LABORATORIO UCRAINA
Ogni guerra è, tra le altre cose, un terreno di sperimentazione. Classicamente lo è per le armi: nuovi prodotti dell’industria bellica, se positivamente testati nella realtà di un conflitto, ne ricavano il miglior lancio pubblicitario possibile. Ma talvolta una guerra rappresenta anche l’occasione per verificare molte altre cose; ed in questo, la guerra in Ucraina non fa eccezione.
Armi, industria e strategie
Il conflitto che si sta combattendo, naturalmente, focalizza tutta
l’attenzione su due aspetti: le conseguenza politiche ed economiche
della guerra e la tragedia delle morti e delle distruzioni che si
infliggono reciprocamente i contendenti. Pure vi sono altri aspetti non
meno importanti, che però rimangono esclusi dal dibattito pubblico,
restando confinati in un ambito assai specialistico – e per sua natura
tendenzialmente riservato.
Una prima questione, tra quelle appunto minori,
è relativa alle armi impiegate dalle forze combattenti. E, sotto questo
profilo, la guerra in Ucraina è assai interessante per più di un
motivo.
Innanzitutto, è il primo vero conflitto in cui è direttamente
coinvolta la Russia post-sovietica. Sia le guerre cecene, che
l’intervento in Siria, infatti, non sono assimilabili a questo, poiché
qui a fronteggiare l’esercito russo c’è un altro esercito regolare, di
un paese con decine di milioni di abitanti e non un sia pur ben
organizzato esercito guerrigliero. Ciò costituisce quindi un’ottima
occasione per osservare e valutare modalità e capacità di combattimento
delle forze armate russe e soprattutto dei suoi armamenti.
Sotto questo aspetto, la guerra offre molteplici chiavi di lettura. Pur essendo un conflitto tutto sommato asimmetrico,
non solo per l’evidente sproporzione tra le parti ma anche – ad esempio
– per il totale dominio dell’aria da parte di uno dei due, una parte
significativa della guerra stessa si svolge sul terreno, con un
confronto tra forze meno squilibrate a livello tattico. Per quanto da
entrambe le parti si faccia largo uso di mezzi e sistemi d’arma ancora
d’epoca sovietica e siano, quindi, tutto sommato poco presenti armi
moderne, si possono comunque osservare alcuni aspetti interessanti.
I
carri armati, ad esempio, sono per lo più T-72 variamente rimodernati,
che risalgono concettualmente agli anni settanta del secolo scorso. In
tempi più recenti, i russi stanno inviando al fronte anche moderni T-90,
ma ancora in numero non abbastanza significativo. Da quel che si sa,
sembrano avere un’ottima capacità di combattimento, che li rende
facilmente dominatori in battaglia. Ma se c’è un elemento emerso con
decisione da questa guerra, è che i mezzi corazzati – siano essi carri,
semoventi o trasporto truppe – mostrano la loro estrema fragilità di
fronte ai nuovi signori della battaglia: i droni. In particolare, i
piccoli droni quadricopter, utilizzati in combinazione con l’artiglieria
ed i sistemi MLRS, hanno elevato moltissimo la capacità di colpire con
precisione anche mezzi in movimento, grazie alla geolocalizzazione in
tempo reale degli obiettivi. Mentre i cosiddetti droni kamikaze – come il russo Lancet – sono ancora più micidiali.
Anche nel settore dell’artiglieria (in senso ampio) si osservano elementi degni di nota. In particolare, sono emerse alcune criticità nel campo NATO-ucraino. Innanzi tutto, la presenza di una grande varietà di obici, prodotti dalle varie industrie nazionali, ed una ancor più ampia gamma di proiettili, anche del medesimo calibro, ha creato non pochi problemi tra le truppe ucraine. Poiché infatti non tutti gli obici sono in grado di sparare l’intera gamma di proietti di quel calibro, è accaduto più di una volta che i reparti di artiglieria ucraina che utilizzano sistemi d’arma occidentali si siano trovati riforniti di munizionamento inadatto, anche se del giusto calibro. A causa di ciò, la cadenza di tiro si è forzatamente abbassata, si sono moltiplicati i danneggiamenti degli obici stessi (che è impossibile riparare in prossimità del fronte), sino alla completa impossibilità di sparare. Più in generale, le artiglierie occidentali hanno spesso presentato una difficoltà strutturale a sostenere un massiccio e prolungato volume di fuoco. Oltre a quanto detto prima, l’artiglieria usata dalle forze ucraine deve fare i conti anche con un insufficiente quantitativo di proiettili, soprattutto paragonato alla capacità di fuoco dell’artiglieria russa. È stato calcolato che la produzione annuale americana di proiettili da 155mm equivalga a quella sparata dai russi in un paio di mesi.
