Di Thomas Fazi, unherd.com
La Francia è in fiamme. Israele sta scoppiando. L’ America sta affrontando un secondo 6 gennaio. Tuttavia, nei Paesi Bassi, l’establishment politico
è alle prese con un tipo di protesta completamente diverso che, oggi,
forse più di ogni altro, minaccia di destabilizzare l’ordine globale.
La vittoria del BoerBurgerBeweging (BBB), il Movimento Agricoltori-Cittadini, alle recenti elezioni provinciali rappresenta un risultato straordinario per un partito anti-establishment nato poco più di tre anni fa. Ma d’altronde questi non sono tempi ordinari.
Il BBB è nato dalle manifestazioni di massa contro la proposta del governo olandese di ridurre del 50% le emissioni di azoto
nel settore agricolo del Paese entro il 2030 – un obiettivo concepito
per conformarsi alle norme di riduzione delle emissioni dell’Unione
Europea. Mentre le grandi aziende agricole hanno i mezzi per raggiungere
questi obiettivi – utilizzando meno fertilizzanti azotati e riducendo
il numero di capi di bestiame – le aziende più piccole, spesso a
conduzione familiare, sarebbero costrette a vendere o a chiudere.
In effetti, secondo un documento della Commissione europea è proprio questo l’obiettivo della strategia:
“estensivizzare
l’agricoltura, in particolare attraverso l’acquisto o la cessazione di
aziende agricole, con l’obiettivo di ridurre il bestiame“; ciò avverrebbe “in primo luogo su base volontaria, ma non si esclude l’acquisizione obbligatoria se necessario“.
Non
sorprende, quindi, che i piani abbiano scatenato massicce proteste da
parte degli agricoltori, che li considerano un attacco diretto ai loro
mezzi di sostentamento, o che lo slogan del BBB – “No Farms, No Food”
– abbia avuto una chiara risonanza tra gli elettori. Ma a parte le
preoccupazioni per l’impatto della misura sulla sicurezza alimentare del
Paese e su uno stile di vita rurale secolare, parte integrante
dell’identità nazionale olandese, anche la logica alla base di questa
drastica misura è discutibile.
L’agricoltura è attualmente
responsabile di quasi la metà della produzione di anidride carbonica
della nazione, eppure i Paesi Bassi sono responsabili
di meno dello 0,4% delle emissioni mondiali. Non c’è da stupirsi se
molti olandesi non riescono a capire come rendimenti così trascurabili
giustifichino la completa revisione del settore agricolo del Paese, che è
già considerato uno dei più sostenibili al mondo: negli ultimi due
decenni, la dipendenza dall’acqua per le colture chiave è stata ridotta fino al 90% e l’uso di pesticidi chimici nelle serre è stato quasi completamente eliminato.
Gli
agricoltori sottolineano inoltre che le conseguenze del taglio
dell’azoto si estenderebbero ben oltre i Paesi Bassi, essendo il più
grande esportatore di carne in Europa e il secondo esportatore
di prodotti agricoli al mondo, subito dopo gli Stati Uniti; in altre
parole, il piano causerebbe il crollo delle esportazioni di prodotti
alimentari in un momento in cui il mondo sta già affrontando una carenza
di cibo e di risorse. Sappiamo già come potrebbe andare a finire.
Un
divieto simile sui fertilizzanti azotati è stato applicato l’anno
scorso nello Sri Lanka, con conseguenze disastrose: ha causato una
carenza alimentare artificiale che ha fatto sprofondare quasi due
milioni di abitanti nella povertà, portando a una rivolta che ha
rovesciato il governo.
Data la natura irrazionale della politica, molti agricoltori che protestano ritengono che non si possa semplicemente dare la colpa alle “élite green”
urbane che attualmente guidano il governo olandese. Secondo loro, una
delle ragioni alla base di questa operazione è quella di estromettere i
piccoli agricoltori dal mercato, affinché possano essere acquisiti da
giganti multinazionali dell’agroalimentare che sanno dell’immenso valore
della terra del Paese: non solo è altamente fertile, ma è anche situata
in una posizione strategica con facile accesso alla costa atlantica
settentrionale (Rotterdam è il porto più grande d’Europa).
Inoltre, fanno notare che il primo ministro Rutte è un contributore dell’Agenda del World Economic Forum (WEF), ben noto per essere guidato dalle imprese,
mentre il suo ministro delle Finanze e il ministro degli Affari sociali
e dell’Occupazione sono anch’essi legati a questo organismo.
La lotta che si sta svolgendo nei Paesi Bassi sembra far parte di un gioco molto più grande che mira a “resettare” il sistema alimentare internazionale.
