Caso Blackstone: un segnale critico per l’economia Usa
Di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Nei giorni scorsi, dopo aver incassato la “bocciatura” del piano di ristrutturazione – implicante l’allungamento dei termini di rimborso di un anno – da parte dei creditori, Blackstone ha dichiarato default su un’obbligazione da 531 milioni di dollari avente come collaterale un intero portafoglio di edifici commerciali riconducibile a Sponda Oy, società finlandese operante nel settore immobiliare rilevata nel 2018. A pochi mesi di distanza dall’acquisizione, il colosso statunitense del private equity si era cimentato nel tentativo di piazzare le proprietà immobiliari che fungevano da collaterale al bond in oggetto, ma ogni sforzo in questa direzione era stato vanificato dalle peculiare dinamiche innescate dalla pandemia da Covid-19. La diffusione a macchia d’olio del lavoro da remoto incoraggiata dalla gestione della crisi virale, in particolare, ha reso superflui – e quindi sfitti – migliaia di uffici affossandone il valore di mercato.
Un impatto di gran lunga superiore a quello generato dai cambiamenti strutturali nel mondo del lavoro verificatisi sulla scia della pandemia l’ha tuttavia provocato la politica monetaria portata avanti dalla Federal Reserve in accordo con il Dipartimento del Tesoro. I lockdown imposti a partire dal 2020 furono infatti accompagnati da un rapido accantonamento del processo di “normalizzazione monetaria” che la Fed aveva iniziato ad attuare associando il graduale innalzamento dei tassi di interesse alla liquidazione di Treasury Bond e di altri tipi di titoli (quantitative tightening) di cui la stessa Banca Centrale Usa aveva fatto incetta a partire dal 2008 nell’ambito dei programmi di quantitative easing.
In concomitanza con le prime chiusure, Federal Reserve, Casa Bianca e Congresso concordarono infatti un piano d’azione comprensivo di ben tre pacchetti di sostegno a famiglie e imprese dal valore totale di circa 3.000 miliardi di dollari (pari al 14% del Pil statunitense). Il Cares Act, in particolare, ha comportato lo stanziamento di 800 miliardi di dollari di finanziamenti per le imprese, 300 miliardi di pagamenti diretti ai cittadini, 250 miliardi di sussidi di disoccupazione rafforzati ben oltre i normali livelli e spese supplementari per il sostegno agli enti locali e il potenziamento dei presidi ospedalieri. Complessivamente, il Congresso ha approvato più di 5.000 miliardi di dollari di stimoli, mentre la Fed ha quasi raddoppiato il suo bilancio, portandolo, attraverso acquisti mensili di asset, a un valore poco inferiore agli 8.000 miliardi di dollari. Con un Pil in caduta libera, un deficit federale alle stelle, un debito privato ormai fuori controllo e oltre 40 milioni di domande di sussidi di disoccupazione, c’erano del resto ben poche alternative praticabili.
All’atto pratico, l’intervento alluvionale attuato dalla Fed in collaborazione con il Congresso e il Dipartimento del Tesoro ha svolto un ruolo nevralgico nell’evitare che la crisi pandemica conducesse a un disastro sociale dagli effetti incontrollabili, anche per via delle modalità particolari attraverso cui si è declinato. L’attuazione concreta di provvedimenti di assistenza diretta alle imprese come il Paycheck Protection Program o il Main Street Lending Program ha indubbiamente segnalato un elevato livello di armonizzazione delle politiche fiscali e monetarie in un’ottica di sostegno all’economia. L’amministrazione Obama, invece, si era ben guardata – contravvenendo agli impegni assunti in campagna elettorale – dal riparametrare i debiti ipotecari al valore realistico degli edifici a dispetto delle quotazioni gonfiate dalle macchinazioni (fraudolente, non di rado) di Citigroup, Bank of America, Wells Fargo, ecc. La catena di pignoramenti scaturita dal “deragliamento” pilotato dell’Home Affordable Mortgage Program permise a colossi della speculazione come la stessa Blackstone di rilevare milioni di abitazioni statunitensi a pochi centesimi per dollaro e riaffittarle a prezzi fortemente accresciuti, allargando ulteriormente quella divaricazione tra reddito medio delle famiglie e prezzi medi degli affitti che si era cominciata a registrare a partire dal 2001.
