È l’idea stessa dello Stato che va ripensata
La realtà è che la storia dello stato moderno ha diffuso un’idea limitata e parziale delle innumerevoli possibilità di organizzazione della convivenza internazionale. Costituzionalisti, studiosi di diritto pubblico e giuristi internazionalisti però non se ne rendono conto, se non confusamente, a causa della concezione ossessiva della sovranità nella quale sono cresciuti.
C’è una teoria secondo la quale, un uomo politico o un patriota, non appena gli viene data una posizione suprema nello Stato, sempre che sia privo d’ambizione e non abbia brigato per ottenere questa carica, incomincia invariabilmente a mostrare i sintomi di ciò che il potere provoca in lui. Questo, si è potuto costatare chiaramente anche in tutti i personaggi della Rivoluzione francese ed è perciò che nei sistemi autenticamente federalisti la durata in carica dell’esecutivo è limitata, proprio perché sappiamo come il potere agisce sugli uomini.
Tra i primi sintomi della malattia del potere nei cosiddetti “rappresentanti” è la diffidenza nei confronti dei collaboratori, seguita da una grande suscettibilità su tutte le questioni, dalla incapacità di subire critiche, dalla convinzione di essere indispensabili e dalla ferma persuasione che non sia mai stato fatto nulla di buono prima che loro fossero arrivati al potere, (mentre scriviamo al lettore potrà venire in mente Matteo Renzi, ma probabilmente si tratta dell’ultimo d’una lunga lista) e che non si farebbe mai più nulla di buono se egli non restasse al potere. Pare che, quanto più l’uomo è capace e disinteressato, tanto più rapidamente la malattia lo colpisce. Pare che un disonesto può resistere molto di più, perché la disonestà lo rende cinico o, in un certo senso, umile, ed è questo che lo protegge.
L’Unione Europea sta per implodere: è certo come è certo che l’inverno segue all’autunno. Se vogliamo starne fuori, è adesso il momento di decidere di starne fuori. Adesso, prima che cominci la propaganda. È il momento di rendere impossibile a qualunque uomo, a qualunque centinaio di uomini, a qualunque migliaio di uomini, di portarci alla rovina nel giro di dieci giorni, costoro non dovranno combattere per il pane quotidiano; sono quasi sempre riusciti a vivere di rendite politiche. Se li lasciamo fare continueranno a danno dell’intera comunità.
Chiunque sarà alla testa della nazione avrà l’occasione di essere per breve tempo tra i più grandi uomini del mondo, invitato a meeting come il G20 et similia, ma la nazione, una volta passato l’entusiasmo, resterà a mani vuote. Per i prossimi anni ci servono uomini senza ambizioni, che odino la guerra e sappiano che anche dalle missioni di peacekeeping non ne viene mai niente di buono e, soprattutto, di uomini che abbiano dato prova delle cose in cui credono vivendo in conformità con esse. Tutti i candidati dovranno essere valutati sulla base di questi requisiti. È vero che i nomi che vengono alla mente sono pochi, ma queste persone esistono. Non abbiamo bisogno di leader che si mettano a capo di coalizioni, ma di leader che plasmino i consensi, che è cosa assai diversa.
Sosteneva Gianfranco Miglio che il federalismo come soluzione è la via d’uscita al declino irreversibile dello Stato nazionale. E che il vero modello politico di riferimento, il novum che gli sarebbe piaciuto vedere realizzato era quello “anseatico”, che ricalca quello delle libere città commerciali che l’Europa ha conosciuto prima che ovunque nel continente si imponesse la struttura statuale moderna, con i suoi eserciti e la sua burocrazia. Infatti, la più genuina tradizione federalista è stata quella dei secoli XII-XVII, delle città mercantili libere, sopraffatte dall’avvento violento dello stato moderno. In questa fase nelle città non c’erano persone di grande rilievo politico, né parlamenti, ma solo una gestione degli affari quotidiani negoziata continuamente, e un governo frammentato.
Il professor Miglio era affascinato dall’idea che il governo di una comunità politica sia affidato non a un pletorico Consiglio dei Ministri (come oggi accade nei regimi parlamentari), ma a un collegio ristretto formato dai vertici elettivi delle diverse unità politico-territoriali che compongono la Federazione. Cinque, sette persone, coadiuvate da un segretario (un po’ ciò che è in essere in Svizzera), capaci di attivare processi decisionali autentici, frutto non di estenuanti mediazioni tra ministri che rappresentano ognuno un partito o peggio una corrente, ma di accordi condotti alla luce del sole e in tempi brevi. Come si vede, l’istanza del superamento del sistema dei partiti politici era presente anche nello studioso lombardo.
