Il ridisegno del Medio Oriente
di Enrico Tomaselli - 31/01/2024
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-ridisegno-del-medio-oriente
Fonte: Giubbe rosse
Una delle conseguenze dell’operazione Al-Aqsa Flood, è
stata quella di dare una scossa ad una situazione geopolitica
cristallizzata su uno status-quo fittizio, non più corrispondente alla
realtà. L’azione della Resistenza palestinese, infatti, non ha
semplicemente cambiato i rapporti di forza nei Territori Occupati della
Palestina storica, ma ha terremotato gli equilibri dell’intera regione
mediorientale, attivando un processo di trasformazione che investe
innanzi tutto i paesi arabi. Questo può essere tra l’altro riscontrato,
controintuitivamente, osservandone le reazioni. Innanzitutto, va tenuto
conto che la vecchia distinzione tra paesi moderati e radicali è,
appunto, assolutamente datata, e non rispecchia più la condizione
attuale del mondo arabo. Se, infatti, in altre fasi storiche questo si è
mobilitato – almeno formalmente – per la causa palestinese, nonostante
la dimensione assolutamente tragica assunta in questi ultimi cento
giorni, stavolta sembra più che altro caratterizzarsi per una generale
prudenza. Al di là dei paesi che, sottobanco, continuano ad aiutare
Israele (ad esempio Arabia Saudita e Giordania, per aggirare il blocco
navale imposto nel mar Rosso dagli Houti), l’azione dei governi arabi è
sostanzialmente assai tiepida. Non solo quello egiziano, ma anche quello
iracheno e quello siriano (entrambe, sia pure parzialmente, sotto
tutela iraniana) si stanno sinora muovendo con cautela.
In un
certo senso, l’atteggiamento dei vari governi arabi della regione si
potrebbe definire come conservativo; fondamentalmente, tutti avevano più
o meno trovato una condizione di stabilità che includeva lo stato
ebraico e, tradizionalmente, erano usi barcamenarsi in equilibrio tra le
superpotenze. Ma, già a partire almeno dalla seconda guerra del Golfo,
questi equilibrismi sono diventati sempre più difficili, sia per la
crescente espansione della presenza militare americana, sia per il
successivo arrivo della presenza militare russa, sia soprattutto per il
riemergere di potenze regionali non arabe, quali la Turchia e l’Iran,
ben intenzionate a giocare un ruolo importante in Medio Oriente. In
questo quadro, per molti governi arabi la presenza di Israele ha finito
col diventare un fattore di stabilità e di riequilibrio.
La mossa della Resistenza palestinese, quindi, ha scosso questi equilibri, in un duplice senso.
Innanzi
tutto, mettendo a nudo la debolezza israeliana. Una debolezza a tutto
tondo, politica, strategica e militare, che la reazione genocida a Gaza
non fa altro che confermare, e la sua eterna dipendenza dagli Stati
Uniti, da cui non riesce ad emanciparsi ancora dopo settant’anni.
Ed
inoltre, portando alla luce un terzo attore nel mondo arabo,
tradizionalmente caratterizzato dal dualismo tra masse emotive e governi
autoritari, rappresentato da movimenti radicali social-islamici,
fortemente organizzati ed armati, e strettamente connessi tra di loro.
Ovviamente
questi fattori erano preesistenti al 7 ottobre, ma l’attacco
palestinese ha fatto da catalizzatore, portando violentemente alla
ribalta quell’Asse della Resistenza, assolutamente trasversale alle
vecchie divisioni tra sciiti e sunniti, che è oggi – ben al di là della
leadership iraniana – il soggetto chiave della trasformazione.
Basti
pensare a quanto sta accadendo parallelamente al conflitto in Palestina.
Dagli attacchi contro le basi americane in Siria ed Iraq (oggi anche in
Giordania!), al blocco navale Houti a Bab el-Mandeb. Senza ovviamente
dimenticare alcune importanti premesse, a partire dalla mediazione
cinese che ha portato alla ripresa delle relazioni tra Teheran e Ryad,
ed a cascata alla riammissione della Siria nella Lega Araba ed alla fine
della guerra in Yemen. Tutti avvenimenti, questi, certamente
condizionati dall’interesse cinese nella stabilizzazione dell’area, in
funzione della Nuova Via della Seta, ma che ovviamente trovano
spiegazione anche nella presa d’atto – da parte dei paesi arabi moderati
e filo-occidentali – del ruolo iraniano non solo nella regione, ma come
attore importante nello sviluppo del mondo multipolare (anche grazie,
ovviamente, alla relazione forte con Russia e Cina).
