Pentagono: perché la deindustrializzazione è un problema di sicurezza nazionale
Di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Nel settembre 2018, il Pentagono ha pubblicato un rapporto in cui si richiamava l’attenzione sul fatto che un numero sempre più elevato componenti cruciali per il funzionamento dei sistemi di difesa nazionali viene fornito da produttori localizzati in altri Paesi stranieri. Il motivo è presto detto: il funzionamento dei missili è messo in serio pericolo dal fatto che l’impresa statunitense che fabbricava interruttori di alimentazione al silicio ha recentemente chiuso i battenti e non ne esiste un’altra sul suolo nazionale in grado di rimpiazzarla, mentre per quanto riguarda la fornitura di motori a combustibile solido si è dovuto ricorrere a un’azienda norvegese, a causa di non meglio specificati problemi tecnici riscontrati nelle fasi avanzate di fabbricazione dall’unico produttore statunitense rimasto.
Quello missilistico è tuttavia soltanto uno dei tanti settori che ha visto i militari statunitensi rivolgersi a società straniere per garantire la continuità delle forniture, visto e considerato che nel documento redatto dagli specialisti del Dipartimento della Difesa si fa riferimento ad altri elementi essenziali come l’alluminio laminato a freddo da impiegare per le blindature dei mezzi pesanti, o a procedure tecniche che richiedono un elevato know-how quali la manutenzione dei sistemi di propulsione dei sottomarini. Senza contare il comparto dell’elicotteristica, messo a dura prova dal fallimento (avvenuto nel 2016) della sola società statunitense in grado di fabbricare pezzi di ricambio per le ali rotanti degli Apache Ah-64E, Osprey V-22 e Sikorsky S-65.
Tutto ciò si deve in larghissima parte alle politiche economiche portate avanti a partire dalla fine degli anni ’70. All’epoca, il brusco rialzo dei tassi di interesse decretato dalla Federal Reserve di Paul Volcker andò a combinarsi con la politica di deregulation, riduzione delle tasse e aumento delle spese militari portata avanti dall’amministrazione Reagan. L’incremento del budget per la difesa, in particolare, si tradusse in ricchissime commesse per il complesso militar-industriale, tra cui spiccano quelle relative alla realizzazione della Strategic Defense Initiative (Sdi) che posero le grandi industrie belliche nelle condizioni di destinare al settore di ricerca e sviluppo (R&S) i fondi necessari a sostenere la messa a punto di nuovi avanzamenti militari.
L’obiettivo era quello di rilanciare l’export di armi verso i Paesi alleati e intensificare allo stesso tempo la pressione militare sull’arrancante Unione Sovietica, per la quale l’Afghanistan stava rivelandosi un incubo senza fine. Le aziende produttrici di computer, microchip e software impiantate nella Silicon Valley californiana a cui il complesso militar-industriale aveva appaltato parte delle mansioni di R&S trovarono inoltre il terreno fertile per convertire gli sviluppi realizzati in ambito militare in applicazioni civili, mettendo in moto una “rivoluzione tecnologica” che si sarebbe protratta per i decenni successivi sovvertendo l’intero mondo della comunicazione. Così come per l’innovazione atomica, quella cibernetica, quella informatica, quella satellitare, quella dell’intelligenza artificiale, ecc., la spesa militare si è rivelata fondamentale per lo sviluppo della tecnologia applicata ai cosiddetti social network. La In-Q Tel, ad esempio, è una sorta di braccio imprenditoriale della Cia che gestisce l’outsourcing per la ricerca distribuendo finanziamenti alle aziende in grado di sviluppare tecnologie utili alle attività di intelligence.
Il peculiare rapporto venutosi a creare tra gli apparati spionistici Usa e le società hi-tech ha consentito a queste ultime di ingigantirsi e macinare profitti da capogiro, mentre per lo “Stato di sorveglianza globale” facente capo alla National Security Agency (Nsa) il ritorno dall’investimento effettuato si materializzava sotto forma di accesso diretto alle comunicazioni e ai dati degli utenti, come documentato da Glenn Greenwald. Naturalmente, questo risultato è il frutto di un lungo ed estenuante processo in base al quale, nota l’economista Bruno Amoroso in un suo volume, «al cambiamento delle strategie industriali introdotte dalla globalizzazione negli anni ’70 – il passaggio dall’era fordista a quella post-industriale – fece seguito un’intensa ricerca negli Stati Uniti per individuare le aree di maggiore competitività da sviluppare che consentissero di mantenere un ruolo di guida nell’economia mondiale. L’attenzione si concentrò sull’innovazione tecnologica nei settori hi-tech, tirati dall’industria militare e dalla finanza, nei quali si individuarono i due strumenti necessari per avviare attività di aggressione e speculative, necessarie per dissodare le nuove praterie del consumo di lusso e della rapina dei risparmi dei cittadini nel mondo».