Senonché, la mole colossale di stimoli introdotti da Congresso, governo federale e Federal Reserve in risposta alla crisi pandemica ha generato l’effetto perverso di sostenere una crescita del Pil sovradimensionata rispetto alle potenzialità reali del Paese, destinata inesorabilmente ad alimentare sia un incremento delle importazioni, sia un aumento incontrollato dei prezzi. Allo stesso tempo, l’apertura dei rubinetti del credito incentivata dalla linea d’azione intrapresa dalla Fed si è tradotta in un drastico incremento del debito sia pubblico che privato; mentre lo Stato aumentava a dismisura il deficit di bilancio per sostenere famiglie e imprese, un segmento rilevante della popolazione contraeva mutui immobiliari e Corporate America otteneva dalle banche corposi prestiti puntualmente riciclati in riacquisti azionari (buyback).
Lo scoppio del conflitto russo-ucraino, fortemente incoraggiato dalle politiche statunitensi (a questo riguardo, si vedano il mio libro edito lo scorso anno e il volume di Benjamin Abelow, di recentissima pubblicazione), ha condotto all’instaurazione di un clima sfavorevole agli investimenti sul teatro europeo destinato inesorabilmente a stimolare la fuoriuscita di capitali dal “vecchio continente”, reindirizzandoli verso il “porto sicuro” statunitense. Capitali di cui gli Usa necessitano tassativamente per finanziare i loro colossali squilibri, costituiti essenzialmente da un debito estero colossale e da un deficit strutturale della bilancia commerciale che si protrae ininterrottamente dagli anni ’80. L’erosione del “tesoretto” europeo costituito in trent’anni di mercantilismo sfrenato si riflette clamorosamente nella svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e nel rapido miglioramento della posizione finanziaria netta Usa, passata da -18.124,293 miliardi di dollari nel quarto trimestre 2021 a -16.285,837 miliardi nel secondo trimestre 2022 grazie proprio all’afflusso di capitali europei.
Nel terzo trimestre dello scorso anno, tuttavia, la posizione finanziaria netta statunitense è tornata nuovamente a peggiorare (-16.710,798 miliardi), mentre il volume delle detenzione straniere di Treasury Bond registrava un drastico ridimensionamento (da 7.492,7 a 7.133,0 miliardi di dollari tra l’agosto e l’ottobre 2022). Tendenze alquanto preoccupanti, che hanno spinto la Federal Reserve a procedere con un innalzamento progressivo dei tassi di interesse, giunti al 4,75% nel febbraio scorso dopo ben sei ritocchi consecutivi. La manovra ha concorso a richiamare capitali dall’estero, come certificato dall’aumento delle detenzioni straniere di Treasury Bond (tornate a crescere a 7.314,6 miliardi di dollari nel dicembre 2022), ma il rafforzamento del dollaro che ne è scaturito si è puntualmente tradotto in un netto aggravio del disavanzo commerciale, passato da 1.076,810 a 1.181,894 miliardi di dollari tra il 2021 e il 2022.
L’aspetto più allarmante non riguarda tuttavia l’entità del dato “nudo”, quanto la sua composizione. In particolare per quanto concerne il settore dei servizi, che per un economia “terziarizzata” come quella statunitense rappresentano o dovrebbero rappresentare il cuore pulsante. Gran parte dell’incremento (120 miliardi rispetto al 2021) dell’export registrato dagli Usa nel settore terziario si deve ai buoni risultati conseguiti dai settori dei trasporti (+24,3 miliardi) e dei viaggi (+63,7 miliardi), entrambi soggetti a un marcato rialzo dei prezzi, oltre che da quello della rendita da brevetti e marchi (+10,4 miliardi). Particolarmente sottotono si sono invece dimostrati i segmenti assicurativo (-1,4 miliardi) e finanziario (+5,5 miliardi) in cui il Paese identifica solitamente i propri punti di forza. Sul fronte delle merci, si è invece registrato un incremento del deficit su base annua pari a 101,5 miliardi di dollari, attenuato dalle ottime performance realizzate dal comparto degli idrocarburi. Si parla di un clamoroso +310,5 miliardi, dovuto essenzialmente all’emersione degli Stati Uniti come principale fonte di approvvigionamento per l’Europa sostitutiva della Federazione Russa, specialmente in seguito al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2. Ne consegue che, come rileva opportunamente il sempre brillante analista Guido Salerno Aletta, «l’aumento dell’export per merci degli Stati Uniti è stato dovuto per il 40% ai prodotti energetici […]. Praticamente gli Usa hanno fatto come qualsiasi altro Paese produttore di petrolio o di gas […]: quando hanno bisogno di soldi, basta che aprano i rubinetti dei pozzi. Peccato che agli Usa non basti affatto, per compensare un deficit commerciale che si fa di anno in anno sempre più pesante».
