Flop referendum: ok le critiche, ma non fingere che il gioco non sia truccato
Innegabile che esistano anche altri motivi, più politici, ma dati alla mano primo fra tutti è il boicottaggio politico-istituzionale-mediatico
Il sabotaggio istituzionale dei referendum giustizia è iniziato quando la Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato ha bocciato i quesiti su suicidio assistito, cannabis e responsabilità civile dei magistrati, come segnalammo allora su Atlantico Quotidiano. Se sul primo possono aver pesato rilievi tecnici riguardanti la sua formulazione, sugli altri due si era già potuto votare in passato.
Il sabotaggio della Corte
Guarda caso, la Corte ha fatto fuori con precisione chirurgica i tre quesiti più “attraenti”, più in grado di accendere un dibattito nell’opinione pubblica e quindi di trainare l’affluenza al voto. Non, dunque, il presunto bigottismo della Corte, ma una ben più prosaica operazione politica: bocciare alcuni quesiti per disinnescarli tutti.
Lunare fu una delle motivazioni addotte dal presidente Amato: “Se questi temi escono dal Parlamento possono alimentare dissensi e rompere la coesione di cui la società ha bisogno”. La conferma della consapevolezza tra i giudici di quali fossero i temi più “caldi”.
Non perché il tema giustizia fosse in termini assoluti meno di interesse rispetto a eutanasia e droghe per la generalità della pubblica opinione, ma perché i primi due quesiti avrebbero portato ad una mobilitazione dell’elettorato anche di sinistra, quindi più trasversale, e di fronte alle aumentate chance di raggiungimento del quorum i diversi fronti del “No” avrebbero dovuto esporsi, alimentando un vero dibattito.
Quesiti che riguardavano esclusivamente i poteri e il funzionamento della magistratura, vero e proprio asset politico della sinistra e in particolare del Pd, non avrebbero garantito quella trasversalità del coinvolgimento dell’elettorato necessaria a raggiungere il quorum.
Il boicottaggio dei media di sinistra
E il braccio mediatico della sinistra ne era a tal punto consapevole che gli è bastato spegnere completamente i riflettori. Abbiamo una controprova della malafede dei cosiddetti giornaloni nelle aperture di oggi. Non hanno mai ritenuto i referendum giustizia notizia degna di apertura, se non oggi, per il mancato raggiungimento del quorum, e a febbraio scorso per le bocciature della Consulta.
Senza una mobilitazione politicamente trasversale – e in particolare della sinistra, che controlla il circuito mediatico mainstream – è ormai impossibile raggiungere il quorum. Con il “no” che opportunisticamente, ma legittimamente, si somma ad uno zoccolo duro di astensione di circa il 40 per cento, in aumento negli anni, di elettori che non votano in nessuna elezione se non, alcuni di loro, alle politiche, non c’è partita.
Con solo il 55 per cento di elettori che si è recato alle urne per scegliere il sindaco della sua città, difficile dare la colpa ai quesiti troppo tecnici.
Un’analisi dei dati dell’affluenza
Per avere una stima degli elettori che consapevolmente non hanno votato per i referendum, basta dare un’occhiata al dato nei capoluoghi in cui si votava anche per le amministrative. Confrontando l’affluenza referendaria in questi capoluoghi con il dato nazionale del 21 per cento abbiamo una stima anche di quanto altrove abbia pesato il boicottaggio.
Genova: referendum 38 per cento; amministrative 44 per cento
Como: 42-49
Verona: 49,6-55
Parma: 45,6-51,7
L’Aquila: 59-64,7
Palermo: 39-42
Il divario va dai 3 punti percentuali di Palermo ai 7 punti di Como, ma mediamente è di 5-6 punti. Generalmente l’affluenza per i referendum segue l’affluenza per le amministrative. Laddove quest’ultima è bassa, come a Genova, resta bassa anche sui referendum. Laddove è alta, come a L’Aquila, il quorum sarebbe raggiunto. Comunque, in tutti i capoluoghi in cui si è votato anche per le amministrative, l’affluenza per i referendum è più che doppia rispetto al dato nazionale (21 per cento).
La percezione di inutilità del voto
A questo si aggiunge una sfiducia degli elettori nello strumento, ma non per la complessità dei quesiti. Il fallimento ormai di parecchie tornate referendarie, e il tradimento in Parlamento di molti dei referendum validi, hanno aumentato in molti italiani la percezione della sostanziale inutilità del voto.
Incolpare gli elettori che non sono andati a votare, oltre a non essere mai una buona idea, non sarebbe quindi nemmeno corretto in queste circostanze. Laddove non si votava per le amministrative, non si sapeva nemmeno che si votasse per qualcosa.
Boicottaggio decisivo
Dunque, decisiva è stata la pressoché totale assenza di informazione (ancor più grave il silenzio della tv di Stato pagata con i soldi dei contribuenti), ovvero il boicottaggio politico-istituzionale-mediatico. Affossare i referendum giustizia è stata una scelta deliberata di chi detiene il vero potere in Italia: Pd, magistrati e media amici.
Ciò che avvenuto a Palermo, con decine di seggi non aperti fino alle 12 passate, non è stato ovviamente decisivo, dal punto di vista numerico, ai fini del raggiungimento del quorum, ma l’incapacità del Viminale e del Comune di risolvere un problema a loro noto già dal giorno precedente, è indicativo del clima di sabotaggio da parte delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire il diritto di voto. Roba che in altri Paesi avrebbe portato alle dimissioni del ministro.
L’ennesimo autogol dei partiti di centrodestra
Innegabile che esistano anche altri motivi, più politici, che spiegano il fallimento dei referendum giustizia. In particolare tre. Innanzitutto, la lotta intestina tra i leader e le forze politiche del centrodestra, la loro miopia politica che ormai da tempo è puro autolesionismo. I leader sono prigionieri delle reciproche gelosie, per cui l’obiettivo prioritario sia di Fratelli d’Italia che di Forza Italia era assicurarsi che Matteo Salvini ne uscisse umiliato.
Ma a prescindere dalla lotta interna per la leadership, e dalla condivisione o meno del merito dei quesiti, tutti i partiti di centrodestra avrebbero dovuto comprendere come fosse un obiettivo ancor più importante per tutti loro infliggere una pesante sconfitta alla magistratura politicizzata e al suo “Sistema”, alla sua “intelligenza” con la sinistra. Se non l’hanno ancora capito, vuol dire che sono senza speranza.
C’è poi la crisi profonda della leadership della Lega. Evidentemente Matteo Salvini non ha le stesse capacità di mobilitazione dell’elettorato di centrodestra che aveva un paio di anni fa, quando sembrava il catalizzatore anche degli elettori dei partiti alleati.
Fiutata la sconfitta, per di più, la leadership della Lega si è defilata, ha intrapreso la strada della riduzione del danno, non comprendendo che anche le dimensioni della sconfitta contano. Un conto è un’affluenza al 21 per cento, tutt’altro un’affluenza del 30 per cento. È evidente come il partito abbia tenuto un basso profilo, non abbia comunicato la centralità del tema giustizia nemmeno ai suoi elettori, e il risultato – opportunamente strumentalizzato dagli avversari – ha finito per penalizzarlo ancor di più.
La questione democratica
Tutti questi motivi però non devono far perdere di vista il gigantesco problema di agibilità democratica nel nostro Paese. Vale per i referendum, ma comincia a valere anche per il voto politico. Il governo del Paese è sempre meno contendibile per vincoli esterni e meccanismi di blocco interni deliberatamente introdotti e sedimentati nel corso dell’ultimo decennio.
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