ITALIAN MEMENTO
Davide Miccione
Avanti.it
Alcuni lettori ricorderanno forse Memento, un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. La trama racconta di un uomo, Leonard Shelby, affetto da un disturbo della memoria che gli cancella le nuove informazioni già dopo qualche minuto e dei suoi tentativi di sopravvivere e scoprire la verità. Un film teso e ansiogeno forse perché ci mette di fronte, più che a una patologia, alla perdita di noi stessi e della nostra identità e ci ricorda come la nostra memoria in un certo senso siamo noi stessi e, senza di essa, ciò che pensiamo abbia un senso smette di averlo.
Ebbene, è giusto che qualcuno ce lo dica prima o poi, noi come nazione siamo un grande Leonard Shelby. Uno Shelby fatto di tanti corpi, menti, istituzioni che cancella costantemente ogni memoria di ciò che abbiamo fatto, un organismo collettivo che resetta costantemente tutto ciò che gli è accaduto, costretto a simulare un’identità e che pretende o almeno spera di averla. La nostra difficoltà a rappresentarci collettivamente, quel tanto di insincero e di retorico che appare nelle nostre manifestazioni patriottiche o nazionali, si spiega se capiamo di essere Shelby e che la nostra storia nazionale è una grande bisecolare versione storica di Memento in cui individui di cui non abbiamo memoria pretendono di interagire con noi e a volte di dirci quello che dobbiamo fare.
Come un uomo che sapendo di soffrire di amnesia svegliandosi in un letto con una donna che lo tratta familiarmente simulerebbe, mentre cerca di capire chi è e che cosa fare, un ruolo maritale (che probabilmente gli riuscirebbe affettato o retorico) così noi siamo costretti a volte a simulare di essere una nazione mancandoci però la memoria di quale nazione siamo.
Pensata come un remake macrocosmico di Memento, tutta la nostra storia recente si coglie e si spiega. La nostra storia, così opaca ai nostri stessi occhi, trova una ragion d’essere. Si spiega persino la nostra ritrosia, unici tra francesi, portoghesi e spagnoli, a tradurre nella nostra lingua i mille stimoli della contemporaneità. Solo per noi, che non siamo sicuri di non essere inglesi o americani (come l’immortale personaggio Nando Mericoni creato da Alberto Sordi) è un problema tradurre la parola “computer” o l’acronimo NATO (che per francesi e spagnoli diventano il primo “ordinateur” o “ordinador” e il secondo OTAN). Noi invece non possiamo tradurre, siamo occupati a capirci qualcosa prima che l’amnesia anterograda ci cancelli nuovamente i pezzi del puzzle. Non sapendo chi siamo pensiamo sia meglio usare i termini che ci vengono da fuori piuttosto che prenderci la responsabilità di scelte sbagliate. Ci mimetizziamo per prudenza.
Ma come siamo diventati Shelby? Probabilmente non essendo mai disposti a pagare per i nostri sbagli, pensando che nasconderli a noi stessi come corpo collettivo fosse meglio che pagarli. Ogni italiano “mementificato” (un tempo lo era anche chi scrive) è convinto di essere mediamente più buono, meno bellicista, meno sanguinario, dei suoi cugini europei e occidentali. Noi pensiamo di noi stessi che siamo più umani nelle guerre, più morbidi e egualitari nelle avventure coloniali, portati alla pace, privi di quella folle ambizione che fa invadere le altrui storie e le altrui nazioni, siamo “italiani brava gente”, quando facciamo la guerra non è colpa nostra, ci hanno trascinato dentro. Sono state, come pensano le madri dei figli un po’ scemi (o che forse sono scemi perché hanno queste madri), soltanto le cattive compagnie a guastarci. Questo è il grande regalo dell’oblio. Anche quando gli schizzi di fango e di sangue ci toccano pensiamo di essere lì per caso e non essere parte in causa (e non è detto in fondo che gli schizzi rossi non possano essere salsa di pomodoro).
Forse siamo stati favoriti (per modo di dire ovviamente) dalla nostra recente unità e dalla nostra scarsa forza espansiva militare. Questa nostra poca forza espansiva ci ha aiutato a “mementificarci” perché nessun esterno è venuto a ricordarci le nostre colpe. Le nazioni vogliono dimenticare i loro sabba di sangue ma non sempre viene loro permesso, ogni vittima ha i suoi parenti e i suoi amici. Per quanto la storia sia scritta dai vincitori se le vittime sopravvissute rimangono fuori dalla cordata organizzata dai vincitori stessi allora resta ancora una mozione di minoranza, una voce (preziosissima) discordante. Noi però entriamo sempre in cordata con i vincitori e le nostre vittime sono, per la suddetta debolezza militare media rispetto ai cugini inglesi, francesi e tedeschi, perlopiù altri italiani. La nostra, come ben si sa, è più una tradizione fratricida. Del resto siamo una società familista e tutti sanno quanti delitti avvengono in famiglia e che proprio la famiglia stessa li copre e cerca di farli dimenticare. Se ci ammazziamo tra noi, sembra dire la nostra storia, a voi cosa importa? Perché volete metterci il becco?