Anche se,
sotto il profilo ideologico, questi movimenti sono assimilabili ad una
corrente conservatrice (per quanto fortemente caratterizzata
socialmente), è evidente che sotto il profilo politico assumono una
forte valenza rivoluzionaria, sia per la radicale opposizione alla
presenza imperialistica statunitense (ed a quella coloniale israeliana),
sia per l’alternativa che rappresentano nei confronti dei regimi arabi.
Ma
in ogni caso è la loro azione politico-militare a determinare il
ridisegno del Medio Oriente. E benché l’attuale amministrazione USA non
abbia praticamente alcuna vera strategia di medio-lungo periodo, essa è
comunque costretta a fare i conti con questa realtà in mutamento. I
primi segnali forti sono rappresentati, per un verso dall’avvio di
discussioni con il governo di Bagdad, finalizzate al ritiro completo e
definitivo delle forze americane in Iraq, ed alla parallela decisione
annunciata di ritirare quelle presenti (illegalmente) in Siria; parliamo
di circa 6.000 militari in Iraq e 2.000 in Siria. Per l’altro,
dall’evidente fallimento della missione Prosperity Guardian, il cui
esito era peraltro chiaro sin da prima che fosse avviata.
Anche
non tenendo conto della variabile impazzita rappresentata dall’attuale
leadership israeliana, che potrebbe non solo incendiare il confine con
il Libano ma l’intera regione, è evidente che in Medio Oriente è in atto
uno smottamento strategico, destinato a modificarne profondamente il
quadro geopolitico. La riduzione della presenza militare statunitense,
in conseguenza, potrebbe diventare ben più massiccia di quella che si
sta attualmente profilando. Se il mondo sunnita che fa de facto capo
all’Arabia raggiungerà una posizione di stabilità, definitivamente
sganciata dal rapporto con Washington, a seguire si potrebbe registrare
il ritiro americano da questo paese, dal Kuwait, dagli Emirati Arabi,
dal Qatar, dal Bahrein… e qui si tratta di presenze ben più importanti –
rispettivamente 3.000, 13.000, 5.000, 13.000 e 7.000 militari USA.
In
ogni caso, si tratta di una tendenza inevitabile, sia perché
l’interesse strategico statunitense è destinato a spostarsi sempre più
verso il Pacifico, sia perché i costi di mantenimento della enorme rete
di basi militari estere (ben 64 solo nell’area, dalla Turchia all’Oman)
imporranno prima o poi dei tagli, sia perché la rete di basi
mediorientali è destinata a fare da bersaglio ancora a lungo, per le
formazioni combattenti dell’Asse della Resistenza.
Di fatto, la
presenza militare americana nella regione sarà soggetta ad una guerrilla
warfare di lunga durata, sinché non decideranno di ritirarsi
definitivamente. In un processo destinato ad autoalimentarsi, e ad
accelerare progressivamente, i paesi tradizionalmente alleati di
Washington si sposteranno sempre più fuori dall’orbita statunitense (il
passaggio nei BRICS+ rappresenta appunto il collocamento in una
posizione terza), e questo ne renderà sempre meno gradita (e sempre più
precaria) la permanenza dei presidi militari. La pressione politica e
militare delle formazioni radicali finirà col far pendere la bilancia in
favore del ritiro.
Ma naturalmente questa fase di ridisegno della
mappa geopolitica medio-orientale avrà una estensione – non solo
temporale – assai ampia, essendo destinata a ripercuotersi su un’area
più vasta.
Posto che l’obiettivo strategico, per l’Iran innanzitutto,
è assumere il pieno controllo dallo stretto di Hormuz al Mediterraneo,
significa che tutta l’area del mar Rosso ne sarà investita – e di fatto,
il processo è già in corso.
I punti cardine di questa strategia
estesa sono rappresentati dal Sudan, dove le forze ribelli delle RDF
stanno combattendo contro il governo centrale (appoggiato da russi e
iraniani, e politicamente vicino agli egiziani), Eritrea e Somalia (con
il filo-israeliano governo di Addis Abeba che contratta una base navale
con il Somaliland, suscitando le ire della filo-egiziana Somalia),
l’Egitto (ancora assai riluttante ad agire direttamente, ma che prima o
poi potrebbe rompere gli indugi su uno dei fronti che lo vedono
politicamente impegnato), e la Libia (con il fronte NATO-Turchia da una
parte e quello Cairo-Russia dall’altro).
