L’ignoranza al potere
di Roberto Pecchioli - 27/11/2022
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/l-ignoranza-al-potere-94118
Fonte: EreticaMente
L’area metropolitana è la zona della città raggiunta dalla
ferrovia sotterranea, la “metro”. Così pensa una giovane insegnante di
sostegno appena assunta. Cercavamo di spiegarle come muoversi in città e
nelle adiacenze, l’area metropolitana, appunto. E meno male che i
docenti di scuola elementare, i mai troppo rimpianti “maestri”, devono
ora essere muniti di laurea.
L’ ignoranza è andata al potere; nulla
di strano se sale in cattedra, spesso con l’unico obiettivo di
accumulare punteggio per tornare presso casa. Sul livello imbarazzante
di qualche ministro del recente passato si è ironizzato molto, ma perché
prendersela con Gigino Di Maio o Danilo Toninelli, se è l’Italia intera
a scendere con moto accelerato la scala della cultura? Loro – e tanti
altri – sono il sintomo, non la malattia. L’ Italia – nazione culturale
per eccellenza – è agli ultimi posti per numero di laureati e diplomati e
perde ogni anno decine di migliaia di giovani, i più preparati e
volitivi.
Fuggono all’estero i “cervelli”, ma anche chi ha un
mestiere, una capacità professionale o semplicemente voglia di
impegnarsi. Proprio ciò che manca per diseducazione accanitamente
perseguita da mezzo secolo. Contemporaneamente i partenti vengono
sostituiti da immigrati di livello basso, buoni per lavori mediocri e
per lo sfruttamento sistematico, oltreché per far scendere ulteriormente
il mercato del lavoro.
Impressiona la povertà di linguaggio e
l’assenza di ragionamento, l’uso di poche espressioni – sempre le stesse
– tratte per lo più dal linguaggio televisivo e da quello – ancora più
scarnificato – dei social media. Milioni di italiani sono analfabeti
funzionali, ossia non in grado di comprendere discorsi, testi o
ragionamenti di complessità media (una volta…). E’ accertata la
diminuzione del quoziente di intelligenza che affligge l’Occidente da
almeno vent’anni. Un eminente studioso di psicologia, Jonathan Haidt,
ritiene che la data cruciale sia stata il 2010, l’anno dell’immissione
sul mercato degli smartphone. “Se sei un giovane che si è agganciato
alle reti sociali dal 2010, il tuo cervello funziona diversamente dal
mio”, conclude. Forse intendeva dire che funziona meno…
La lettura
diminuisce drasticamente e le librerie, per evitare la chiusura, vendono
i prodotti più vari: fate un giro e ve ne accorgerete. Inevitabilmente,
il linguaggio declina sino al grugnito di massa infarcito di simil
inglese (il globish). George Orwell intuì che “perdere” le parole
significa smarrire temi, argomenti e non poter più descrivere se stessi.
Mancano finanche le parole per opporsi a un sistema devastante. Ecco il
punto: l’ignoranza è andata al potere – ai piani bassi e intermedi –
per scelte precise di chi comanda davvero.
Non crollano soltanto la
cultura “alta” e quella popolare. Pensiamo alla musica che impronta
l’universo giovanile: siamo passati da Freddy Mercury, Jim Morrison, Bob
Dylan, le grandi band di ieri – indipendentemente dal giudizio sulla
vita dei protagonisti – al Rap e al Trap, ripetitivo e cantilenante.
Oppure alle musiche tecnologiche – spesso baccano sguaiato – che
alimentano eventi come i rave party. Risultato: sballo, droga,
istupidimento di massa, scatenamento dell’istinto: il sabba post
moderno. E non dite che è colpa dei giovani: il vuoto non lo hanno
creato, lo hanno trovato.
Cala anche la memoria, la capacità di
apprendimento. Nel regno della velocità e del “tempo reale” tutto deve
accadere in fretta. Ma non c’è cultura senza impegno, costanza,
dedizione, sforzo della memoria e dell’intelligenza. Inutile: ci sono
Internet e lo smartphone. A che pro padroneggiare la matematica,
conoscere la storia, o qualunque altra materia, se online, a portata di
clic e con favorevoli piani tariffari, c’è tutto ciò che “serve”, nonché
tutte le risposte preconfezionate, in forma di soluzione alle FAQ
(Frequently asked questions, domande frequenti).
Ciò che “serve”: un
altro inganno. La scuola non fornisce più cultura né educazione alla
vita. Tutt’al più addestra ad alcune materie o abilità strumentali da
spendere nella vita professionale, senza neppure conseguire l’obiettivo.
La complessità ridotta a tutorial, istruzioni per l’uso.
