hezbollah: il fronte si surriscalda
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Sale la tensione tra Hezbollah e Israele, con scambi di colpi e minacce reciproche. Hezbollah ha risposto all’assassinio del leader di Hamas Saleh al-Arouri, avvenuto a Beirut la scorsa settimana, colpendo la base israeliana di Meron.
Attacco che deve aver sorpreso non poco il nemico perché si tratta dell’istallazione chiave del fronte Nord, il sito di sorveglianza e di intelligence che supporta il contingente schierato ai confini libanesi.
Mossa intelligente perché di alto profilo e chirurgica, che dimostra l’alto livello tecnologico del potenziale di Hezbollah, ma allo stesso, tempo, come sottolineato da un articolo di Haaretz, si è trattato di una reazione “contenuta“, un segnale che Hezbollah non vuole l’escalation.
Invece di raccogliere il segnale, Israele ha rilanciato, uccidendo un comandante di Hezbollah: uno sfoggio muscolare teso a dimostrare la sua determinazione e, allo stesso tempo, a tenere aperta la porta dell’escalation.
Una sfida ad alto rischio, accompagnata da minacce altrettanto rischiose: il ministro della Difesa Yoav Gallant, infatti, usando la metafora informatica del copia-incolla, ha avvertito che sono pronti a fare di Beirut un’altra Gaza.
Haifa come Eliat, il potenziale di Hezbollah
Minacce che non spaventano Hezbollah, che per bocca del suo leader Hassan Narsallah ha dichiarato che se Israele deciderà di innescare una guerra su larga scala “non avremo limiti, né restrizioni, né regole di ingaggio, né confini”.
Avvertimento che va decodificato tenendo presente l’equazione che vige nella guerra a bassa intensità che da tempo si consuma al confine libanese tra i due acerrimi nemici, e alla quale Hezbollah finora si è attenuta, che vede il movimento islamico impegnarsi in risposte simmetriche alle iniziative dell’antagonista.
Un segnale su cosa intendesse Nasrallah è arrivato in tempo reale, con un missile lanciato dalla cosiddetta Hezbollah irachena contro la città portuale di Haifa. Il porto, infatti, sarebbe il primo obiettivo contro il quale si dirigerebbero i missili di Hezbollah. Con il suo arsenale potrebbe raderlo al suolo, come peraltro avvertì Nasrallah nel corso di una crisi precedente.
Hezbollah ha il potenziale per farlo. Infatti, come ricorda Burcu Ozcelik sul National Interest, “nel 2010, il segretario alla Difesa americano Robert Gates ha avvertito che Hezbollah possiede ‘molti più razzi e missili della maggior parte dei governi del mondo’. Le scorte si sono poi ampliate in modo significativo negli anni successivi”.
Se si tiene conto che il porto israeliano di Eliat, che si affaccia sul Mar Rosso, è al momento paralizzato dalle azioni di contrasto degli Houti yemeniti, si può immaginare il danno che verrebbe a subire Israele da tale iniziativa.
Il ritiro della Gerald Ford
Insomma, la sfida lanciata dal ministro della Difesa israeliano, che si è fatto portavoce di un sentimento diffuso nella leadership del suo Paese, appare alquanto temeraria.
Peraltro, le iniziative volte ad ampliare il fronte stanno creando disagio nell’amministrazione statunitense, che non vuole essere trascinata in questa tragica avventura. Una posizione che il Segretario di Stato USA sta ribadendo anche nella sua nuova visita in Medio oriente, l’ennesima da quando è iniziato il conflitto.
Da segnalare, sotto questo profilo, il recente ritiro della portaerei americana Gerald Ford dal largo delle coste libanesi, iniziativa che Haaretz ha interpretato come un “segnale” diretto a Israele sulla ritrosia di Washington ad assecondare i suoi propositi bellici.
Certo, a presidiare il Libano resta la portaerei Dwight D. Eisenhower – che però è meno potente della più innovativa compagna – e le tante navi appoggio della stessa; e il ritiro è stato minimizzato dalle dichiarazioni che l’hanno accompagnato, cioè che le forze americane dispiegate nella regione continueranno a vigilare sul fronte libanese. Ma resta che l’amministrazione USA ha voluto inviare un segnale concreto, sia a Israele che a Hezbollah, come anche ai suoi alleati iraniani.
I messaggi all’Iran
Un messaggio dello stesso tenore sembra sia pervenuto anche a Teheran, come ha rivelato in un’intervista l’ambasciatore iraniano in Siria, Hossein Akbari, il quale ha affermato: “Dieci giorni fa abbiamo ricevuto un messaggio da uno dei paesi del Golfo, che ha inviato una sua delegazione in Iran per far pervenire il messaggio degli americani volto a risolvere il problema nell’intera regione, non solo a risolvere parzialmente il conflitto”.
Si potrebbe obiettare che la fonte non è di alto livello, da cui la poca attendibilità. Ma, dal momento che si tratta di una comunicazione riservata, non poteva essere rivelata da Teheran, che ha scelto di renderla pubblica tramite una personalità di basso profilo per far sapere al mondo l’esistenza di una trattativa sottobanco con Washington (peraltro, alquanto ovvia).
Insomma, il quadro è complesso e agitato da spinte e pressioni molteplici. Impossibile richiudere il vaso di Pandora una volta aperto, ma va annotato che l’amministrazione USA sta tentando di frenare le pericolose derive causate delle pulsioni più distruttive dei falchi che si annidano tra la leadership israeliana e americana. Se non per amore della pace, come dimostra la complicità nella mattanza di Gaza, per interesse (non può permettersi di aprire un altro fronte).
Il punto è che tale tentativo è sotteso all’usuale hybrys di Washington, viziato cioè dal peccato originale che ne innerva la politica estera, il cieco “eccezionalismo” che gli impedisce di tener conto dei suoi limiti, sempre più evidenti negli ultimi anni. Limiti che hanno portato a disastri epocali, per l’America e per il mondo (vedi alla voce Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina etc). Vedremo.
“Chiedete i soldi a Zelensky”
Ci si permetta, a margine di questa nota, una divagazione di colore che riprendiamo da Axios. Recentemente, Netanyahu ha contattato il presidente degli Emirati Arabi Uniti, il sovrano Mohamed Bin Zayed, per chiedere che l’emirato pagasse l’indennità di disoccupazione dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania ai quali attualmente è negata la possibilità di lavorare nelle aziende israeliane.
A quanto pare, la leadership di Tel Aviv è preoccupata che la povertà estrema nella quale ha precipitato la Cisgiordania inneschi una rivolta della disperazione. La richiesta, secondo Axios, era volta anche a sondare la disponibilità dei Paesi arabi a farsi carico della ricostruzione di Gaza, una volta finita la guerra.
Ma, come capita nel complicato rebus mediorientale, se Zayed avesse accettato, avrebbe potuto essere accusato di complicità con il nemico, Da cui la beffarda risposta del sovrano: “Chiedete i soldi a Zelensky”. Risposta indicativa anche del peso che ha in questo momento Israele nel variegato ambito mediorientale.
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