Quel che non si può più dire
Davide Miccione
Avanti.it
Accade spessissimo leggendo interviste a registi e autori di canzoni, ad attori e pubblicitari che abbiano una carriera almeno ventennale. Accade anche guardando in compagnia un qualsiasi prodotto filmico precedente agli anni novanta. A un certo punto dell’intervista o a un certo punto della visione qualcuno dice: “oggi questo non si potrebbe fare più” oppure “oggi questa battuta non la puoi più dire” o ancora “ci fosse mio figlio o mia figlia chissà che direbbe”. Chi te lo dice non sembra convinto della gravità morale dei contenuti a cui si riferisce, segnala soltanto la non praticabilità attuale di pronunciare, cantare, scrivere, filmare “cose simili”. Dunque non un’evoluzione morale interiore, ma la presa d’atto di una proibizione sociale. Afferma ciò, il nostro “avvisatore”, senza farsi troppe domande sul perché non si possa più dire, sul fatto se sia giusto non poterlo più dire, su che cosa si possa dedurre sul nostro divenire sociale e la nostra agibilità democratica da tutto ciò. Lo dice da semplice descrittore di un fatto: non si può più dire.
Questa minorazione della libertà d’opinione chiamata correttezza politica (con le sue varie gemmazioni: cultura woke, cancel culture eccetera) viene, con funambolica spericolatezza, inserita da chi la propugna nella cornice di una sorta di progresso della democrazia: una cultura democratica ora finalmente più sensibile e attenta a non offendere.
Non si può più segnalare la difformità fisica (altezza, peso, caratteri fisici eccetera), questo non solo a scopi volutamente offensivi (e già per questo esistevano vecchissimi paradigmi non bisognosi di formalizzazione giuridica o politica: la buona educazione e l’opportunità) ma persino di descrizione; e in ogni caso la circospezione necessaria e la difficoltà nel cogliere il discrimine esatto tra descrizione e giudizio di valore finisce con lo sconsigliare direttamente la menzione del tema e procedere alla sua eliminazione (una sorta di auto-accecamento cognitivo collettivo).
Bisogna stare attentissimi inoltre a non caratterizzare etnicamente un personaggio negativo: da qui le ridicolissime vicende della cultura anglosassone e del suo tentativo di estromettere Otello dal repertorio della cultura occidentale o il tentativo di purgare linguisticamente molti classici scritti in libertà espressiva nell’Ottocento (ignorando gli scrittori dell’epoca di essere destinati a nipoti censori e ignoranti). L’implicito, in quest’epoca tanto soddisfatta della propria alfabetizzazione e della cultura collettiva del web, è che il lettore-spettatore non sia più capace di distinguere un’opera di indottrinamento bieco o di misero razzismo da un’opera artistica o letteraria che esprime la complessità e la contraddittorietà del reale. Una visione della letteratura che ricorda le cautele delle versioni espurgate dei classici “per giovinette” dei secoli scorsi. Tutti dunque equiparabili a sensibili giovinette ormai. Una concezione paternalistica e moralistica della cultura che implica un’idea di minorità degli individui che è difficile poter conciliare con la prassi di una società democratica.
E poi le questioni di identità sessuale che il liberalismo aveva risolto attraverso la meravigliosa istituzione politico-giuridica della privacy, del “farsi gli affari propri” (su cui giustamente insiste da qualche tempo Ugo Mattei) e più in generale ponendo le questioni individuali fuori dalla competenza di uno Stato guardone e che invece diventa oggi oggetto di minuta e continua legiferazione, volendo risolvere con un tratto di penna quel mancato investimento culturale e sociale che ha creato sacche di aggressività primitiva di cui l’omofobia è solo una delle manifestazioni.
Da questo non poter più dire molte cose (infinito è infatti il numero dei potenziali soggetti di offesa e, valendo nel ruolo vittimale il criterio dell’autocertificazione, infinita potrebbe esserne la crescita) gli alfieri dei sensibili tempi nuovi inferiscono il miglioramento della democrazia e la sua ripulitura da incrostazioni di epoche belluine ormai tramontate.
Questo galateo della correttezza politica, che ovviamente e prevedibilmente aiuta a creare una opposta fascia politicizzata che vede nel rifiuto di questa cultura la propria identità politica (buonisti contro cattivisti: altro materiale per il wrestling politico) è principalmente indirizzato alla buona coscienza del “liberale di sinistra” (così tendenzialmente costui si pensa pur in assenza di elementi tanto del primo aspetto quanto del secondo). Proprio il rapporto con i tempi in cui vive caratterizza questo tipo d’uomo contemporaneo, questo “zombi democratico”, sia per il livello di adesione alla narrazione dominante in tutti i suoi aspetti, sia per l’enorme inconsapevole contentezza di sé. Alain Deneault nel suo La mediocrazia descrive sarcasticamente quest’uomo come un individuo per cui è identitario
“praticare una militanza del tipo: possedere un’auto, ma piccola, bere latte di mucca, ma di una mucca felice; cedere al consumismo, ma “equo e solidale”, applicare le teorie del management, ma con uno stampo conviviale; vendere con atteggiamento aggressivo la merce, ma che sia merce di prestigio; prendere l’aereo, ma forniti di carbon credits; votare per un partito capitalista ma liberal. Lo slogan preferito: Se soltanto tutti facessero come me”.