La definizione di “stazione di servizio mascherata da nazione” che l’ormai defunto senatore John McCain aveva appioppato alla Russia sembra insomma adattarsi in maniera sempre più fedele al suo stesso Paese, chiamato per di più a fare i conti con un processo di de-dollarizzazione la cui entità è stata opportunamente tratteggiata dal Fondo Monetario Internazionale. In un rapporto redatto nel marzo 2022, l’istituto attualmente diretto da Kristalina Georgieva parlò esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» in riferimento al netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in valuta statunitense dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Da un altro documento datato dicembre 2022 emergeva che il volume dei crediti espressi in dollari detenuti dalla rete bancaria globale era calato da 7.092,31 a 6.441,65 miliardi di dollari tra il terzo trimestre del 2021 e il terzo trimestre 2022.
La declinante capacità di esportare inflazione derivante dal ridimensionamento del ruolo del dollaro nel commercio internazionale e la conclamata impossibilità di sviluppare potenzialità produttive autonome in grado di correggere il pesante squilibrio dei conti con l’estero pone le istituzioni di Washington in una situazione particolarmente complicata. E le obbliga a cimentarsi in una forsennata corsa contro il tempo che passa in primo luogo attraverso la “cannibalizzazione” dell’Europa, che viene dissanguata di capitali tramite il dissesto pilotato del suo contesto economico e – potenzialmente – deprivata delle sue industrie più innovative attraverso provvedimenti quali l’Inflation Reduction Act.
I risultati provvisoriamente insufficienti generati dalla spoliazione del “vecchio continente” hanno reso quindi necessario l’innalzamento dei tassi di interesse, che se da un lato assicura l’afflusso di liquidità dall’estero, dall’altro accresce gli oneri legati al servizio del debito e strangola non soltanto quel che rimane dell’economia reale, ma anche le famiglie che avevano acceso mutui durante la crisi pandemica, perché incrementa in maniera sempre meno sostenibile il peso di ogni singola rata. Prova ne è il netto incremento del numero dei pignoramenti registrato nel corso del 2022, ripercossosi anzitutto su società particolarmente esposte nel settore come Blackstone.
All’inizio del mese corrente, il gigante del private equity aveva infatti notificato agli investitori il blocco dei prelievi sul proprio fondo Real Estate Income Trust (oltre 70 miliardi di dollari di valore complessivo) a fronte di un aumento complessivo delle richieste di rimborso, soddisfatte per un ammontare di 1,41 miliardi di dollari in riferimento alla sola mensilità di febbraio. Gli scricchiolii avvertiti da Blackstone non vanno sottovalutati, perché potrebbero costituire il preludio di una catena di inadempienze analoga o perfino più ampia rispetto a quella che nel periodo caldo intercorrente tra il 2008 e il 2010 condusse l’intero sistema finanziario statunitense sull’orlo del baratro. Per scongiurare il tracollo, le istituzioni di Washington intervennero con una serie di programmi di salvataggio per un ammontare complessivo di 29.000 miliardi di dollari, stando ai calcoli formulati nel 2011 dal Levy Economic Institute. Una cifra sbalorditiva, che rende quantomai opportuna la decisione dei responsabili editoriali di «Newsweek» di appore la scritta “We are all socialists now” sulla copertina del numero della rivista uscito nelle edicole verso la metà del febbraio 2009, ma del tutto insufficiente a mitigare l’impatto di una nuova, eventuale crisi, alla luce dei valori assolutamente fuori controllo che caratterizzano la posizione debitoria occupata attualmente dagli Usa.
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