Lo sfruttamento minorile in Italia è ancora una realtà che colpisce 336 mila bambini
1 Maggio 2023
In Italia quasi 1 minore su 15, tra i 7 e i 15 anni – per un totale di 336 mila persone – ha avuto almeno un’esperienza lavorativa. Tra i ragazzi della fascia d’età 14-15 anni, che hanno dichiarato di svolgere o aver svolto un’attività, il 28% è stato impiegato in lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico, “percepiti dagli stessi intervistati come tali, perché svolti in orari notturni o in maniera continuativa durante il periodo scolastico”. È quanto emerge dal report Non è un gioco, un’indagine sul lavoro minorile radicato nel nostro territorio redatta da Save The Children, che mette in luce quanto e come in Italia la legge in materia venga più volte violata. Il nostro ordinamento, infatti, prevede che gli adolescenti possano iniziare a lavorare a 16 anni, dopo aver superato cioè l’obbligo scolastico. Invece per quasi un 14-15enne su 5 l’attività è cominciata prima di aver superato tale soglia anagrafica, con un impiego quotidiano (1 su 3 lo fa durante i giorni di scuola) che a volte scavalca le lezioni (il 4,9% salta le lezioni per lavorare), rischiando di “compromettere i loro percorsi educativi e di crescita”. In realtà più della metà dei minori che ha dichiarato di aver lavorato durante l’ultimo anno o in passato, ha iniziato dopo i 13 anni, mentre il 6,6% prima degli 11 anni.
Un processo tra l’altro su cui è difficile intervenire per via della “mancanza nel nostro Paese di una rilevazione statistica sistematica sul lavoro minorile, che non consente di definirne i contorni e intraprendere azioni efficaci di contrasto al fenomeno”.
Tuttavia l’indagine dell’organizzazione ci ha permesso di avere un quadro più chiaro e di individuare i settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile. Tra questi c’è la ristorazione (25,9%), la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), seguiti dalle attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), dalle attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). Con l’avanzare della tecnologia sono però emerse nuove forme di lavoro, anche queste terreno fertile per lo sfruttamento dei più piccoli. Questi sono impiegati nel lavoro online (5,7%) per realizzare contenuti per social o videogiochi, o ancora per il reselling – fenomeno per cui un prodotto molto ricercato, di solito in edizione limitata, viene rivenduto a prezzo maggiorato – di scarpe cellulari e così via.
I motivi e le cause che spingono ragazzi e ragazze a cominciare a lavorare sono diversi, e rispecchiano esigenze spesso opposte. Più della metà lo fa per avere soldi per sé, il 33% invece per offrire un aiuto economico ai genitori, mentre per il 38% si tratta di un’esperienza fatta per il piacere di farla. Save the Children ha riscontrato che in molti casi “il livello di istruzione dei genitori, in particolare della madre, è significativamente associato al lavoro minorile”. Infatti la percentuale di genitori senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare o media è significativamente più alta tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, “un dato che deve far riflettere sulla trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione”.
Ma quali sono le cause principali del lavoro minorile? Come già accennato, c’entra il contesto familiare e socioeducativo in cui i ragazzi vivono, a partire dalla condizione di povertà ed esclusione sociale – basti pensare che sono quasi un milione e mezzo i minori che vivono in povertà, cioè il 14% del totale. Ragazzi che potrebbero portarsi dietro questa condizione anche negli anni a venire. I dati dicono che nel 2022 i ‘NEET’ (cioè i giovani under 30, in età da lavoro, che non studiano, non sono impiegati e non sono inclusi in nessun percorso di formazione) erano il 19% della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania.
«Molti ragazzi oggi in Italia entrano nel mondo del lavoro dalla porta sbagliata: troppo presto, senza un contratto, nessuna forma di tutela, protezione e conoscenza dei loro diritti e questo incide negativamente sulla loro crescita e sul loro percorso educativo», ha commentato Raffaela Milano, Direttrice del Programma Italia-EU di Save the Children. Un fenomeno di cui le istituzioni dovrebbero essere più consapevoli, per poi farsene carico.
[di Gloria Ferrari]
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