Un’altra
insegnante, nonostante mesi di notizie televisive, non è riuscita a
indicare l’Ucraina su una carta geografica dell’Europa. Normale: la
geografia “non serve”, come la storia e altre materie dette
spregiativamente umanistiche. A che cosa serve la filosofia? Non c’è
risposta poiché manca la capacità di comprenderla. Di più, è assente la
volontà di ascolto. E’ la fondamentale differenza tra l’ignoranza di
ieri – quella dei nostri padri e nonni – e la nostra: nel passato si
sapeva di non sapere e si aveva l’umiltà di ascoltare e imparare. Oggi,
l’istruita ignoranza (non di rado “masterizzata”, nel senso dei master,
titoli che dovrebbero certificare alta cultura) è arrogante, superba,
soddisfatta di sé.
Più le conoscenze sono settoriali, specialistiche,
più chi le detiene ha l’atteggiamento di chi sa tutto, con il diritto
di strologare, tranciare giudizi su ogni argomento, come si dice adesso
“a trecentosessanta gradi”. E’ sufficiente leggere i commenti sulle reti
sociali per rendersene conto. Predomina un linguaggio sconnesso,
sgrammaticato, riduttivo, ma sempre assertivo, la certezza di una
indimostrata superiorità.
Non erano così i nostri padri e viene da
sorridere ricordando l’esortazione a studiare, imparare, cercare la
compagnia di chi ne sa più di noi, a impegnarsi. Ma, ancora, a che
“serve”? Enormi sono le responsabilità politiche, specie a sinistra.
Eppure Antonio Gramsci esigeva studio, impegno popolare. Palmiro
Togliatti era uomo di fine cultura e Concetto Marchesi, latinista
comunista, difendeva lo studio del latino e delle materie umanistiche.
“A che giova il latino? A più cose giova: se anche non giova
direttamente a nessuna cosa la quale abbia una specifica utilità nella
pratica dell’esistenza. Ma sulla base dell’utilità e della ricerca
interessata si corre il rischio di impedire o di arrestare il processo
dell’intima formazione individuale. Ci sono momenti in cui l’intelletto
umano riceve il suo più alto nutrimento dalle cose inutili”.
Impedire
o arrestare il processo della formazione individuale: missione
compiuta, viene da commentare. Da allora, l’impegno dei sedicenti
difensori del popolo è stato abbassare la cultura estendendo non
l’istruzione, ma i diplomi e le lauree. In nome dell’uguaglianza si è
abbassato il livello di tutti. Risultato? I ricchi stanno meglio di
prima, poiché – pagando – possono permettersi cultura e conoscenza. Agli
altri restano il “pezzo di carta” e la frustrazione. Diffondere
ignoranza per proclamare uguaglianza è colpevole, criminale.
Non lo è
di meno la visione mercantile, aziendale, di chi pensa che il sapere
debba essere indirizzato esclusivamente a competenze strumentali.
Un’idea miope o furbissima. Miope poiché condanna milioni di persone a
conoscere solo un angolino minuscolo della cultura, furbissima perché il
potere preferisce masse ignoranti: manipolabili, fungibili, incapaci di
comprendere qual è il loro ruolo di anelli della catena, privati del
pensiero e dunque di slancio oppositivo.
E’ la visione neoliberale
alla Berlusconi, lo slogan vuoto delle tre I, impresa, inglese,
informatica. L’impresa è una struttura organizzativa, l’inglese rischia
di essere un elemento di colonizzazione culturale, Internet è un
potentissimo mezzo. Strumenti, solo strumenti, punte avanzate dello
specialismo che impedisce l’interpretazione complessiva della realtà. Ne
era consapevole Konrad Lorenz che ne Il declino dell’uomo prende atto
che l’accrescimento del sapere collettivo supera le capacità cognitive
dei singoli. La divisione del sapere e la conseguente specializzazione
sono inevitabili. Tuttavia, costretto sin dalla prima giovinezza a
scegliere un settore specializzato, l’uomo contemporaneo non ha più
tempo ed energia per interessarsi d’altro. Tanto meno per ragionare.
Riflettere
– averne il tempo, la capacità e gli strumenti – dovrebbe essere, per
Lorenz, un diritto umano fondamentale. Vi è una rinuncia coatta –
indotta – alla comprensione del mondo, frutto dell’azione congiunta
dello specialismo e della dilagante ignoranza. Ciò induce ad accettare
senza discutere e senza riflettere il giudizio altrui, soprattutto
quello degli “esperti”, evitando di esprimere giudizi, approfondire,
farsi un’idea personale e autonoma. L’ignorante istruito, avvolto nei
suoi stracci alla moda, disprezza quanto ignora.
