A processo per i fatti di Pescara
di Cesare Sacchetti
Probabilmente molti ricorderanno quanto accaduto lo scorso settembre a Pescara. Era il momento nel quale il nostro Paese stava vivendo uno dei momenti più repressivi della sua storia.
L’Italia era piombata in un incubo di carattere distopico e totalitario nel quale non era possibile recarsi al lavoro senza avere in tasca il cosiddetto “certificato verde”, il marchio di infamia dell’esecutivo Draghi che ha dato vita a delle nuove leggi razziali fondate sul principio di obbedienza al neo-culto vaccinale.
Era il momento nel quale la morsa autoritaria era particolarmente opprimente ed era il momento nel quale stavano nascendo dei movimenti di protesta spontanei fatti da alcuni cittadini che non accettavano di vedere condizionati quelli che sono ed erano i loro diritti naturali all’adempimento o meno dei comandi di un governo autoritario.
A Pescara, si aveva un esempio di come questa morsa autoritaria stava stringendo il suo cappio attorno al collo dei cittadini.
Il 26 di settembre alcuni fedeli stavano celebrando la Santa Messa in una chiesa di Pescara. Ad un certo punto della celebrazione, degli agenti di polizia fanno irruzione e trascinano via alcune persone perché non portavano la mascherina, il bavaglio che stabiliva o meno la propria adesione all’autoritarismo della farsa pandemica.
Si scatena un parapiglia, i fedeli urlano indignati che ciò che fanno gli agenti è un abuso perché nessuno poteva arrestare qualcuno perché non portava la mascherina tantomeno nessuno poteva e può interrompere o turbare una funzione religiosa in nessun modo.
Il codice penale, caduto in disuso da un sistema che per primo lo viola impunemente da troppo tempo è piuttosto categorico al riguardo. Non lascia spazio alle interpretazioni quando all’articolo 405 afferma che “chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa(1), le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni(2). Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni.”
Questo il testo dell’articolo e questo quello che prescrive la legge quando si verifica un fatto del genere.
Il caso suscitò indignazione in tutta Italia e ovviamente venne commentato a profusione anche sui social e sulle piattaforme alternative, quali Telegram, che ancora non sembrano essere soggette alla censura che si imposta pesantemente su Twitter e Facebook.
Non fa eccezione il sottoscritto che scrisse così in un articolo pubblicato al riguardo il 28 settembre del 2021.
“Non sono immagini che vengono dalla Cina comunista o da qualche altra criminale dittatura del passato. Sono immagini che vengono dall’Italia sotto il regime di Draghi. Alcuni fedeli vengono portati via come pericolosi criminali da una chiesa a Pescara due giorni fa per il semplice fatto che non indossavano la mascherina. Non portare la mascherina non costituisce un reato. Non si commette alcun delitto. Entrare in chiesa e arrestare qualcuno che non porta la mascherina quello si è reato e si chiama abuso d’ufficio. Quella che stiamo vedendo nel video è la parte peggiore della polizia. Sono mercenari che disonorano la divisa, la patria e il popolo italiano e che ancora difendono questo infame regime. Questo è comunque quello che accade quando il totalitarismo mondialista prende il sopravvento. Gli abusi commessi dai tiranni al potere non vengono chiamati crimini. Vengono chiamate “regole”.
L’articolo era a commento delle immagini dei fatti di Pescara in conseguenza dei quali ho appreso in questi giorni di aver ricevuto un decreto di condanna dal Tribunale di Roma per la diffamazione degli agenti che hanno eseguito la “operazione” e che si sarebbero sentiti a quanto pare offesi dal commento in questione tanto da sporgere querela contro di me nonostante nessuno di loro fosse da me conosciuto, e comunque individuato o individuabile.
Ora per orientarci meglio nel perimetro della diffamazione e far comprendere a chi è digiuno di diritto penale occorre precisare alcuni elementi che definiscono quando si verifica o meno questo reato.
Ciò significa che non deve esserci spazio agli equivoci. Lo scritto che viene contestato di essere diffamatorio deve essere direttamente riconducibile ai presunti destinatari oppure il contesto generale dello scritto a commento di un determinato fatto di cronaca deve far desumere in maniera sempre netta ed inequivocabile che il soggetto della diffamazione è proprio, ad esempio, Giacomo Rossi, e non Stefano Bianchi.
Non è sufficiente che una persona si senta offesa per far configurare l’offesa, ma lo scritto o il contesto generale, in questo caso il video che riprende l’accaduto – reperito on line e semplicemente commentato – dovrebbe far comprendere ad un indeterminato numero di lettori che i riferimenti siano rivolti chiaramente ai soggetti sedicenti offesi.
In altre parole, tutti devono comprendere dalla lettura di uno scritto o dalla visione del video in questione che le espressioni ritenute offensive siano rivolte proprio al signor Tizio o Caio.
Nel mio scritto non ci sono nomi. Le espressioni utilizzate non identificano né sono in grado di identificare alcuno dei soggetti che si dichiarano “offesi” dall’articolo e il video non stabilisce in nessun modo chi siano i soggetti coinvolti nell’episodio.
Gli agenti portano tutti la mascherina e di conseguenza hanno il volto coperto, non riconoscibile in nessun modo. Non è possibile vedere sulle divise alcun numero di matricola che possa eventualmente far capire chi sia la persona che porta quella divisa.
Già questo basterebbe per mandare completamente in frantumi l’intero castello di carte sul quale è fondata l’accusa.
Del resto, le espressioni censurate erano rivolte contro quello che si riteneva, e si ritiene essere una violazione dei diritti fondamentali dei cittadini che stavano esercitando il loro diritto a partecipare la messa, che ripetiamo non può e non deve essere interrotta o turbata.
L’articolo in questione pertanto costituisce tipico esercizio del diritto di critica e di cronaca di un giornalista che doverosamente informa e denuncia possibili abusi.
Ma non solo. Oltre il giornalista anche il cittadino non poteva restare in silenzio di fronte a delle scene che erano degne della dittatura bolscevica che a sua volta entrava nelle messe per perseguitare i cristiani che non volevano rinunciare alla propria fede.
Occorreva gridare a voce alta quello che si riteneva, e si ritiene, essere un intollerabile abuso.
Per questi motivi ho deciso quindi di oppormi a tale decreto di condanna e di richiedere un dibattimento processuale nel quale presenterò tutte le ragioni per dimostrare che non sussiste alcuna diffamazione.
A rappresentarmi in tale dibattimento sarà l’avvocato del foro di Roma, Angelo Di Lorenzo, che ringrazio per essersi messo a disposizione e voler contestare tale infondata accusa.
Infine, c’è un ultimo aspetto. Non è generalmente nel mio stile, ma viste le circostanze straordinarie che sembrano indicare una sorta di “persecuzione” nei confronti della mia opera da giornalista indipendente, chiedo ai lettori di sostenermi con dei contributi in questa battaglia legale per la libertà di espressione.
Sono stato già involontario protagonista lo scorso gennaio di una perquisizione stabilita da un altro magistrato della procura di Roma che ha portato al sequestro del mio cellulare.
Sequestro che il tribunale del Riesame di Roma ha stabilito essere del tutto illegittimo e per tali motivi ne ordinò l’immediata restituzione.
Se c’è quindi un tentativo di mettere a tacere il mio canale Telegram e il mio blog è richiesto anche l’aiuto dei lettori per far sì che tale tentativo venga respinto.
È in gioco non solo la libertà di espressione di chi scrive, ma anche quella di chi legge ora questo articolo.
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