Gianfranco Miglio apprezzava Johannes Althusius che nel 1603 pubblicò a Herborn un compendio di Politica ordinato secondo il metodo sistematico: sotto quel nome egli comprendeva la parte generale del diritto pubblico. Quest’opera è il più antico tentativo, dal punto di vista formale, di un’esposizione rigorosamente sistematica e completa della cosiddetta «politica». Ma è ancor più notevole per il suo contenuto. Con essa l’autore mostra di aderire senza riserve alle concezioni di quei pubblicisti – in gran parte coinvolti nelle guerre civili francesi degli ultimi decenni del XVI secolo – i quali dal principio della sovranità popolare avevano tratto la conseguenza rivoluzionaria di un diritto di resistenza attiva contro i signori fedifraghi, e perciò già dai contemporanei loro avversari erano stati denominati «monarcomachi». Ma ciò che fino allora era stato espresso a fini pratici attraverso scritti di partigiani e di esuli, egli lo parò di una veste dottrinale astratta e metodica. E meglio di qualsiasi suo predecessore egli fondò la sua teoria su basi ampie e coerenti, affermando per primo l’assoluta inalienabilità del diritto sovrano del popolo, e l’essenza del contratto sociale che ne è il fondamento, in formule che si ripresentano per la prima volta presso Jean-Jacques Rousseau con una rassomiglianza sorprendente.
Ma il vero punto di trasformazione sarà rappresentato dalla redazione e dalla successiva applicazione degli Statuti comunali (che non potranno essere omogenei). Perché tutto ciò che la società attuale contiene di ostacoli per il mantenimento sociale sarà da eliminarsi soltanto se, prima ancora dell’eliminazione, si sarà creato l’organismo, il sistema, l’ingranaggio da mettere al posto di quello di cui gli indipendentisti intendono disfarsi. E al fine di evitare contrasti crescenti con l’amministrazione centrale dello Stato, naturalmente ben intenzionata a difendere i propri poteri e i propri privilegi, altro non resta che la secessione.
Dopo gli Statuti (che, ripetiamo, non dovranno somigliarsi troppo l’uno con l’altro, ma dovranno invece rispecchiare le differenze tra territori ed evitare la trappola dell’omogeneità), il passo successivo, in una logica di reale autonomia politica e istituzionale, sarà rappresentata dalla possibilità di federarsi o confederarsi con altre Istituzioni secondo macro-aree omogenee dal punto di vista economico-territoriale. Un passaggio inevitabile, perché le attuali Regioni, artificiali e inventate a tavolino nell’Ottocento, non possono trasformare in senso federale il Paese. A quel punto, con la nascita delle “entità” organizzate in Cantoni, si saranno create le condizioni istituzionali per la realizzazione di una reale struttura federale, per la definizione di un assetto politico-costituzionale innovativo.
Con tali visioni si comprende come risulti incongruente la conquista delle Regioni (organismi dello Stato italiano) così come perorano alcuni sedicenti federalisti e pseudo indipendentisti. In specie quelli veneti. La teoria di Miglio vede tutte strutture “a basso tasso di politicità” che hanno prodotto livelli di civiltà e di crescita economica straordinari. È l’«altra metà del cielo» della storia europea, come egli la definisce, a tornare di attualità con le sue straordinarie ed esemplari strutture di marca althusiana, ricche e complesse, progenitrici del neofederalismo contemporaneo.
Con il neofederalismo Miglio rovescia l’approccio: il federalismo finora sperimentato deriva da un foedus che produce un pluribus unum, l’unità nella pluralità. Noi oggi dobbiamo, invece, cercare il foedus che consenta il passaggio dall’unità alla pluralità, ex uno plures. Il vero ordinamento federale per Miglio è contrassegnato da una pluralità di fonti di potere, almeno da due: quella delle entità federate e quella della federazione. Pluralità di sovranità finisce per significare “nessuna sovranità”. Infatti: “La radice del neofederalismo è l’affermazione di una pluralità di sovranità contro l’idea della sovranità assoluta [ed è] fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla pluralità di tutti i rapporti, sull’eliminazione dell’eternità del patto [politico]”. Per essenza una struttura federale è una struttura “a pluralità di sovranità”, cioè non a piramide. Johannes Althusius aveva sviluppato l’idea contrattuale sostenendo un’immagine dell’aggregazione federale come formata “a scatole cinesi”, però tutte scomponibili in qualsiasi momento: “[…] erano tutti contratti di diritto privato e non patti politici.”
In questa visione ben più funzionale sarà la ricerca del consenso popolare e dell’appoggio internazionale. Ma questo è possibile ottenerlo mostrando a priori che tipo di ordinamento i “sovrani” vorranno darsi, e qui prendiamo a pretesto l’«indipendenza» comunale che è nata intorno all’anno 1.000 proprio nell’Italia settentrionale e centrale per espandersi poi a buona parte dell’Europa dei secoli successivi. Ed un modo (non l’unico ovviamente) potrebbe essere quello di partire dagli attuali Statuti comunali. In questo senso c’è già chi pensa, propone e agisce, e qui in allegato ne forniamo un esempio: VEDI QUI.
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