Invocare la pace è sacrosanto. Ma non basta
Carlo Formenti
Avanti.it
https://avanti.it/invocare-la-pace-e-sacrosanto-ma-non-basta/
Venerdì 24 e sabato 25 febbraio Genova è stata teatro di due
manifestazioni contro la guerra: venerdì si è tenuto un presidio di
due-trecento persone davanti alla Prefettura, sabato c’è stato un
partecipatissimo corteo (i media parlano di 4000 persone, ma da vecchio
habitué di manifestazioni di piazza posso garantire che erano almeno
10000) che ha attraversato il porto per concludersi in Piazza de
Ferrari. Ma a marcare la differenza non sono tanto i numeri, quanto
l’atmosfera e gli slogan: davanti alla Prefettura si distribuivano
equanimemente le accuse fra Putin e la Nato, al porto prevalevano gli
attacchi alla Nato e, fatto ancora più significativo, mentre venerdì ho
visto qualche bandiera ucraina, sabato sventolavano diverse bandiere
russe e/o delle repubbliche popolari del Donbass. Il senso di tutto ciò,
visto da destra, è chiaro: al porto sfilavano i “putiniani”, davanti
alla Prefettura si riunivano gli “utili idioti” che fanno il gioco di
Putin senza rendersene conto. Provo a ribaltare questo punto di vista
partendo da un’affermazione provocatoria: quelle bandiere riflettono un
conflitto reale, ma assai diverso da quello evocato da destra, ma anche
rispetto a quello immaginato da una parte delle sinistre che hanno
promosso le manifestazioni.
Scambiando due chiacchiere con gli
elementi più politicizzati (i “quadri”) presenti nelle due occasioni si
sarebbe potuto pensare che la distanza era minore di quanto ipotizzabile
a un primo impatto: in entrambi i casi, si partiva dallo schema
aggressore/aggredito; per gli uni l’aggressore è Putin senza se e senza
ma (a prescindere da ogni ragionamento sulle cause del conflitto), pur
ammettendo che Usa e Nato sfruttano l’occasione per alimentare la guerra
e realizzare obiettivi che nulla hanno a che fare con la difesa della
democrazia; per gli altri l’aggredito è il popolo ucraino e gli
aggressori sono sia la Russia che gli Usa, accomunati dalle rispettive
mire di dominio imperiale (il concetto di “guerra interimperialista”
ricorreva nella maggior parte dei volantini ). La distanza era viceversa
chiarissima e netta se si ascoltava quanto dicevano i semplici
lavoratori e le persone comuni: qui l’imparzialità spariva di botto e la
gente si schierava “di pancia” da una parte o dall’altra. Ora vorrei
spiegare perché ritengo che, in questo caso, gli argomenti della pancia
sono più “razionali” di quelli di alcune presunte analisi “obiettive” di
quanto sta accadendo.
Parto da alcune constatazioni di fatto.
All’atto della riunificazione delle due Germanie, la Nato si era
impegnata a non estendere i propri confini fino a sfiorare quelli della
Russia, impegno sistematicamente violato, fino a creare una sorta di
lega dei Paesi ex socialisti in funzione antirussa. La rivoluzione
arancione del 2014 è stata un golpe contro un governo ucraino
legittimato da elezioni democratiche, una operazione di “regime change”
orchestrata dagli Stati Uniti con l’appoggio interno di forze di estrema
destra, se non esplicitamente neonaziste. Queste forze si sono
macchiate di crimini come il massacro di Odessa e le operazioni di
pulizia etnica contro le regioni russofone del Donbass. Gli accordi di
Minsk, che avrebbero potuto porre fine alla guerra civile, non sono
stati rispettati da Kiev. L’eroe nazionale della nuova Ucraina è tale
Bandera, un losco figuro che, durante la Seconda guerra mondiale, ha
guidato un movimento alleato del Terzo Reich e partecipato attivamente
al massacro di decine di migliaia di ebrei, comunisti e russi. Il “democratico” Zelensky ha messo fuori legge tutti i partiti di opposizione. Se l’Ucraina entrasse nella Nato, la Russia sarebbe sotto la minaccia di missili nucleari a pochi minuti di volo da Mosca
(ricordate i missili russi a Cuba?). L’Ucraina è già di fatto nella
Nato, che l’ha armata fino ai denti ancor prima dello scoppio della
guerra e ha impiantato sul suo territorio laboratori per lo sviluppo di armi chimiche e batteriologiche.
Gli Stati Uniti stanno usando la guerra per indebolire l’Europa sul
piano economico e costringerla a subire il peso maggiore di una
possibile estensione del conflitto. Si aggiungano le provocazioni contro la Cina
e la dichiarata intenzione di coinvolgerla in una Terza guerra mondiale
prima che possa minacciare la declinante egemonia occidentale
(distruggere la Russia è un obiettivo intermedio di questo disegno
strategico).
