Contro lo stato moderno: la libertà individuale migliora l’esistenza
“Liberalismo” è una parola inflazionata. Tutti nell’ultimo decennio del Novecento hanno cercato di crearsi una sorta di capanna confortevole e inattaccabile, definendosi “liberali”: anche coloro che, come nel loro passato – a volte inconfessabile perché speso a difendere ideologie e pratiche pianificatrici e collettiviste – rimangono portatori di una mentalità autoritaria, gregaria, fideistica nei confronti di chi detiene il potere, anticapitalistica e statalistica in vario grado. È una costa arcinota. La maggioranza non sa che il Liberalismo è, prima di tutto, a un metodo di studio non equiparabile a una dottrina politica come le altre. Il Liberalismo è sorto come reazione all’affermazione e al consolidamento dello Stato moderno, alla sempre più totale concentrazione del potere che quello ha prodotto, alle sue pratiche liberticide, che nel secolo scorso e nel presente hanno raggiunto vertici difficilmente immaginabili nelle epoche precedenti.
Leggendo in profondità questi processi e cercando di contrastarli, esso ha anche cercato di smascherare abbellimenti e ideologie usate per giustificare quei processi e per far accettare una progressiva soppressione delle libertà individuali. Certo, il Liberalismo si è trasformato in dottrina politica dalle mille e caotiche sfumature, poichè è finito invischiato in continui e gravi compromessi con lo statalismo (nazionalista, soprattutto in Italia), e per lunghi periodi storici non è stato più capace di scendere sul terreno del realismo politico, dimenticando gli effetti della dura realtà del potere – della sua tendenza inesorabile ad auto-accrescersi, macinando anche i vincoli impostigli dal Costituzionalismo – e delle inaudite invadenze dei poteri pubblici, che hanno occupato ogni ambito vitale. La definizione stessa di “Stato liberale” – un ossimoro, una contraddizione in termini – è l’emblema di questa progressiva degenerazione. Tuttavia, se riportato alle sue origini radicali e realiste a tutto tondo, il Liberalismo coincide con la vita stessa. Libertà dai vincoli imposti dal potere politico (tassazione in continua crescita, centralizzazione politica, regolamentazioni a catena, legislazione selvaggia, proibizioni dilaganti, egualificazione forzata, divieto di scambiare, intromissione nei contratti, ecc.), significa, infatti, liberazione di tutte le capacità e potenzialità umane, di tutti i progetti individuali che perseguono la felicità, non solo senza danneggiare gli altri, ma anche arricchendone l’esistenza. Nella sua natura originale, coerente e radicale, il Liberalismo combatte lo statalismo e la sua mediocre filosofia, basata su imposizioni in nome di fantomatiche collettività e di un “noi collettivo” che giustifica qualsiasi minaccia o uso della violenza per produrre controlli e restrizioni, consenso, livellamenti forzati, divieti di godere del frutto del proprio lavoro, pretendendo di interpretare una moralità superiore nell’imporre progetti sovraordinati delle classi politiche, formulati in nome e per conto di coloro che di quella violenza sono i beneficiari.
Naturalmente sono solo alcuni (generalmente i percettori di tasse), perché non esistono decisioni politiche valide per tutti o che tutti avvantaggiano e perché lo Stato è ad uso e consumo di coloro (in carne e ossa) che riescono a conquistarlo (con metodi diversi: dalle elezioni ai colpi di Stato) e a controllarlo. Lo statalismo egualificante (tutti eguali e atomizzati di fronte al sovrano) sfrutta false dottrine, creando continuamente, ad arte, nemici del suo monopolio. Le più comuni: che la causa della povertà risieda nel fatto che molti hanno troppo; che i progetti individuali e l’attività economica libera non siano morali e che esiste solo una quantità statica di ricchezza da redistribuire, della quale i più ricchi si appropriano a spese di tutti gli altri; che i problemi economici siano causati da qualcuno che opera nel libero mercato e in particolare dai profitti; che mediante le procedure democratiche si ha il diritto di saccheggiare le risorse prodotte con estrema fatica da altri e via enumerando. Molti pensano che gli Stati possano miracolosamente procurare la prosperità per tutti, creando e distribuendo ricchezza. È la stessa aspettativa teologica (secolarizzata) della manna dal cielo.
La realtà è completamente diversa. Se godiamo ancora di un residuo di civiltà materiale creato da generazioni nel corso di secoli, lo si deve al fatto che al potere politico concentrato e alla “tragedia dei beni comuni” si è cercato di porre freni e limiti di tutti i generi – per quanto continuamente macinati dal Leviatano dilagante – sulla base di principi liberali, ritagliando spazi residui all’azione cooperante e volontaria di migliaia di persone che hanno deciso di produrre beni e servizi indispensabili per consentirci di migliorare la nostra vita, uscendo dallo stato normale dell’umanità: quello di povertà. Regolazioni, produzione legislativa inarrestabile, produzione di carta moneta a ciclo continuo e tassazione stanno distruggendo tutto questo. Nel mondo contemporaneo la fame è causata da politiche pubbliche devastanti (si pensi al protezionismo agricolo nei confronti del Sud del mondo e dell’Europa orientale), che paralizzano l’interazione umana e la cooperazione di scambio. Pochi si chiedono che cosa accadrebbe se finissero lo statalismo e le restrizioni imposte dal potere politico, sia interne che internazionali, che non sono altro che minacce o uso della violenza contro la cooperazione spontanea. La vita con ogni probabilità rifiorirebbe. Mentre oggi si affaccia (come nei casi quotidiani di suicidi di disperati di tutti i ceti sociali) solo il volto arcigno della morte.
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