Fu proprio grazie al colossale piano di riarmo reaganiano che il complesso militar-industriale e tutte le imprese collegate ad esso arrivarono ad occupare circa 600.000 lavoratori in più, mentre la manifattura civile perse qualcosa come 1,6 milioni di posti di lavoro. Gran parte di essi “ricomparvero” improvvisamente in quei Paesi del Terzo Mondo caratterizzati da cambi depressi (grazie anche all’impatto della crisi debitoria), bassa remunerazione salariale, scarse tutele lavorative e fiscalità “allegra” presso i quali le industrie statunitensi avevano trasferito gli stabilimenti produttivi per sfuggire alle condizioni proibitive che si erano venute a creare in patria a causa della stretta creditizia varata dalla Fed e della politica del “dollaro forte”.
Il fenomeno, che nella sua fase iniziale si manifestò sotto forma di subappalto da parte della grande distribuzione, si allargò tuttavia in maniera assai rapida a una serie di settori producendo risultati per il tessuto manifatturiero statunitense, sia in termini di deindustrializzazione che di perdita delle competenze strategicamente fondamentali. Tanto più che numerosi comparti interessati dal fenomeno risultano centrali per la produzione bellica. Per quanto riguarda la cantieristica, si parla di oltre 20.000 strutture scompare a partire dal 2000, cosa che ha considerevolmente ristretto il ventaglio delle possibilità a disposizione della Us Navy per rifornirsi dei componenti cruciali di cui necessita. Un discorso analogo può essere formulato per il comparto delle macchine utensili necessarie a produrre parti in metallo e plastica destinate a vari tipi di sistemi di difesa, e per l’elettronica, con il 90% circa dei circuiti stampati che viene prodotta in Asia.
Nel documento pubblicato dal Pentagono si stima che, all’interno degli Stati Uniti, siano scomparse circa 66.000 imprese manifatturiere tra il 2000 e il 2016 (pari a circa 5 milioni di posti di lavoro nell’industria in meno); di queste, ben 17.000 società lavoravano come fornitrici primarie del Pentagono. Molte di quelle rimanenti «faticano a sostenere gli investimenti necessari per adeguarsi alle commesse». È a causa dell’«erosione della manifattura americana verificatasi nell’ultimo ventennio […] che oggi dipendiamo […] da catene di produzione esterne» che molto spesso fanno capo a nazioni non sempre alleate degli Stati Uniti, come la Repubblica Popolare Cinese, dove si fabbricano componenti elettroniche e prodotti in alluminio necessari al sistema di difesa Usa. La segmentazione della filiera produttiva, determinata dalla separazione dei comparti di progettazione da quelli di fabbricazione, ha finito per aprire voragini nella forza lavoro specializzata statunitense; il Pentagono è arrivato a parlare di “atrofia delle competenze” per riferirsi alla crescente incapacità del sistema-Paese, falcidiato dalla deindustrializzazione (dagli anni ’50 ad oggi, gli impiegati nel settore della manifattura sono passati dal 30 al 10% del totale), di formare operai adeguati.
Il fenomeno, denuncia il Dipartimento della Difesa, tende inoltre a scoraggiare investimenti volti a potenziare le capacità produttive delle industrie critiche per il settore della difesa, con un impatto fortemente negativo sulle capacità di innovazione tecnologica degli Usa. Questo stato di cose rappresenta giocoforza «una minaccia per tutti gli aspetti basilari della produzione per la difesa, specialmente nella fase attuale contrassegnata da una crescita di forza e capacità tecnologiche da parte delle potenze concorrenti». Il riferimento è chiaramente alla Cina, accreditatasi come «produttore unico o fornitore primario per materiali cruciali per la fabbricazione di munizioni e missili. In molti casi non esiste fonte alternativa in grado di fornire materiale prontamente sostitutivo. Quando questa opzione permane, tempi e costi per testare i nuovi materiali risultano assolutamente proibitivi, in specie per quanto concerne i sistemi maggiormente sensibili», a partire da quelli legati alla missilistica.
Pechino ha potuto conseguire un risultato tanto sbalorditivo soltanto beneficiando del favore degli Usa, che hanno caldeggiato l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e agevolato in vario modo la delocalizzazione delle imprese nazionali presso l’ex Celeste Impero, nonostante le autorità locali imponessero alle aziende straniere di costituire joint-venture paritarie con società locali e di trasferire loro tutte le proprie competenze tecnologiche.
Su queste basi, il Pentagono ha quindi invocato a gran voce l’arresto delle «distorsioni del mercato operate dalla Cina, perché rischiano di far perdere agli Stati Uniti le tecnologie e le capacità industriali alla base della nostra potenza militare».
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