Non vi è altro esito
che una società involgarita, ristretta, priva di visione, ossia di un
progetto di vita e di futuro, inevitabilmente diretta da ignoranti, le
cui “qualità” sono il cinismo, l’ambizione smodata, la smania di
arricchimento e di successo. Attitudini non nuove, che prima erano
accompagnate dalla qualità professionale e intellettuale. Insieme con
l’egalitarismo più sciocco e ideologico, in Italia siamo anche afflitti
dai cascami di varie anticulture. Da un lato, il ridicolo “uno vale uno”
che innalza a ruoli di responsabilità autentici incapaci, e una mistica
dell’uguaglianza che odia l’eccellenza sino a chiedere – lo fece un
ministro di sinistra – ai giovani preparati di emigrare, privando la
nazione di competenze e valore aggiunto.
Dall’altro la retorica
dell’uomo che si fa da sé e ottiene il successo (ossia la ricchezza
materiale) senza la cultura e se ne vanta. Di qui il sospetto – se non
l’aperto disprezzo – per la cultura e l’intellettualità di buona parte
della destra politica. La miscela è esplosiva: siamo diventati selvaggi
con telefonino in competizione perenne per ottenere il favore del
padrone di turno, incapaci – per mancanza di esempi, criteri di
giudizio, immaginazione – di pensare, non diciamo animare, organizzare e
realizzare, qualsiasi idea alternativa all’esistente. Schiavi
soddisfatti amministrati da un ceto dirigente peggiore dell’italiano
medio; apertamente servili i più dotati, gli altri incapaci di capire o
sospettare i meccanismi del potere di cui sono strumenti.
Spaventa
che pochi avvertano la decadenza in atto. Nel caso italiano, il
carattere nazionale, assai adattivo, utilizza le residue doti
intellettuali, soprattutto l’astuzia egoistica, per coltivare il proprio
orticello, il dannato “particulare” di cui parlava il Guicciardini
cinque secoli fa, con la penisola resa campo di battaglia delle potenze
straniere gli italiani servitori di interessi altrui. Come oggi:
occupati da ottant’anni, privati di sovranità, culturalmente ed
economicamente colonizzati, usciti dalla storia, felici di esserci
liberati dalle responsabilità.
E’ ciò che accade a chi rinuncia a se
stesso. L’Italia è ridotta a cronaca e nessuno sembra interessato a
ritessere i fili della civiltà nostra, che ignoriamo. In compenso siamo
abilissimi nell’uso delle dita, che scorrono veloci le tastiere e gli
schermi degli apparati elettronici. Nessuno di essi è prodotto da noi,
eppure fummo gli inventori dei computer (Olivetti) e dei primi
processori (Federico Faggin, naturalizzato americano).
Abbiamo
accettato la sistematica cessione delle nostre eccellenze, non abbiamo
una politica industriale; interi settori economici sono in mano
straniera; la manifattura, che meravigliò il mondo quando ancora Italia,
cultura, capacità, intelligenza erano sinonimi, è nelle condizioni che
conosciamo. Colpa delle classi dirigenti, certo. Ma dov’era il popolo
italiano, dove eravamo noi, incapaci di reagire per ignoranza,
supponenza, pigrizia, colonizzazione interiore?
Anni fa, un esponente
politico ci spiegava con amarezza la sua esperienza di consigliere
comunale di Milano, la città motore economico e culturale d’Italia. In
passato, tutti i partiti e tutte le culture esprimevano in municipio il
meglio di se stesse; progressivamente, gli amministratori della
“capitale morale” hanno abbassato il loro livello. Intellettuale e
purtroppo etico. Nulla di stupefacente: ci rappresentano, sono lo
specchio di quello che siamo diventati.
Si rimane senza fiato
pensando a che cosa sarà questa penisola tra vent’anni: più povera, più
conformista, più ignorante. Chi ha forza e volontà, se ne sarà andato
senza ritorno e senza nostalgia. I nuovi arrivati, i sostituti di un
popolo invecchiato e imbarbarito, sono mediamente di livello culturale e
civile (si può ancora dire?) inferiore al nostro.
Che importa? Basta
ca ce sta ‘o sole, ca nc’è rimasto ‘o mare. Basta che “io” abbia
risolto i miei problemi. Uno vale uno, un popolo di istruiti ignoranti
disabituato a pensare, che si esprime in un comico inglese di risulta
(green pass, lockdown, ticket): gli eredi di Arlecchino servitore di più
padroni, cuochi e camerieri, guardiani di musei, guide turistiche del
parco tematico di una cultura morta. L’ ultimo spenga la luce.
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