Lo scrittore e intellettuale spagnolo Juan Manuel de Prada si aggiunge al coro (a dire il vero esiguo) di coloro che, non adeguandosi alla narrazione ufficiale, vorrebbero vederci chiaro nell’attuale situazione di crisi pandemica. Nel suo recente libro “Cartas del sobrino a su diablo” (Homolegens 2020) ha ben illustrato, in maniera ironica e satirica il modo in cui il male ha accolto con entusiasmo l’avvento del Covid-19 approfittando della situazione di emergenza per espandere il suo potere e il suo dominio tra gli uomini. Ora, in un articolo pubblicato sulla rivista XL Semanal, parla di una vera tirannia messa in atto da chi pretende istaurare un regime di ferrea vigilanza sui cittadini e di repressione politica. Lo fa riferendosi a Michel Foucault e citando l’immancabile Donoso Cortés, una delle fonti primarie di ispirazione per il giornalista spagnolo, editorialista dell’ABC che, nel 2008, l’allora neo-direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian volle da subito come collaboratore nel giornale della Santa Sede. Altri tempi: oggi De Prada resta una voce isolata che merita – forse proprio per questo – la nostra attenzione.
La traduzione è a cura di Miguel Cuartero Samperi.
A nessuno sfugge che la piaga del coronavirus sta rendendo possibile l’istaurazione di ciò che Michel Foucault chiamava “biopolitica”, una nuova forma di tirannia che non si impone coi manganelli ma con strumenti ben più sofisticati che raggiungono il dominio sulle persone attraverso il controllo degli spazi che abitano, delle relazioni personali, della loro condotta, degli affetti e persino dei loro pensieri e dei loro desideri più segreti.
Lo “stato di allarme”, il “coprifuoco” e tutte le altre “restrizioni alla mobilità” che così tanto inquietano gli spiriti più tosti, sono solo manovre di distrazione. Molto più sottili (ed efficaci) sono, ad esempio le tecnologie di controllo di massa che tracciano i nostri spostamenti e manipolano le nostre decisioni, arrivando persino a prevederle. Si tratta di tecnologie che la maggioranza dei cittadini accetta mansuetamente, mentre traffica col proprio cellulare, convinta che il potere le utilizzi per la nostra sicurezza personale e per proteggere la nostra salute.
Tuttavia, parallelamente, si produce un altro fenomeno non meno evidente ma di cui pochi si accorgono. Infatti alla nostra generazione, sazia di ideologie scapestrate, è stata completamente amputata ogni forma di inquietudine spirituale. Un fatto decisivo, quello della soppressione dell’inquietudine religiosa, che si è reso manifesto, mostrandosi in tutto il suo travolgente splendore, da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus.
Nel leggere le cronache delle piaghe che in passato hanno decimato l’umanità, scopriamo che l’inquietudine religiosa delle società che le hanno subite, accresceva enormemente sotto il peso delle pandemie. Difatti, misurandosi con l’onnipresenza della morte, riemergevano le domande che il benessere e il diletto nei piaceri materiali tendevano a silenziare. Ma questa piaga che stiamo vivendo si sta distinguendo proprio per una ostinata mancanza di inquietudine religiosa, palpabile persino nelle situazioni più estreme (si veda la tranquillità con la quale abbiamo accettato che i nostri anziani morissero abbandonati, senza nessun tipo di soccorso spirituale), ma soprattutto nel clima sociale imperante, nei mezzi di comunicazione, nel dibattito intellettuale, nell’espressione artistica, che lungi dal confrontarsi col mistero della morte lo eludono o lo occultano utilizzando gli espedienti più diversi.
E anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, entrambe i fenomeni sono strettamente legati. Nel suo discorso sulla dittatura, Donoso Cortés (1809-1853, filosofo e politico conservatore spagnolo, ndt) illustra una legge infallibile della Storia che vincola la riduzione della religiosità con la crescita della tirannia. La religione offrirebbe agli uomini una “repressione interiore” che mette ordine nella vita morale. Nella misura in cui quella “repressione interiore” diminuisce, aumenta inevitabilmente la “repressione esteriore” o politica. Donoso ripercorre le diverse fasi dell’umanità, da una società pienamente religiosa – quella formata da Gesù e i suoi discepoli – dove la libertà era completa (non esisteva infatti altra legge che quella dell’amore) fino alle forme sempre più evolute di repressione politica, che permettono ai governi di fornirsi di un milione di bracci (gli eserciti), di un milione di occhi (la polizia), di un milioni di orecchi (la burocrazia amministrativa), fino ad arrivare al punto di avere il bisogno di «trovarsi allo stesso tempo in ogni luogo». Un desiderio di ubiquità che Donoso esemplifica (il suo discorso è del 1849) nell’invenzione del telegrafo. Ma gli avanzi della tecnologia si sono perfezionati in maniera vertiginosa.
A questo punto Donoso indugia, intimorito dalla prospettiva di una società in cui il termometro religioso continui a scendere fino a «sotto zero»; ma finalmente trova il coraggio per preannunciare l’avvento di «un gigantesco tiranno, colossale, universale, immenso» che non dovrà più affrontare nessuna resistenza fisica o morale, perché a quel punto tutti gli animi saranno divisi e tutti i patriottismi saranno morti.
E contro questa nuova forma di tirannia che allora si consoliderà, Donoso considera che non ci sarà nessun altro antidoto al di fuori di una «reazione religiosa». Ma alla fine lancia questa perturbante riflessione che il tempo non ha fatto altro che confermare: «È possibile questa reazione? Sì, è possibile; ma è probabile? Signor, qui parlo con la più profonda tristezza: non credo sia probabile. Ho visto, signori, e ho conosciuto molti uomini abbandonare la fede e poi tornare ad essa; disgraziatamente, signori, non ho mai visto nessun popolo che sia tornato alla fede dopo averla persa».
Ciò che sta succedendo davanti ai nostri occhi, con la piaga del coronavirus sullo sfondo, non fa che confermare i funesti auspici di Donoso. I nuovi tiranni potranno ormai cucinarci a piacimento.
(da testadelserpente)
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