Attacco alla Pacific Zircon: prove di regime change in Iran (stile Siria)
“L’attacco di mercoledì pomeriggio alla Pacific Zircon, una petroliera nel Golfo di Oman, di proprietà del miliardario israeliano Idan Ofer, arriva in un momento di crescenti tensioni nella regione, con Israele e Stati Uniti che hanno attribuito immediatamente la colpa all’Iran”. Inizia così un articolo di Gavin O’Reilly pubblicato sul sito del Ron Paul Institute.
O’Reilly spiega che l’attacco si è verificato mentre l’Iran è sconvolto dalle proteste contro le autorità suscitate dalla morte di Mahsa Amini, che vedono l’attivo supporto dell’influencer Masih Alinejad, esiliata iraniana che da anni lavora in questa direzione (come ha spiegato lei stessa) in convergenza con il Dipartimento di Sato e i tanti falchi Usa che spingono per un regime-change a Teheran, in continuità con la primavera araba che ha travolto Libia e Siria.
La necessità di un regime-change a Teheran è sostenuta apertamente da un esponente di spicco dei neocon, l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, che recentemente ha rivelato che l’America sta consegnando armi “all’opposizione” tramite il kusdistan iraniano.
Tornando all’attacco nel Golfo di Oman, O’Really annota: “Con gli
occhi del mondo puntati sui disordini in corso in Iran” e con la sua
squadra impegnata nei mondiali di calcio, Teheran non aveva alcun motivo
per attaccare la petroliera israeliana, “una mossa che ha una
probabilità realistica di attirare una risposta militare occidentale”.
L’attacco alla petroliera e quello al mercantile giapponese
L’incidente, rammenta il cronista, ricorda quanto avvenuto nel giugno 2019, quando nel Golfo Persico furono attaccati due mercantili – uno giapponese e l’altro norvegese – proprio mentre il premier giapponese Shinzo Abe si trovava a Teheran per un summit con l’ayatollah Khamenei per cercare di attutire le tensioni causate da una serie di attacchi ad alcune navi in transito in quel tratto di mare.
Anche allora, gli attacchi ai due mercantili vennero attribuiti all’Iran, nonostante, come annota O’Reilly, Teheran non avesse alcun interesse a un’operazione del genere, dalla quale anzi era danneggiata. Nonostante ciò, media e politici d’Occidente puntarono il dito contro di essa, facendo sfumare la possibilità di una distensione aperta dalla visita di Abe (l’ex premier giapponese è stato assassinato nel luglio scorso…).
Su quell’attacco abbiamo scritto parecchio, mettendo in rilievo come le prove portate dagli Usa per accusare Teheran non convincessero affatto. E che la loro versione dei fatti, cioè che la nave era stata vittima di mine anti-nave, era stata smentita dall’armatore della nave giapponese – l’unico testimone (seppur indiretto) che ha osato parlare di quanto avvenuto – il quale aveva detto al mondo che la nave non era danneggiata da mine, ma da “proiettili” (da qui la convinzione che fosse stata attaccata da droni).
Non solo, notammo gli uomini dell’equipaggio della nave attaccata, che avrebbero potuto smentire il proprio armatore – corroborando così la versione made in Usa -, benché portati in salvo da una nave americana, non hanno detto nulla in proposito. Un silenzio assenso significativo.
Se riprendiamo quella vecchia storia è perché, come O’Reilly, ci
sembra che spieghi meglio di altro quanto avvenuto alla nave israeliana,
il cui incidente è stato usato per un’operazione volta a incrementare
l’ostilità verso l’Iran.
La guerra ibrida
Contro Teheran si sta conducendo una vera e propria guerra ibrida, fatta di manifestazioni di piazza e attacchi mirati. Sulle prime, va rilevato che se la pregressa Primavera araba si giovò di un nuovo strumento digitale, twitter, il regime-change siriano si è giovato di Psiphon, utilizzato ampiamente anche dai cosiddetti attivisti anti-Teheran.
“Psiphon – spiegava la Cnn nel 2011 – è una rete anti-sorveglianza progettata da una società canadese grazie a finanziamenti del Dipartimento di Stato Usa. Il CEO dell’azienda ha dichiarato alla CNN che il software è stato introdotto in Siria in modo ‘aggressivo’ appena tre settimane fa. Da allora, migliaia di persone hanno iniziato a usarlo”.
Tante voci della diaspora iraniana si sono elevate a sostegno dei manifestanti, ma anch’essa è attraversata da una lotta interna, nella quale hanno prevalso gli estremisti.
A questa vera e propria guerra all’interno della diaspora iraniana ha dedicato un articolo il National Interest, che annota: “Decine di iraniani-americani noti e rispettati, che avevano intrinsecamente censurato il ricorso alla violenza da parte del governo ma con argomentazioni più ragionate e sfumati, sono diventati obiettivi di una vendicativa partigianeria online”.
“Sono stati aggrediti perché non hanno usato un linguaggio forte e condannato senza riserve il regime, evitando di drammatizzare gli eventi, o semplicemente perché non hanno rilanciato le parole d’ordine sul regime-chenge degli ideologi dell’opposizione”. Da cui si spiega il titolo più che significativo dell’articolo: “L’estremismo della diaspora iraniana fa presagire un futuro cupo” per Teheran.
La portata degli attacchi
Non stupisce in questo quadro che, nelle proteste, siano stati uccisi diversi agenti di polizia e delle forze di sicurezza, morti che si sommano ai tanti oppositori rimasti vittime della repressione ( va detto le cifre a questo riguardo sono gonfiate, come dimostra la storiella dei 15mila manifestanti che le autorità avrebbero condannato a morte, una bufala abissale).
A evidenziare il livello degli attacchi, ad esempio, il recente assassinio uno dei capi dell’intelligence delle Guardie rivoluzionarie, il colonnello Nader Bayrami, avvenuto nella cittadina di Sahna, provincia di Kermanshah.
No, non si tratta di una protesta di donne stufe di portare il velo né di una lotta per la libertà, ma di ben altro. Vogliono incenerire l’Iran. E a farne le spese saranno anche le donne oggi dipinte come eroine (e talune di esse lo sono effettivamente), i loro mariti e i loro figli. Com’è avvenuto in Libia e in Siria.
Resta da vedere se l’attuale guerra ibrida diventerà aperta. I recenti progressi dell’esercito iraniano rendono più difficile un intervento diretto degli Stati Uniti con il supporto più o meno dichiarato di Israele, perché Tel Aviv subirebbe spiacevoli conseguenze. Più probabile, se la spinta cresce, che inizi una vera e propria guerra civile (che di civile non ha nulla) in stile siriano, con i ranghi dei ribelli rafforzati da terroristi vari (agli agenti dell’Isis basta cambiare casacca).
Ma Teheran non è Damasco e non sarà altrettanto facile evitare che tale scenario evolva in una guerra aperta. Di ampia scala.
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