C’è infine da segnalare una sorta di nuova guerra dell’aria, dove a
farla da dominatori incontrastati sono missili balistici e droni
kamikaze. Nonostante una considerevole preponderanza russa
nell’aviazione, questa è in effetti poco utilizzata, e soprattutto in
appoggio tattico alle truppe di terra. Sono infatti pressoché assenti i
duelli aerei. Sia per ragioni di costi, che per salvaguardare il
personale di volo, le forze aerospaziali russe preferiscono colpire in
profondità soprattutto utilizzando missili e droni, di cui dispongono in
gran quantità. In particolare, e segnatarmente negli ultimi giorni, si è
potuto osservare un uso singolare di questi strumenti.
Innanzi tutto, per superare le pur deboli difese anti-missile ucraine, le forze armate russe lanciano attacchi a saturazione,
ovvero utilizzando numerosi missili e droni kamikaze sul medesimo
obiettivo o su obiettivi diversi in un’area delimitata. In tal modo, i
sistemi di difesa ucraini possono al massimo colpire solo pochi vettori
d’attacco, mentre gli altri vanno comunque a bersaglio. Inoltre, ed in
particolar modo nella nuova fase del conflitto susseguente l’attentato
al ponte di Kersh e l’affidamento delle operazioni russe al comando
unico del generale Sorovikin, si è fatto notare il drone Geran,
di produzione iraniana, che la Russia sta utilizzando in grande
quantità, e che si sta dimostrando di grande efficacia e precisione.
L’industria iraniana dei droni, ritenuta di altissimo livello, ne ha
subito tratto beneficio, con decine di paesi che si sono detti
interessati ai suoi prodotti…
La guerra industriale
La guerra è, tra le altre cose, anche una gigantesca macina, che
tritura grandi quantità di mezzi. In una guerra d’attrito e di
logoramento, come quella impostata dalla NATO in Ucraina, il consumo
bellico è elevatissimo. Carri, artiglieria, sistemi lanciarazzi, mezzi
per il trasporto truppe, sistemi anti-aerei ed anti-missile, e poi
munizioni d’ogni tipo, in quantità enorme, vengono quotidianamente
utilizzati e distrutti, e devono essere rimpiazzati.
Alle spalle di
un esercito, quindi, è necessario che vi siano arsenali ben forniti ed
una industria bellica in grado di assicurare una pronta e costante
alimentazione del conflitto.
Benché i paesi occidentali dispongano di
una florida industria militare, che primeggia nel commercio mondiale
del settore, l’intero sistema è regolato fondamentalmente dal mercato –
sia interno che estero. E, ovviamente, il mercato interno (diciamo in
ambito NATO), è quello determinante, su cui si parametrizza la
produzione. E dal crollo dell’Unione Sovietica in poi, il complesso
militare-industriale si è orientato in funzione di orizzonti bellici
diversi, testimoniati dai conflitti in cui l’occidente si è impegnato:
Iraq, Afghanistan, Serbia, Siria, Libia… Tutte guerre caratterizzate da
una incolmabile asimmetria tra attaccante ed attaccato, e da una elevata
concentrazione di fuoco iniziale – cui poi segue un lungo periodo di gestione del caos susseguente.
Questo tipo di guerra, quindi, richiede un consumo limitato, e comunque
concentrato nel tempo, soprattutto di armamento ad alto impatto
(missili balistici e da crociera), mentre nel periodo successivo c’è un
consumo limitato di armamento convenzionale spalmato nel tempo. La
capacità degli arsenali occidentali, e quella produttiva delle varie
industrie belliche nazionali, è quindi da decenni tarata su questo tipo
di esigenze.
Diversamente, la Russia non solo ha ereditato enormi
arsenali dell’epoca sovietica, ma ha anche mantenuto in parte la
medesima propensione alla produzione bellica. Ne è conseguito che, nel
corso della guerra ucraina, la NATO ha accusato la velocità di consumo del
conflitto assai più della Russia. Anche se è vero che la NATO si è
limitata a fornire agli ucraini solo un certo tipo di armamenti, ed in
quantità limitate, ne è risultato comunque non solo un significativo
svuotamento degli arsenali, ma anche una difficoltà nel reggere il ritmo
consumo/produzione.