Misure
simili sono attualmente introdotte o prese in considerazione in diversi
altri Paesi europei, tra cui Belgio, Germania, Irlanda e Gran Bretagna
(dove il governo sta incoraggiando
gli agricoltori tradizionali a lasciare il settore per liberare terreni
per nuovi agricoltori “sostenibili”). Essendo il secondo contributore
alle emissioni di gas serra, dopo il settore energetico, l’agricoltura è
naturalmente finita nel mirino dei sostenitori del The great Net Zero, ovvero di quasi tutte le principali organizzazioni internazionali e globali.
La soluzione, ci dicono, è “l’agricoltura sostenibile“, uno dei 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite, che costituiscono l’ “Agenda 2030“.
La questione è stata portata in cima all’agenda globale. La riunione del G20 dello scorso novembre a Bali ha chiesto “un’accelerazione della trasformazione verso un’agricoltura sostenibile e resiliente e verso i sistemi e le filiere alimentari” per “garantire che i sistemi alimentari contribuiscano meglio all’adattamento e alla mitigazione dei cambiamenti climatici“. Pochi giorni dopo, in Egitto, il vertice annuale del Green Agenda Climate Summit COP27 ha lanciato la sua iniziativa volta a promuovere “un passaggio verso diete sostenibili, resistenti al clima e sane“. Entro un anno, la sua Food and Agriculture Organization intende lanciare una “tabella di marcia” per ridurre le emissioni di gas serra nel settore agricolo.
L’obiettivo finale è accennato in molti altri documenti delle Nazioni Unite: ridurre l’uso dell’azoto
e la produzione globale di bestiame, diminuire il consumo di carne e
promuovere fonti proteiche più “sostenibili”, come i prodotti a base
vegetale o coltivati in laboratorio e persino gli insetti.
Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (The United Nations Environment Programme, ndt), ad esempio, ha dichiarato che il consumo globale di carne e latticini deve essere ridotto del 50% entro il 2050.
Altre
organizzazioni internazionali e multilaterali hanno presentato i propri
piani per trasformare il sistema alimentare globale. La strategia Farm to Fork dell’UE “mira ad accelerare la nostra transizione verso un sistema alimentare sostenibile“.
Nel
frattempo, la Banca Mondiale, nel suo piano d’azione sul cambiamento
climatico per il periodo 2021-2025, afferma che il 35% dei finanziamenti
totali della banca in questo periodo sarà dedicato alla trasformazione
dell’agricoltura e di altri sistemi chiave per affrontare il cambiamento
climatico.
Accanto a questi organismi intergovernativi e multilaterali, una vasta rete di “stakeholder”
è ora dedicata all'”ecologizzazione” dell’agricoltura e della
produzione alimentare: fondazioni private, partenariati
pubblico-privati, ONG e aziende. Reset the Table, un rapporto della Rockefeller Foundation del 2020, chiedeva di passare da un “focus sulla massimizzazione dei profitti degli azionisti” a “un sistema più equo incentrato su profitti e benefici equi per tutti gli stakeholder“.
Questa può sembrare una buona idea, finché non si considera che il
“capitalismo degli stakeholder” è un concetto fortemente promosso dal World Economic Forum, che rappresenta gli interessi delle più grandi e potenti aziende del pianeta.
La Fondazione Rockefeller ha legami molto stretti con il WEF, che a sua volta sta incoraggiando gli agricoltori ad adottare metodi “intelligenti dal punto di vista climatico” per realizzare la “transizione verso sistemi alimentari a zero emissioni e positivi per la natura entro il 2030“.
Il WEF è anche un grande sostenitore della necessità di ridurre
drasticamente l’allevamento e il consumo di carne e di passare a “proteine alternative“.
L’organizzazione pubblico-privata più influente, specificamente “dedicata alla trasformazione del nostro sistema alimentare globale“, è la EAT-Lancet Commission,
che è in gran parte modellata sull’approccio “multistakeholder” di
Davos. Quest’ultimo si basa sulla premessa che la definizione delle
politiche globali debba essere modellata da un’ampia gamma di
“stakeholder” non eletti, come le istituzioni accademiche e le
multinazionali, che lavorano fianco a fianco con i governi. Questa rete,
co-fondata dal Wellcome Trust, è composta da agenzie delle Nazioni Unite, università leader a livello mondiale e aziende come Google e Nestlé. La fondatrice e presidente di EAT, Gunhild Stordalen, filantropa norvegese sposata con uno degli uomini più ricchi del Paese, ha descritto la sua intenzione di organizzare una “Davos del cibo“.