Un uomo palesemente compiaciuto di sé, immune dalle contraddizioni e dalle tragedie del presente, pacificato dal consenso che la società, attraverso il reddito e i consumi, sembra assicurargli o, in assenza di reddito e consumi all’altezza, sembra perlomeno promettergli. Convinto sempre di essere orientato al bene e al miglioramento della società quanto basta per assicurarsi sogni tranquilli.
La correttezza politica, questo brutto fiore di serra nato e innaffiato in quei luoghi socialmente alienati, specializzati e colmi d’ignoranza che sono i campus americani, è storia vecchia; ha già un ruolo di rilievo nel romanzo di Philip Roth La macchia umana del 2000 (in cui il protagonista Coleman Silk viene espulso, a pochi anni dalla pensione, dall’ateneo in cui insegna per aver violato la correttezza politica in un involontario equivoco linguistico) ma viene con chiarezza identificata in La cultura del piagnisteo di Hughes del 1993 e occhieggia già nelle riflessioni di Allan Bloom e del suo bellissimo La chiusura della mente americana del 1987.
Ad ogni modo, nonostante la sua puerilità e debolezza, questa cultura della non cultura si è fatta sempre più infestante ed è necessario capirne il ruolo nella società di oggi e perché viene alimentata dal potere. Il lettore ci perdonerà se per questa chiarificazione facciamo un giro più lungo, ma il modo migliore per combattere la correttezza politica è proprio riconquistare la complessità, le sfumature, la frequentazione di una prospettiva storica e del nostro enorme vario patrimonio culturale.
Nel volume L’armonia infranta, raffinata meditazione su Napoli, il meridione, l’identità culturale come nostalgia e come recita, Raffaele La Capria mette in scena la questione della napoletanità come linguaggio e come arte, come maniera di stare al mondo ma soprattutto di rapportarsi all’altro. Il motore di questa creazione linguistica e di questa perenne rappresentazione che quotidianamente i napoletani metterebbero in campo nascerebbe, nella acuta ricostruzione di La Capria, dal terrore della plebe, quella plebe con cui, durante la Rivoluzione napoletana del 1799, i giacobini napoletani non erano stati in grado di comunicare e che avrebbe messo fine, in un sanguinoso epilogo, alla rivoluzione stessa. Il trauma e la paura avrebbe spinto una borghesia napoletana dispersa, traumatizzata e chiusa in casa, a mettere in campo un tentativo artistico-linguistico di esorcizzare la plebe, di entrare in contatto con essa, di rendersi comprensibile e dunque mettersi meno a rischio. Ma, più ambiziosamente, nei creatori borghesi della napoletanità si celava il desiderio, come novelli Orfeo, di ammansire la belva della plebe, di renderla meno pericolosa addolcendone il linguaggio, renderla inoffensiva attirandola in una pantomima che ritualizzasse la violenza circoscrivendola entro limiti accettabili.
Questa ricostruzione, che La Capria stesso vede come avventurosa e fantasiosa, appare invece perfetta per i nostri tempi e può essere traslata nel mondo contemporaneo come spiegazione della, per alcuni versi incomprensibile, ossessione per la correttezza politica, per questa sostituzione dell’etica con l’etichetta. Anche qui la violenza della contestazione degli anni sessanta e settanta, anche in questo caso una spinta giovanile, per quanto non esente da velleitarismi, qui a favore di una maggiore eguaglianza e contro alcuni meccanismi del capitalismo americano. Poi, dopo il trauma e la paura delle classi dominanti di perdere potere e profitti, la creazione di un linguaggio-pantomima, una ritualizzazione, un balletto che lasciasse la struttura del mondo così com’è dando agli interpreti della pantomima la sensazione di continuare ad “attaccare il sistema” e soprattutto di esserne in ogni caso moralmente superiori.
Alla protesta anche fisica contro gli eccessi del capitalismo e gli elitismi della democrazia si sostituiva la geremiade del linguaggio inclusivo. Il mirino passava dai rapporti di forza alle questioni sintattiche, dalle costruzione di un fronte coeso di esclusi alla frammentazione di mille soggettività intente tutte a circoscrivere attentamente il proprio spazio vitale. I pericolosi “proletari” si fanno esangui lamentosi segnalatori di ogni offesa a una visione del mondo che non tollera alcuno strappo. Una perfetta utopica giustizia domina su ogni cosa tranne che sulle “cose vere”, quelle che esistono per tutti indipendentemente da quanto siano delicate le nostre coscienze: fame, inquinamento, ignoranza, immobilismo socioeconomico eccetera.
La natura di simulacro della correttezza politica, utile al blocco della pensabilità del mondo e della costruzione di un vero dibattito democratico, apparirà evidente se solo si pensi a come questa ossessione per l’offesa subita sia immediatamente scomparsa di fronte all’esigenza della costruzione violenta, artificiale e artificiosa di una categoria (i no vax) e alle numerose e volgari offese di cui essi sono stati fatti oggetto, perlopiù proprio dai rappresentanti di quella cultura progressista che tanto lacrima per le sensibilità di ognuno.
La correttezza politica abitua le persone a pensare, in una inquietante inversione storica, che la democrazia sia l’opposto di quello che dovrebbe essere: non il sistema in cui si parla di tutto ma quello in cui non si parla di nulla. Un ulteriore blocco ad un dibattito che si muove ormai in pochi centimetri costringendosi a inventare differenze dove non ve ne sono. Grazie ad essa, oltre alla militarizzazione dell’informazione, alla concentrazione finanziaria dei media, si è certi che se qualcosa scappasse dal recinto lo si indurrebbe a tornare dentro.
Nessun commento:
Posta un commento