Mentre – ad esempio – non c’è stata fornitura di carri armati
occidentali, sono stati dati in abbondanza svariati sistemi di
artiglieria, e blindati per il trasporto truppe, mentre minore è stato
l’impegno per quanto riguarda i sistemi MLRS. Ciò nonostante, in molti
casi gli eserciti NATO si sono trovati al limite della propria capacità
di alimentare quello ucraino, se non intaccando i propri reparti
operativi. Senza parlare poi del munizionamento.
La questione è, in
termini più ampi, che la guerra in Ucraina è un calderone che inghiotte
grandi quantità di armi e munizioni, ad un ritmo assai elevato; una
guerra d’attrito produce sempre un consumo elevato, se poi è anche una
guerra che si protrae nel tempo mantenendo inalterato l’elevato livello
di distruzione, appare evidente che il sistema bellico occidentale ha
grandi difficoltà ad affrontare la Russia su questo terreno.
Per
quanto, come s’è detto, relativamente limitato, il supporto bellico
all’esercito ucraino arriva da decine di paesi, NATO e collegati, mentre
dall’altro lato c’è l’impegno parziale, anche se crescente, di uno
solo. Solo molto recentemente è arrivato il supporto iraniano, e
comunque limitato al settore droni.
La lezione che si ricava da tutto
ciò, è che la NATO, e più in generale il sistema di alleanze militari
occidentali, allo stato attuale non sarebbero in grado di reggere uno
scontro intenso e prolungato con la Russia. Questo ovviamente
avvicinerebbe la necessità di ricorrere ad armi non convenzionali,
eventualità che però è inaccettabile per l’occidente, in quanto
aprirebbe una spirale dalla quale – se pure ne uscisse vincitore –
sarebbe messo in ginocchio. Un occasione troppo ghiotta per l’avversario
strategico, la Cina.
Ne consegue che, negli anni a venire, l’intero
occidente andrà a rivedere e reimpostare il proprio sistema bellico. Non
solo sul piano strategico, ma anche su quello – più basico – dell’organizzazione delle forze armate e dell’industria militare. È presumibile che ciò comporti una maggiore militarizzazione della
società e dell’economia, e quindi che l’attuale 2% del PIL richiesto
dalla NATO ai paesi membri sarà insufficiente; del resto, il pesce pilota estone s’è fatto già avanti, proponendo di portarlo al 3%.
Un banco di prova strategico
Anche se le opinioni pubbliche – quantomeno in occidente – non
sembrano esserne consapevoli, questo conflitto rappresenta una svolta
veramente epocale. Né la caduta del Muro di Berlino, né l’11 settembre
2001, sono paragonabili al 24 febbraio 2022 – e di questo probabilmente
la Storia prenderà atto. La volontà di imporre una frattura radicale ha
raggiunto un livello ed una violenza mai visti prima. Il fatto è che
siamo giunti ad un punto in cui gli Stati Uniti, che credevano di aver
conseguito il predominio globale, avendo scoperto che così non è, che
nuovi competitor emergono (o riemergono), e che addirittura si
profila una fase di declino per l’America, hanno deciso di giocare la
partita decisiva. Che, nella loro visione, è quella contro la Cina,
mentre Russia ed Iran sono considerati elementi da rimuovere, ma non
dello stesso livello.
E poiché è questa la posta in gioco, il conflitto ufficialmente apertosi il 24 febbraio è assai più di una guerra: è la prima mossa significativa sulla scacchiera della guerra totale.
Siamo quindi ben oltre la guerra senza limiti teorizzata già
nel 1999 da Quiao Liang e Wang Xiangsui (1), due colonnelli
dell’Esercito Popolare cinese. Mentre quella intendeva riferirsi ad un
conflitto combattuto con ogni mezzo – e quindi non soltanto le armi, ma
anche l’economia, la tecnologia, la diplomazia, la propaganda, etc –
tutti coordinati tra loro in un unico disegno strategico, la guerra totale in
cui siamo appena entrati si spinge più in là: non solo ogni mezzo
possibile, ma anche un solo esito possibile. Per l’impero americano si
tratta di vincere o perdere, tertium non datur. Pur essendo la guerra ucraina una mossa, significativa ma di apertura,
scacchisticamente parlando, questa impostazione più ampia si riflette
inevitabilmente anche su di essa, sulla strategia delle parti in campo.
Ovviamente qui riferendoci a USA e Russia, essendo tutti gli altri mere
comparse.
In termini generali, pertanto, la strategia americana aveva
due obiettivi: tranciare irrimediabilmente qualsiasi connessione tra la
Russia e le colonie europee, ed indebolire la Russia stessa,
al punto da depotenziarne profondamente la capacità militare. Nel caso
di un esito particolarmente positivo, ottenere un regime change a Mosca, o magari il collasso e la disgregazione dello stato federale russo.