Il lavoro della EAT è stato inizialmente sostenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ma nel 2019 l’OMS ha ritirato la sua approvazione dopo che Gian Lorenzo Cornado,
ambasciatore e rappresentante permanente dell’Italia presso le Nazioni
Unite a Ginevra, ha messo in dubbio le basi scientifiche del regime
dietetico promosso dall’EAT, che si concentra
sulla promozione di alimenti a base vegetale e sull’esclusione della
carne e di altri alimenti di origine animale. Cornado ha sostenuto che “una dieta standard per l’intero pianeta” che ignori l’età, il sesso, la salute e le abitudini alimentari “non ha alcuna giustificazione scientifica” e “significherebbe
la distruzione di diete tradizionali sane e millenarie che sono parte
integrante del patrimonio culturale e dell’armonia sociale di molte
nazioni“.
Forse più importante, ha detto Cornado, è il fatto che il regime dietetico consigliato dalla commissione “è anche carente dal punto di vista nutrizionale e quindi pericoloso per la salute umana” e “porterebbe certamente alla depressione economica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo“. Ha inoltre espresso il timore che “l’eliminazione totale o quasi degli alimenti di origine animale”
distrugga l’allevamento del bestiame e molte altre attività legate alla
produzione di carne e prodotti caseari. Nonostante queste
preoccupazioni, sollevate da un membro di spicco del massimo organismo
mondiale per la salute pubblica e condivise da una rete che rappresenta 200 milioni di piccoli agricoltori in 81 Paesi, l’EAT
continua a svolgere un ruolo centrale nella spinta globale per una
trasformazione radicale dei sistemi alimentari. Al Vertice sui sistemi
alimentari delle Nazioni Unite del 2021, nato da una partnership tra il
WEF e il Segretario Generale dell’ONU, Stordalen ha avuto un ruolo di primo piano.
Questo
completo annullamento dei confini tra la sfera pubblica e quella
privato-aziendale nei settori dell’agricoltura e dell’alimentazione si
sta verificando anche in altri ambiti, e Bill Gates si trova, da qualche parte, in mezzo. Oltre alla sanità, l’agricoltura è l’obiettivo principale della Bill and Melinda Gates Foundation,
che finanzia diverse iniziative il cui scopo dichiarato è aumentare la
sicurezza alimentare e promuovere un’agricoltura sostenibile, come Gates Ag One, CGIAR e l’Alleanza per la rivoluzione verde in Africa (“The Alliance for a Green Revolution in Africa“).
Organizzazioni della società civile, tuttavia, hanno accusato la Fondazione di usare la sua influenza per promuovere gli interessi delle multinazionali nel Sud del mondo e per spingere verso soluzioni high-tech inefficaci
(ma molto redditizie) che hanno ampiamente fallito nell’aumentare la
produzione alimentare globale. Le attività agricole “sostenibili” di Gates non sono limitate ai Paesi in via di sviluppo. Oltre a investire in aziende produttrici di proteine vegetali, come Beyond Meat e Impossible Foods, Gates ha acquistato enormi quantità di terreni agricoli negli Stati Uniti, al punto da diventare il più grande proprietario privato di terreni agricoli del Paese.
Il
problema della tendenza globalista che egli incarna è evidente: in
ultima analisi, l’agricoltura su piccola e media scala è più sostenibile
di quella industriale su larga scala, in quanto è tipicamente associata a una maggiore biodiversità e alla protezione delle caratteristiche del paesaggio.
Le
piccole aziende agricole forniscono anche tutta una serie di altri beni
pubblici: contribuiscono a mantenere vivaci le aree rurali e remote, a
preservare le identità regionali e a offrire lavoro in regioni con
minori opportunità di impiego. Ma soprattutto, le piccole aziende agricole nutrono il mondo.
Uno studio del 2017 ha rilevato che la “rete alimentare contadina” – la variegata rete di produttori su piccola scala scollegati dalla Grande Agricoltura – nutre più della metà della popolazione mondiale utilizzando solo il 25% delle risorse agricole mondiali.
L’agricoltura
tradizionale, tuttavia, sta subendo un attacco senza precedenti. I
piccoli e medi agricoltori sono sottoposti a condizioni sociali ed
economiche in cui non possono sopravvivere. Le aziende agricole
contadine stanno scomparendo ad un ritmo allarmante in tutta Europa e in altre regioni, a vantaggio degli oligarchi alimentari del mondo – e tutto questo viene fatto in nome della sostenibilità.
In un momento in cui quasi un miliardo di persone nel mondo soffre ancora la fame,
la lezione degli agricoltori olandesi non potrebbe essere più urgente e
stimolante. Almeno per ora, c’è ancora tempo per resistere al Grande Reset Alimentare.
Di Thomas Fazi, unherd.com
28.03.2023
Thomas Fazi è editorialista e traduttore del portale web britannico UnHerd. Il suo ultimo libro è The Covid Consensus, scritto insieme a Toby Green.
Fonte: https://unherd.com/2023/03/the-great-food-reset-has-begun/
Traduzione a cura della Redazione di CDC