La dittatura dell’Inglese
https://byebyeunclesam.wordpress.com/2024/01/25/la-dittatura-dellinglese/
“La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano
Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino,
l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta
formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi
di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica,
la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo
tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di
informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese
già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.
Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il
solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle,
invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la
visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così
leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale
dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi
Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare
l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno
specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama
Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si
eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione
per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in
tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.
Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore
di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono
dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena
Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo
delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento
della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché
se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo
appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua,
non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che
Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né
alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco
o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile
particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue
straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e
quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di
alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare
all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una
fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e
formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle
elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto
che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua
naturale.
Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene
all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli
anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si
chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta
interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che
stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non
capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla
“lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione
culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.
(…) Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo
introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è
visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo,
non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la
riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla
semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con
più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi
alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario
stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e
coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state
denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno
subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo
contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto
creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere
alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano.
L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del
popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la
lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi
analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che
viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese,
stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le
future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello
del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese
puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista
che discrimina la nostra storia e cultura.
Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia
della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue
scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli
intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono
più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano,
è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.
L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei
prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre
riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro”
ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un
dialetto.”
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