Queste cose sono note a chiunque abbia un minimo di
buon senso e non si limiti ad accettare passivamente la narrazione
propagandistica dei media mainstream occidentali (mai così blindati, se
non in occasione della gestione non meno univoca e mistificatoria della
pandemia). I lavoratori presenti al corteo di sabato appartengono a
settori che – come la logistica – pagano sulla propria pelle un prezzo
durissimo per gli effetti combinati della crisi della globalizzazione,
della gestione criminale della pandemia e della guerra, e sono
perfettamente consapevoli dell’intreccio di interessi fra quelle élite
finanziarie, politiche e mediatiche che, da un lato, li opprimono e li
sfruttano, dall’altro, reclamano il loro appoggio alle guerre
(Jugoslavia, Iraq, Libia, Afghanistan, Siria e adesso Ucraina) che
provocano per difendere il proprio dominio. Quindi le accuse di
totalitarismo contro Russia e Cina (e contro tutti i paesi che, in un
modo o nell’altro, si oppongono e resistono al sistema capitalistico
occidentale) non fanno molta presa su queste persone, le quali ascoltano
piuttosto la propria pancia, che gli suggerisce che chi lotta contro il
suo oppressore merita simpatia.
Quando ho fatto questo discorso
a una partecipante al presidio di venerdì mi ha risposto che questa è
una logica rozza e inaccettabile, basata sull’equazione “il nemico del
mio nemico è mio amico”. Ma siamo sicuri che questo ragionamento sia poi
così rozzo? Mao parlava della necessità di individuare in ogni concreto
momento storico il nemico principale, e di allearsi tatticamente con
soggetti che, anche se non sono necessariamente nostri amici, nella
misura in cui si oppongono al nemico principale, contribuiscono a
indebolirlo. L’imperialismo americano conosce molto bene questa lezione,
basti pensare a come ha usato gli integralismi islamici in funzione
antirussa, o a come cerca di istigare i nazionalismi di alcune minoranze
etniche contro il governo cinese. A ignorarla sono invece la
maggioranza delle sinistre occidentali, le quali, mentre si illudono di
fare analisi più raffinate delle reazioni di pancia dei lavoratori, si
avvitano in ragionamenti astratti che li rendono incapaci di lottare
efficacemente contro il nemico principale.
Chi parla oggi di
guerra interimperialista ignora la realtà storica che, dopo il crollo
dell’Urss, vede un’unica potenza imperiale, gli Stati Uniti, impegnata a
schiacciare con la forza ogni fattore di resistenza (stati, nazioni,
popoli, classi sociali, movimenti politici) al proprio dominio. Il
termine “potenze emergenti” applicato a paesi come Russia e Cina è
fuorviante: la Russia è sopravvissuta a stento ai tentativi occidentali
di smembrarla – come è avvenuto alla Jugoslavia – in una serie di
staterelli agevolmente dominabili, e ora deve difendersi da un nuovo
attacco per ricacciarla nelle condizioni in cui l’avevano lasciata
Eltsin e Gorbacev
trent’anni fa. La Cina, la si consideri o meno socialista, (per me lo è
ma non è questo il punto) è “emersa” da due secoli di umiliazione
coloniale grazie a una rivoluzione nazionale che le ha permesso di
divenire una grande potenza economica (mentre sul piano militare –
occorre tenerlo a mente – è ben lontana dalla potenza di fuoco
americana) e di strappare 800 milioni di persone alla miseria. Sono due
realtà che hanno bisogno di crescere e consolidarsi, non di aggredire
altre nazioni (al contrario dei veri imperialismi come quello Usa, che
possono prosperare solo eliminando i concorrenti prima che divengano
pericolosi).
La formula guerra interimperialista è figlia di
un’astrazione economicista secondo cui il mondo intero è ormai
omologato, sottoposto ovunque alle stesse “leggi” che ne determinano
meccanicamente le logiche politiche, i rapporti sociali, le dinamiche
culturali, ecc. E’ una visione cui sfuggono le differenze storiche,
culturali, le concrete formazioni sociali cui il modo di produzione
capitalistico è costretto ad adattarsi, generando effetti e dinamiche
diverse in contesti diversi. Quanto all’idea che esisterebbero interessi
comuni a tutti i popoli, “costretti” a lottare fra loro dalle
demoniache volontà di potenza dei rispettivi stati, si tratta di
un’astrazione (in questo caso ideologica) ancora più rozza, frutto della
visione antistatalista e antipolitica che le attuali sinistre
occidentali sembrano avere ereditato da un anarchismo ottocentesco
rivisitato e cucinato in salsa politicamente corretta.
In un
conflitto come quello ucraino (ma ciò vale per tutte le guerre) sono in
gioco elementi di gran lunga più complessi: non solo interessi economici
e di classe, ma anche differenze di tradizioni, lingua e religione,
memoria storica di conflitti precedenti, ecc. Costruire pace (la pace è
sempre una costruzione, non l’esito spontaneo di una natura umana
“liberata” dai vincoli della cattiva politica) è un compito difficile
che deve tenere conto di tutti questi fattori. I ragionamenti astratti e
le buone intenzioni non portano da nessuna parte. Ovviamente non basta
nemmeno la pancia cui facevo sopra riferimento, con la sua istintiva
individuazione del nemico principale, ma sicuramente è una base più
solida da cui partire.
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