Nella notte tra giovedì e venerdì gli Usa e la Gran Bretagna hanno dato il via a una serie di incursioni sul territorio yemenita. L’obiettivo principale delle missioni sono le basi degli Houthi, nome con cui generalmente si indica il gruppo Ansarullah. Si tratta dei miliziani sciiti yemeniti che dal 2014 controllano la capitale Sana’a e gran parte del nord dello Yemen. Con lo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza, gli Houthi hanno iniziato a colpire navi occidentali in transito sul Mar Rosso. Washington e Londra, nel timore di ulteriori conseguenze per il commercio internazionale, hanno quindi deciso di intervenire.
Dopo la prima ondata di raid, cui ha fatto seguito una seconda notte di raid tra il 12 e 13 gennaio, cresce l’attesa è per capire quali saranno le prossime mosse tanto della coalizione occidentale che degli stessi Houthi. Il timore principale è legato a un’escalation regionale. E questo per almeno tre motivi. In primis, perché i combattenti sciiti probabilmente reagiranno e coinvolgeranno i Paesi vicini che hanno concesso lo spazio aereo a statunitensi e britannici. In secondo luogo, l’apertura di mediazioni e trattative è molto difficile, anche più di quanto visto nel contesto israelo-palestinese. Infine, gli Houthi agiscono spesso autonomamente dai loro stessi alleati e appaiono quindi meno prevedibili e quindi potenzialmente più difficili da fermare.
La possibile vendette contro sauditi ed emiratini
Quando nella tarda serata di giovedì un attacco militare di Usa e Regno Unito appariva oramai imminente, a Riad e ad Abu Dhabi le locali forze di sicurezza sono state poste in stato d’allerta. Entrambe le monarchie hanno iniziato a temere possibili reazioni da parte degli Houthi. Se escalation regionale sarà, tutto potrebbe cominciare proprio da una ritorsione da parte dei combattenti sciiti nei confronti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Così come dello stesso Qatar, anche Doha sul dossier yemenita ha sempre avuto una posizione più defilata.
Agli occhi degli Houthi, gli Stati vicini sono responsabili di aver concesso lo spazio aereo ai mezzi di Washington e Londra per poter raggiungere lo Yemen e bersagliare le basi del gruppo. Da qui la possibilità di un lancio di missili contro i territori sauditi ed emiratini. Sia Riad che Abu Dhabi sono ben consapevoli dei rischi derivanti dagli attacchi Houthi. Durante la guerra che tra il 2015 e il 2023 ha visto il confronto diretto delle forze dei Saud e degli Emirati contro i miliziani sciiti, gli ordigni lanciati dallo Yemen hanno causato più di un grattacapo.
In Arabia Saudita, i patriot spesso hanno faticato nell’intercettare e contenere le incursioni missilistiche dei combattenti yemeniti. In alcuni casi, gli ordigni hanno colpito giacimenti e stabilimenti della Aramco, il colosso saudita del petrolio. Ad Abu Dhabi, in diverse occasioni i missili hanno creato danni al locale aeroporto, uno dei più grandi al mondo. Non solo, ma un’eventuale risposta degli Houthi contro i vicini avrebbe un forte significato politico. Verrebbe infatti interrotta quella tregua siglata nei mesi scorsi e che ha consentito il congelamento del conflitto scoppiato quasi nove anni fa. La riapertura del fronte yemenita potrebbe scardinare non pochi equilibri all’interno della penisola arabica.
La via molto difficile della mediazione
Dopo un raid e dopo l’inizio di un attacco, ad attivarsi spesso è anche il lavoro diplomatico volto ad aprire canali di dialogo tra le parti venute a contatto. Nello Yemen però la strada della diplomazia parte decisamente in salita. Su questo fronte, la situazione è molto più difficile rispetto a quanto visto anche nella stessa Striscia di Gaza.
Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre infatti, al fianco dell’azione militare di Israele a Gaza si è avuta anche la mediazione svolta dal Qatar soprattutto per la liberazione degli ostaggi. In questo caso si è quindi trovato un attore, ossia il governo di Doha, che ha potuto sfruttare il proprio peso su una delle due parti in guerra (Hamas) e i buoni rapporti con il principale alleato dell’altra parte, vale a dire gli Stati Uniti.
Sul versante yemenita invece, sono in pochi a poter concretamente intervenire. La principale influenza sul gruppo viene infatti esercitata dall’Iran, i cui rapporti con Washington rasentano attualmente il minimo storico. Il governo di Teheran non viene considerato un interlocutore affidabile dagli Usa e dalla Gran Bretagna, dunque l’apertura di un canale diplomatico è alquanto complicato. In poche parole, nello Yemen lo spettro di una proxy war è molto più amplificato rispetto che a Gaza. Il primo alleato del gruppo oggetto dei raid di venerdì notte, è infatti anche il primo avversario della coalizione che ha attaccato. Nello Yemen si è più vicini a uno scontro diretto tra Usa e Iran che all’apertura di un tavolo diplomatico.
Gli Houthi imprevedibili anche agli occhi di Teheran
Ma anche nel momento in cui la diplomazia dovesse prendere il sopravvento, c’è un terzo elemento che rende molto difficile il dialogo e molto concreta un’escalation. Si tratta della modalità di azione degli Houthi. Il gruppo generalmente si è mosso sempre con larga autonomia dallo stesso Iran e questo, in primo luogo, per un motivo prettamente ideologico: i combattenti yemeniti sono sì sciiti, ma di una ramo autonomo e diverso da quello della teocrazia iraniana. In particolare, gli Houthi sono figli dell’ideologia zaydista, fino a non molto tempo fa considerata eretica da un’ampia fetta dello stesso mondo sciita.
Anche durante la guerra contro i sauditi, i miliziani yemeniti non hanno preso ordini da Teheran ma hanno elaborato strategie autonome. L’Iran quindi è il primo alleato degli Houthi in termini di finanziamento ed armamento, ma la strategia viene spesso decisa direttamente dai vertici del gruppo. Ed è questa autonomia a rendere i combattenti più imprevedibili e quindi potenzialmente più pericolosi.
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