Tutte queste aree di crisi
sono inevitabilmente destinate a connettersi, nell’ambito di questo
grande gioco strategico che vede i tre maggiori avversari degli Stati
Uniti – Russia, Iran e Cina – lavorare in funzione della liberazione dal
controllo americano di questa regione fondamentale, non solo e non
tanto per il petrolio, ma perché si colloca ad uno snodo importantissimo
tra il centro dell’Eurasia e l’Africa.
La sua posizione di dominio
sulle rotte commerciali navali (il 12% del traffico globale passa dal
mar Rosso), inoltre, rappresenta una sfida al dominio della potenza
talassocratica anglosassone, ed è un importante tassello della
fondamentale partita energetica europea, da cui dipenderanno le sorti
del vecchio continente.
Il cuore della partita è però, ovviamente
l’Iran. Non solo perché è sua la visione strategica che muove
complessivamente le forze antimperialiste mediorientali (l’Asse della
Resistenza è una creazione del Generale Suleimani, non a caso
assassinato dagli USA), e che le supporta con finanziamenti,
addestramenti, forniture di armi e di intelligence, ma perché la sua
potenza militare (e politica) è l’ostacolo sinora insormontabile. Non
per caso, mentre sia Israele che una parte dei repubblicani spingono
costantemente per un attacco contro Teheran, e mentre la propaganda
occidentale attribuisce costantemente all’Iran la responsabilità di
tutto ciò che avviene nella regione (dall’attacco della Resistenza
palestinese ai lanci di missili degli Houti, da Hezbollah alle milizie
sciite irachene), sia Tel Aviv che Washington si guardano bene poi dal
colpire direttamente l’Iran. Perché sono ben consapevoli che un
conflitto aperto e diretto avrebbe costi enormi, probabilmente tali da
mettere in ginocchio Israele e da compromettere definitivamente ogni pur
minima presenza statunitense nell’area.
Dopo la debacle in
Ucraina, il Medio Oriente rappresenta oggi il terreno su cui viene messo
alle strette il disegno egemonico americano, e soprattutto quello dove
con maggiore evidenza si manifesta la crisi dei tradizionali strumenti
di dominio statunitensi, il dollaro e la forza militare. La capacità di
deterrenza di entrambe è infatti ormai tramontata, ed anche l’utilizzo
diretto e coercitivo si mostra estremamente difficile, poiché l’egemone
non è (più) in grado di portare un colpo definitivo contro i suoi
sfidanti, ed è quindi costretto a giocare una partita sostanzialmente
difensiva, muovendosi sul filo del rasoio tra il crescente logoramento
imposto dalla strategia avversaria e la necessità di concludere in
fretta.
A differenza della questione ucraina, quella mediorientale è
una partita assai più complicata ma anche assai più importante. Anche se
l’impegno nella guerra in Europa è stato abilmente e largamente
nascosto dietro il velo della proxy war, la portata della sconfitta
della NATO è assai più vasta e profonda di quanto non appaia; ciò
nonostante, è poca cosa in confronto alla centralità strategica del
Medio Oriente.
Non a caso, la quantità e la qualità degli aiuti
immediatamente forniti ad Israele, in pochissimo tempo, dimostra non
semplicemente il legame esistente tra Washington e Tel Aviv, ma appunto
la valutazione di una ben maggiore rilevanza strategica dello
scacchiere. Questo da un lato fa sì che gli USA si impegneranno molto
più di quanto non abbiano fatto in Ucraina, ma al tempo stesso implica
che manca del tutto l’opzione di un disimpegno graduale, che consenta di
sganciarsi da una situazione di crisi irrisolvibile mantenendo
l’apparenza di non uscirne sconfitti.
Il Medio Oriente si presenta
quindi come il terreno su cui si misurerà la effettiva capacità di
innovazione strategica americana. Una (eventuale) presidenza Trump
probabilmente troverebbe il modo di uscire dal pantano ucraino, ma
difficilmente avrebbe vie percorribili altrettanto facili, per uscire da
quello mediorientale. Il ridisegno geopolitico è un processo ormai
inarrestabile.
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