Tanto rumore per nulla?

 

 
 
(di Renato Scarfi)
23/02/22

Sembrerebbe proprio che la crisi ucraina (forse) abbia alla fine prodotto effetti di una qualche rilevanza sull’equilibrio geopolitico mondiale.

Appare, infatti, in tutta la sua evidenza che Putin ha fatto tornare la Russia a calcare il palcoscenico internazionale, da attore protagonista ed essenziale per la trattazione delle principali questioni planetarie.

La lunga sequenza di ministri e segretari di Stato che si sono inutilmente recati a Kiev e a Mosca hanno, inoltre, evidenziato l’inconcludente attivismo di una disunita politica occidentale che ha più bisogno di apparire che di essere. Le vere crisi, infatti, non si sono mai risolte davanti alle telecamere o con messaggini al cellulare. Le vere crisi si sono sempre risolte attraverso fitti contatti diplomatici, non palesi ma sinceri, franchi e diretti. Contatti cui si aggiungono normalmente le conversazioni tra i leader. È possibile che, parallelamente ai “viaggi della pace”, tali contatti ci siano realmente stati. Non lo sapremo mai. Tuttavia, la lunga sequenza di viaggi nelle due capitali interessate dalla crisi, ampiamente pubblicizzate con giorni di anticipo e documentate da lunghi servizi televisivi, hanno evidenziato la sudditanza dei politici occidentali alla necessità di apparire (più che risolvere la crisi), per alimentare una narrazione che, nei rispettivi Paesi, sta sempre più rappresentando la principale direzione di attenzione politica.

Qualunque cosa Putin avesse in mente fin dall’inizio, infatti, non sono certo state le vibranti proteste o gli aiuti militari britannici a Kiev o l’invio di 3.000 soldati statunitensi in Polonia a impedirgli di andare avanti, trattandosi di mosse evidentemente poco consistenti di fronte agli oltre 130.000 soldati schierati da Mosca ai confini ucraini. E infatti, la linea di contatto tra le Forze ucraine e i ribelli indipendentisti delle due autoproclamate repubbliche popolari filorusse di Donetsk e di Lugansk ha continuato a rimanere “calda” come negli ultimi otto anni, da quando la Russia si è presa la penisola di Crimea e Sebastopoli, indispensabile porto militare che permette a Mosca di proiettarsi in Mediterraneo.

La crisi ucraina ha anche evidenziato la vacuità delle promesse non tradotte in documenti formali. Le numerose smentite occidentali al richiamo russo su un gentleman’s agreement, con il quale alcuni Paesi NATO avrebbero rassicurato Gorbaciov, desideroso di porre fine alla Guerra Fredda, circa la rinuncia all’espansione verso est dell’Alleanza Atlantica, sembra siano state ultimamente confutate da un documento confidenziale pubblicato venerdì 18 febbraio dalla rivista tedesca Der Spiegel. Qualora l’autenticità del documento venisse confermata, si tratterebbe di una delle peggiori brutte figure della storia, che non potrebbe non avere impatto sulla credibilità dell’Alleanza stessa, con significative implicazioni geopolitiche complessive.

Ora, dopo il riconoscimento (peraltro ampiamente prevedibile) delle due repubbliche separatiste, molti si chiedono cosa farà Putin.

In queste ore si intrecciano molte analisi e le opinioni si sommano le une alle altre. C’è chi si chiede se Putin si accontenterà di aver avviato la sua personale operazione di peacekeeping sul territorio delle autoproclamate repubbliche secessioniste o se proseguirà la sua avanzata per occupare tutta le aree da loro rivendicate. In particolare, la Donetsk oblast rappresenta un grosso punto interrogativo perché potrebbe essere particolarmente appetibile per gli interessi russi, in quanto sulla sua costa sorge l’importante porto commerciale di Mariupol, indispensabile alla Russia per garantire l’invio via mare dei suoi prodotti, in particolare petroliferi.

Con ragionevole certezza Putin non occuperà, come da molti ventilato con dovizia di particolari, tutta l’Ucraina. Semplicemente perché non gli serve inviare soldati per occupare e controllare un Paese molto vasto e popolato da circa 43 milioni di anime. Al leader russo è, infatti, bastato mettere l’Occidente di fronte alle proprie incongruenze.

Nonostante fosse abbastanza chiaro fin dall’inizio che Mosca non aveva la reale intenzione di andare fino a Kiev con le sue truppe, invece che cercare di trovare immediatamente una soluzione diplomatica alle comprensibili (che non vuol dire legittime) perplessità di Putin, i principali leader occidentali hanno soffiato sul fuoco fino a ventilare lo scoppio di una guerra, dimenticandosi che … la guerra in quell’area c’è dal 2014, anche se di intensità relativamente bassa. L’allarmismo con il quale enfatizzavano la situazione era, quindi, frutto di dimenticanza, di esigenza di vendere giornali o necessità di distrarre l’attenzione da altri problemi (magari interni)? Guarda caso, i più “convinti” assertori dell’imminente catastrofe planetaria sono stati proprio i leader che più hanno problemi di consenso interno o di imminenti elezioni.

Biden, primo fra tutti, che i problemi li ha tutti e due, dovendo confrontarsi con una drammatica perdita di consenso in Patria, per una politica che non sta rispondendo alle aspettative degli elettori, e con le elezioni di MidTerm ormai all’orizzonte, che promettono di rappresentare una débacle del partito che sostiene l’attuale presidente USA. A questo si aggiunge un’inflazione galoppante che sta flagellando il Paese e che aggiunge il peso dell’apprensione sulle famiglie americane. Una situazione che fino ad oggi ha portato una trentina di deputati a “mollare” al suo destino il presidente in carica e a non presentarsi all’appuntamento del prossimo autunno.

