3 Maggio 2023
Non capire Cina e Russia: ecco il vero rischio per la pace
Carlo Formenti
Avanti.it
Leggere Usa-Cina. Una guerra che dobbiamo evitare (editore
Rizzoli) dell’ex premier australiano Kevin Rudd è un esercizio utile per
chi voglia capire in quale cul di sacco si stia infilando la civiltà
occidentale, nel disperato tentativo di conservare la propria egemonia
di fronte alle sfide che le lanciano alternative strategiche sempre più
agguerrite. Ciò è tanto più vero ove si consideri che Rudd è un analista
geopolitico tutt’altro che sprovveduto e, come testimonia
l’apprezzamento di una vecchia volpe come Henry Kissinger citato in
quarta di copertina, non allineato con le fanfare della tambureggiante
propaganda anticinese che, da Trump a Biden, sembra essere divenuta il
leitmotiv della politica estera a stelle e strisce (nonché di quella dei
vassalli europei).
A ispirare le critiche di Rudd alle smanie
belliciste di Washington non sono solo considerazioni dettate dal buon
senso, come la consapevolezza che una guerra fra Usa e Cina
difficilmente resterebbe limitata all’area indopacifica, ma finirebbe
assai probabilmente per estendersi a livello globale con conseguenze
devastanti per l’intera umanità (anche se non si arrivasse a un
olocausto nucleare, il che non può essere escluso a priori). Il vero
punto, argomenta Rudd, è l’incomprensione pressoché totale delle
cancellerie occidentali (non solo di quella americana) nei confronti
delle logiche che presiedono alle decisioni strategiche delle élite
cinesi.
In particolare, sostiene Rudd (che, oltre a parlare il
cinese, è stato più a volte e a lungo in Cina, svolgendo incarichi che
gli hanno consentito di confrontarsi con i più alti livelli dello
stato-partito), ciò che a Washington, Londra e in Europa si sottovaluta,
o addirittura si ignora, è il rinnovato peso dell’ideologia marxista
leninista – integrata con i valori della tradizione taoista e confuciana
– associato all’avvento di Xi Jinping alla guida del Paese; parimenti
si ignora in che misura la memoria del “secolo delle umiliazioni”
causate dal colonialismo occidentale giochi ancora un ruolo determinante
nel comune sentire di un popolo orgoglioso, tanto della propria civiltà
millenaria, quanto della riconquistata potenza economica e militare;
per tacere del rapido miglioramento delle condizioni di una classe media
sempre più prossima a standard di vita occidentali.
Questi e
altri fattori concorrono a generare un esplosivo mix di socialismo,
nazionalismo e “populismo” (Rudd usa questo termine per definire la
svolta neo-socialista di Xi Jinping, che penalizza il potere dei grandi
capitali privati e promuove una radicale ridistribuzione del reddito
verso il basso), un mix che gli Stati Uniti si illudono di poter
contenere alzando il tiro della propria aggressività, mentre non fanno
altro che rinfocolare il rischio di reazioni simmetriche, altrettanto
dure, da parte di Pechino.
Intendiamoci, Rudd è tutt’altro che
simpatetico nei confronti della nuova “assertività” della Cina di Xi
Jinping: se da un lato critica le illusioni occidentali in merito al
fatto che la crescita economica avrebbe “naturalmente” portato alla
transizione della Cina verso un regime liberal democratico, dall’altro
resta un convinto assertore della superiorità del libero mercato (in
barba alle recenti catastrofi) e del sistema liberal democratico (alla
faccia delle degenerazioni che lo stanno trasformando in una oligarchia
di censo), per cui continua a sperare che i limiti “naturali”
dell’economia di stato (malgrado i successi che lui stesso è indotto ad
ammettere) finiranno per generare problemi destinati a minare la
leadership neo socialista e “populista” di Xi Jinping, e indurre la Cina
e più miti consigli. Insomma, dal suo punto di vista, basterebbe
apprendere dai cinesi la virtù della pazienza e aspettare che le
tensioni si smorzino, evitando nel frattempo di tendere la corda fino a
farla spezzare.
