Da parecchio tempo a questa parte, tutto quello che gli Stati Uniti toccano si tramuta in poltiglia.
A Taiwan si sono tenute ieri le elezioni amministrative, e in 13 delle 22 città in cui si è votato ha trionfato il Kuomintang, il Partito Nazionalista su posizioni concilianti con la Cina Popolare.
Tsai Ing-wen, presidente del Partito Progressista Democratico (DPP), il partito più filo-USA sull’isola, si è dimessa dalla carica di Capo del partito.
Anche il primo ministro di Taiwan, Su Tseng-chang, ha annunciato verbalmente le dimissioni, ma Tsai gli ha chiesto di rimanere per garantire la continuità dell’azione di governo.
Tsai ha accettato “umilmente” i risultati delle elezioni locali e le decisioni del popolo di Taiwan, riferisce la Central News Agency di Taiwan, e si assume “tutte le responsabilità” della sconfitta, dimettendosi “con effetto immediato” dal vertice del Partito Democratico-progressista.
Il Kuomintang si è affermato nella capitale, Taipei, con la vittoria del candidato Chiang Wan-an, “volto nuovo” del partito e discendente di Chiang Kai-shek, il fondatore della Repubblica di Cina, a Taiwan, dove si era rifugiato dopo la sconfitta nella guerra civile contro le truppe maoiste.
Chiang ha annunciato la vittoria in serata, con il 42,46% dei voti, ben oltre il 31,76% del principale sfidante, l’ex ministro della Sanità e del Welfare, Chen Shih-chung, sostenuto dalla stessa Tsai.
Il KMT – scrive Reuters – favorisce i legami con la Cina, ma nega ufficialmente di essere “Pro-Pechino”. Ieri, 25 novembre, Eric Chu – Presidente del KMT – ha rilasciato le seguenti dichiarazioni ai suoi sostenitori:
“Sosteniamo la vicinanza agli Stati Uniti, l’amicizia con il Giappone e la pace con la terraferma [ovvero la Repubblica Popolare Cinese]“.
Il Kuomintang si è affermato anche in altri importanti centri di Taiwan, tra cui New Taipei, Taichung e Taoyuan, mentre il Dpp ha vinto a Kaohsiung, la città portuale nel sud-ovest di Taiwan, a Tainan e in altre città minori e contee.
Oltre alla sconfitta del suo partito, i filo-americani subiscono anche il fallimento del referendum per l’abbassamento dell’età per il diritto di voto a 18 anni, visto con forte sospetto da Pechino perché si sarebbe trattato di una modifica costituzionale che – nel caso fosse stata approvata – avrebbe probabilmente aperto la strada per altre, in direzione di una più aperta contrapposizioni alla “madre patria”.
Quando lo scrutinio era ormai pressoché concluso (al 98%), i “sì” all’abolizione dell’articolo 130 della Costituzione erano poco più di 5,4 milioni, sugli oltre 9,6 milioni richiesti.
Per Taiwan si tratta di un autentico terremoto politico. Durante i due mandati del governo di Tsai le tensioni con Pechino sono continuamente cresciute sotto la pressione di Washington, fino a toccare il culmine ad agosto, con la visita a Taipei della speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, Nancy Pelosi e poi di altri parlamentari statunitensi.
Pechino aveva risposto con sette giorni di imponenti esercitazioni militari attorno all’isola e chiudendo diversi canali di comunicazione e cooperazione con gli Stati Uniti.
Inutile dire che ora potranno cambiare molte cose nelle relazioni tra Taiwn e la Cina, anche se ovviamente con la dovuta prudenza, vista la forte presenza statunitense, sia come multinazionali che come “consulenti militari”.
Ma è anche chiaro che lo “schema ucraino”, usando Taipei come seconda Kiev, diventa ora molto meno realizzabile.
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