Poi c’è Boris Johnson, le cui intemperanze da “Marchese del Grillo” in tempo di pandemia, durante la quale proibiva agli altri ciò che lui e i suoi amici allegramente si permettevano, hanno portato più di un britannico a interrogarsi sulla sua reale capacità di gestire un Paese complesso come il Regno Unito e più di un politico a chiedere che si dimettesse. Una richiesta alla quale Johnson ha risposto alla maniera di Alberto Sordi nel citato film.

Poi c’è Macron, i cui problemi in vista delle elezioni presidenziali del prossimo aprile appaiono evidenti a tutti gli osservatori, con la destra e l’ultradestra antieuropeiste che sembrano avanzare irresistibilmente nei sondaggi. In suo parziale aiuto, tuttavia, è ultimamente giunta proprio quella che era indicata come la principale sfidante, la candidata repubblicana Pécresse, che durante un importante comizio è apparsa eccessivamente impacciata per poter aspirare alla seconda posizione, che garantisce l’accesso al ballottaggio.

Con molta probabilità Putin si fermerà ai confini del territorio attualmente controllato dalle fazioni indipendentiste, di fatto consolidando una situazione già esistente dal 2014. Come detto, non ha bisogno di occupare tutta l’Ucraina. Ha già fatto emergere tutte le incongruenze occidentali e ha fatto capire agli ucraini che l’Occidente non ha alcuna intenzione di morire per loro e al mondo che l’Occidente non è più disposto a sostenere il peso politico, economico e di vite umane per proteggere i principi sui quali si basa la sua civiltà, primo fra tutti la libertà di autodeterminazione dei popoli. Nulla di particolarmente nuovo, dato che sono le stesse motivazioni che hanno portato alla fuga dall’Afghanistan della scorsa estate, e che hanno portato a formulare le dichiarazioni degli ultimi tempi, con le quali non si è andati più in là delle minacce di sanzioni economiche.

Putin vorrà chiudere la questione quanto prima possibile e, quindi, continuerà a esercitare pressione su Kiev, puntando a presentarsi al prossimo tavolo negoziale in posizione di forza, per raggiungere i suoi obiettivi.

Anche se nell’immediato, la presenza delle forze russe nel Donbass probabilmente vorrà dire una maggior propensione (come sembrerebbe da alcuni sondaggi) degli ucraini verso l’ingresso nella NATO, nel medio termine potrebbe far assumere a Kiev una posizione più moderata di equidistanza e di rinuncia all’ingresso nell’Alleanza Atlantica. Una decisione che tranquillizzerebbe Mosca sotto il profilo della sicurezza (ma non solo) e toglierebbe le castagne dal fuoco a Bruxelles, non costringendola a prendere difficili decisioni.

Da parte sua l’Europa, per un breve lasso di tempo urlerà, si strapperà i capelli, applicherà sanzioni, forse anche pesanti, ma preso atto che queste faranno più male agli europei che a Putin, riprenderà il dialogo con Mosca, come è successo negli ultimi otto anni, dopo l’occupazione della Crimea. Si tratta di pura e cinica real politik. Qualora i popoli europei, che ora si dicono profondamente indignati per le mosse di Putin, a seguito delle sanzioni dovessero essere costretti a non riscaldare adeguatamente le loro case perché non arriva più la giusta quantità di gas naturale dalla Russia (dipendiamo da Mosca per il 45% dei nostri consumi), o ridurre la produzione industriale, o vedere le bollette che crescono ulteriormente, probabilmente non sarebbero più così favorevoli alle sanzioni alla Russia.

C’è poi da dire che Washington ha affrontato questa crisi con un occhio rivolto alle implicazioni geopolitiche correlate alla questione di Taiwan (tuttora riconosciuto come indipendente solo da 15 Paesii, USA escluso), pensando che l’integrità territoriale di uno Stato non può essere difesa a corrente alternata, a seconda degli interessi del momento. Non a caso la Cina, come riportato dai nostri media, nel corso della riunione a Monaco dei ministri degli Esteri del G7 (19 febbraio 2022) ha ribadito con forza proprio il concetto della inviolabilità del territorio nazionale (pensando ovviamente proprio a Taiwan, che Pechino considera territorio cinese).

Tanto rumore per nulla quindi? No, qualcosa è cambiato, qualcosa che lascia il segno. Ma non solo per effetto della visione ormai ottocentesca della sicurezza da parte di Mosca (la necessità di territori neutrali di separazione geografica tra i contendenti) ma anche per una sorta di delirio di onnipotenza, cecità e mancanza di visione strategica di coloro che, invece, avrebbero potuto e dovuto prevedere ed evitare l’insorgere della crisi.

Tuttavia, più che un lavoro shakespeariano, alla vicenda sembra meglio adattarsi un capolavoro di Pirandello: Così è, se vi pare.

L’unica speranza è che da tutto questo, chi di dovere abbia imparato qualcosa.

i Guatemala, Honduras, Haiti, Paraguay, Nicaragua, Eswatini, Tuvalu, Nauru, Saint Vincent and the Grenadines, Saint Kitts and Nevis, Saint Lucia, Marshall Islands, Palau, and the Vatican City (U.N. non-member)

Foto: MoD Fed. Russa / Cremlino / Twitter