Rudd non ha aggiornato la propria analisi in
seguito allo scoppio della guerra russo-ucraina che, nella misura in cui
mette direttamente di fronte l’esercito russo alle forze della NATO,
modifica lo scenario geopolitico da lui tracciato dal momento che
implica la convergenza strategica di Cina e Russia. Se lo avesse fatto,
sarebbe stato indotto a prendere atto che la sua diagnosi in merito
all’incapacità del blocco occidentale di comprendere le logiche
dell’avversario cinese vale a maggior ragione per l’avversario russo.
Nel
caso della Russia è il caso di far partire il ragionamento dal
sistematico rifiuto occidentale di accogliere le profferte di Putin
allorché costui, in varie occasioni, dichiarò l’intenzione di integrare
il suo Paese in Europa o addirittura nella NATO. Le motivazioni con cui
queste avance furono respinte, cioè il mancato rispetto dei diritti
umani e la presunta non democraticità del regime russo, sono talmente
speciose da non meritare la minima considerazione (l’occidente annovera
fra i propri partner e alleati Paesi i cui standard di democrazia e
rispetto dei diritti umani sono di gran lunga inferiori). La verità è
che la capacità di Putin di risollevare la Russia dal disastro in cui
l’aveva precipitata la shock therapy imposta dall’adesione alle regole
del consenso di Washington, e restituirla al rango di potenza regionale
(non “imperiale”: anche questa sopravvalutazione è chiaramente
propagandistica), contrastava e contrasta con l’obiettivo di farle fare
al fine della Jugoslavia, di ridurla cioè a un insieme di staterelli
colonizzabili dagli interessi occidentali.
Questo atteggiamento
di sprezzante superiorità ha prodotto l’equivalente della memoria cinese
(ancora più urticante in quanto più recente) delle umiliazioni
coloniali da parte delle potenze occidentali. Il largo consenso politico
di cui gode Putin (in barba ai tentativi di sminuirlo da parte dei
media di America ed Europa) è fondato su questo rinnovato orgoglio
nazionale, e l’accostamento fra la guerra ucraina e la grande guerra
patriottica contro il Terzo Reich funziona proprio per questo (e anche
perché l’atteggiamento russofobo e l’ideologia parafascista di Kiev lo
giustificano ampiamente, richiamando la connivenza ucraina con
l’invasore nazista). Così come è fondato sul fatto di avere sottratto
alla miseria milioni di concittadini e restituito loro dignità.
Se
poi la guerra dovesse prolungarsi, entrerebbero in gioco (in parte sono
già entrati in gioco) altri fattori: dalla resilienza che l’economia
russa ha saputo dimostrare resistendo alle sanzioni occidentali grazie
ai rapporti di collaborazione sempre più stretti con la Cina e altri
membri dei Brics, al progressivo ridimensionamento del potere degli
oligarchi (le economie di guerra tendono alla centralizzazione e al
rafforzamento del ruolo dello stato, a scapito degli interessi delle
grandi imprese private), al rafforzamento del peso politico e
organizzativo del Partito Comunista russo (depositario del rimpianto di
milioni di cittadini per le condizioni di sicurezza sociale garantite
dal regime sovietico).
Il fatto che governi, partiti e media di
mezzo mondo auspicano la caduta di Putin, come se questa bastasse di per
sé a riportare la Russia alle infami condizioni del dopo Eltsin,
conferma la loro totale incapacità di valutare il peso di tutti questi
fattori e del rischio (o dell’opportunità, dipende dai punti di vista),
sempre più reale, che la Russia sia indotta a imboccare la strada, se
non del ritorno al socialismo, della costruzione di una economia mista
con forti connotati “statalisti” e “populisti” (per usare l’espressione
che Rudd applica alle politiche di Xi Jinping). Un rischio terribile per
la conservazione dell’egemonia di Usa ed Europa sul sistema mondiale,
in quanto implicherebbe la saldatura di un poderoso blocco sino-russo
(con notevoli capacità di proiezione sui teatri mediorientali, asiatici,
africani e latinoamericani) contro il quale le ambizioni imperiali a
stelle e strisce andrebbero a infrangersi, generando un’ alternativa
secca: accettare la transizione a un mondo bipolare o scatenare
l’Armageddon di una guerra nucleare che non avrebbe vincitori.
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