Ci abbiamo lavorato su fin dall’inizio. L’unità nazionale spagnola si basa sulla estromissione di un elemento etnico-religioso che, a torto o a ragione, veniva percepito come estraneo (la reconquista) e su un matrimonio tra le famiglie regnanti principali; L’unità nazionale italiana si basa su una coltellata alle spalle di una delle due famiglie regnanti principali all’altra (per mezzo di contractor sapientemente guidati) e una atroce pulizia di chi per vari motivi, non era d’accordo (quello che è stato poi “mementificato” come “repressione del brigantaggio”). Abbiamo dovuto subito dimenticare, coprire con una tirata retorica tutto, costringere le vittime a dimenticare. Convincerli che quel passaggio (gli anni Sessanta dell’Ottocento) non sia esistito e convincerne i parenti degli sfollati, stuprati, torturati; convincere i meridionali che le forme di predazione economica non c’erano state e che se l’ineguaglianza permaneva era solo colpa loro (del resto di cosa non si può convincere un uomo che soffre di amnesia? Che cosa mai potrebbe controbatterti?). Non mancò in verità all’epoca una opinione pubblica indignata, però era estera.
Così, dunque, inizia la storia della nostra perdita della storia. Gli elementi ci sono già tutti, sono rimasti quelli e il lettore li avrà certo notati: la creazione, per massimizzare i guadagni di un’elite, di una divisione tra italiani che poteva essere evitata, la ferocia contro quella parte artificialmente prodotta, la messa al rogo di chi non ha capito il gioco e lo denuncia e la rimozione subitanea di quel che si è fatto. Questo è il format. Così siamo diventati Shelby e, bisogna dire, abbiamo cominciato da subito. La nostra è un’incapacità storica di lavorare all’unità sociale e politica degli italiani: ognuna delle “operazioni speciali” fatte nella nostra storia italiana hanno lasciato vittime senza voce, emarginazione o autoemarginazione dalla storia collettiva e la capacità di suturare queste ferite si è sempre scontrata con la volontà di non ricordarle. I pochi (per senso di giustizia o per fiuto commerciale poco importa, essendo la memoria un bene assoluto) che ci vogliono costringere a una dolorosa indagine autobiografica (si pensi ai casi editoriali rappresentati dai volumi di Pino Aprile e Giampaolo Pansa o ai lavori di Del Boca sul colonialismo italiano) dopo aver destato in alcuni il desiderio di ricordare si scontrerà con la decisione del corpo collettivo italiano di sentirsi buono o con la coscienza a posto.
La capacità di opprimere, di raccontarsela, di ignorare le stesse perplessità dell’opinione estera inizia lì. Coprirsi le mani di sangue e poi dimenticare l’attimo dopo. E poi i piccoli accorgimenti: trattare da estremisti, antiitaliani, visionari chi tenti di ricordargli qualcosa; privilegiare nel dibattito le posizioni estreme ed esagerate (il regno di Napoli era ricchissimo, super industrializzato, governato meravigliosamente!) di modo che resti indiscussa la vera questione: il sangue dei fratelli, la violazione dei diritti umani, l’impunità dei carnefici. Va reso più facile non ricordare.
Così siamo diventati Shelby e la nostra storia è l’edificazione di questo Shelby collettivo che vuole dimenticare di non essere stato un bravo bambino ma soprattutto vuole evitare che qualcuno della elite, cordata, camarilla, conventicola, consorteria che lo guida si trovi a pagare e magari pagando trascini dentro gli altri. In fondo la questione essenziale è proprio quella: salvare l’élite o una parte di essa e precipitare all’inferno gli altri (parafrasando Guy Fawkes: remember, remenber l’otto settembre). L’importante che neppure un capello della élite vada torto. Al massimo si potranno imbarcare pezzi dell’élite perdente che sappiano essere utili e che sappiano stare al proprio posto in posizione subordinata.
I fatti suonano sgradevoli e molto meno attraenti della melassosa narrazione in cui ogni italiano nasce e viene nutrito e verranno rifiutati. Resterà la nostra autobiografia posticcia (forse tatuata addosso a ognuno di noi come per il protagonista del film di Nolan). Quella in cui idealisti ed eroi hanno fatto l’unità d’Italia ma c’erano dei briganti perché l’Italia meridionale era terra di anomia e i fratelli del nord hanno dovuto ristabilire l’ordine. Poi abbiamo inventato la nostra industria perché siamo un popolo di alacri lavoratori (senza Bava Beccaris), poi abbiamo inventato anche il fascismo che però era il meno cattivo dei fascismi europei, poi abbiamo invaso l’Etiopia ma senza razzismo (più che altro perché lo facevano tutti: “mamma sono le cattive compagnie. Io non c’entro”), poi il razzismo è diventato legge (ma noi mica ci abbiamo veramente creduto, era una recita a favore di telecamere per i tedeschi, tanto è vero che Gaetano Azzariti, il Presidente del “tribunale della razza” lo abbiamo fatto poi presidente della Corte costituzionale). Infine una grande guerra di popolo ci ha liberato dall’invasore, ma senza eccessi; e poi, diventati subito tutti antifascisti, abbiamo costruito una democrazia libera e sovrana anche se con una certa sfortuna con i mezzi meccanici (treni che esplodono, aerei dell’Eni che si guastano). Poi abbiamo avuto i terroristi ma per fortuna i nostri efficienti servizi segreti ci hanno aiutato a sconfiggerli. Infine, ai giorni nostri abbiamo affrontato una terribile pandemia ma con equilibrio e sollecitudine di modo che il tessuto sociale non ne risentisse. Qualcuno all’estero è rimasto perplesso ma noi qui le cose le risolviamo tra noi ed è andato tutto bene (l’ha detto pure la Consulta, anche se Azzariti per sopraggiunti limiti di età non la presiede più).
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