Come s’è visto, il primo risultato sembra pienamente conseguito.
L’Europa ha seguito supinamente i diktat statunitensi, ed ha abbracciato
la crociata anti-russa bruciandosi i ponti alle spalle. Anzi, bruciando
letteralmente se stessa.
Sul tema del suicidio d’Europa, vale la pena di fare alcune considerazioni aggiuntive.
Che
i paesi dell’Europa occidentale fossero stati vassalli dell’impero
amerikano, è un dato di fatto dal 1945; così come che, al crollo
dell’URSS, gran parte dei paesi dell’est europeo siano corsi
entusiasticamente a divenirne a loro volta vassalli, persino più
servili. Ma, appunto, sino a quel 24 febbraio i paesi europei avevano
comunque un margine d’autonomia che, sia pure nel quadro del
vassallaggio, gli consentivano di esercitare una politica estera più morbida,
meno aggressiva. Che, se da un lato costituiva una possibilità di
salvaguardare gli interessi nazionali delle singole colonie, dall’altro
rappresentava soprattutto una possibilità di interfacciamento
diplomatico tra l’occidente ed il resto del mondo. Una possibilità di
dialogo che è stata bruscamente soppressa, ed i cui contraccolpi già si
vedono, con l’accelerazione dei processi di allontanamento
dall’occidente di molti paesi, anche precedentemente a noi vicini.
Strettamente collegato a questo, c’è un altro aspetto – incredibilmente non rilevato dagli analisti – in cui l’Europa, del tutto dimentica del proprio ruolo diplomatico, non solo non ha saputo giocare le proprie carte, ma non è nemmeno riuscita a cogliere i segnali che venivano da Mosca. Al di là di tutto, infatti, come non comprendere che la richiesta russa, ancora dopo l’inizio dell’Operazione Speciale, di una forte autonomia per le repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk aveva un preciso significato? L’intento strategico, infatti, unitamente alla garanzia di neutralità dell’Ucraina, era precisamente quello di avere una significativa presenza all’interno del paese vicino, non solo per pesare sulle sue decisioni, ma anche per mantenere aperti canali di comunicazione con l’Europa stessa – Mosca infatti non s’è mai opposta ad un ingresso dell’Ucraina nell’UE. Dal momento in cui questa ipotesi viene lasciata cadere, e la Russia passa quindi alla prospettiva della liberazione ed annessione dell’intera Novarussia, non si tratta più semplicemente di un cambio di strategia militare, ma della stessa prospettiva strategica del paese. Che prende atto della volontà occidentale di sancire una cesura nei rapporti reciproci, nonché della vocazione suicida degli europei, ed avvia un processo di riorientamento verso l’Asia. Semplicemente, la Russia non combatte più per forzare una trattativa con l’ovest, ma – essendosi volta ad est – per coprirsi le spalle.
Come ha ben detto Alexander Grushko, vice ministro degli esteri russo al Forum economico euroasiatico di Baku (2), nel corso dei decenni la cooperazione tra Mosca ed i paesi europei, ha dato vita a “decine di progetti” in comune, progetti che sono stati tenuti “al di fuori del contesto ideologico, c’è stata la Guerra fredda e poi la guerra nella ex Jugoslavia, interi Stati sono scomparsi dalla mappa, ma a nessuno mai è venuto in mente di utilizzare la cooperazione energetica come arma di pressione e anche militare”. Grushko ha poi ricordato come ad un certo punto “gli europei abbiano deciso di rinunciare ai vantaggi che venivano dalla cooperazione con la Russia, mentre gli Stati Uniti sono riusciti a evitare quello che temevano di più: il riavvicinamento tra la Russia e l’Europa”. Pur di obbedire agli ordini imperiali, dunque, i proconsoli europei hanno preferito il suicidio strategico; e ciò non già per timore della reazione amerikana ad una eventuale ribellione, ma per una piena e totale adesione e fedeltà all’impero. Per quanto infatti a Washington non si siano mai fatti scrupolo di eliminare, in un modo o nell’altro, i vassalli scomodi o riottosi, è chiaro che una presa di posizione comune dei paesi europei, in un momento delicato come l’apertura del conflitto con la Russia, avrebbe reso pressoché impossibile qualsiasi ritorsione.
In conclusione, per quanto la partita sia ancora in corso si possono
già delineare alcuni elementi. La mossa strategica statunitense è stata
certamente positiva, nei termini in cui ha definitivamente staccato
l’Europa dalla Russia, l’ha indebolita economicamente e politicamente, e
ne ha tratto un vantaggio competitivo. È invece decisamente negativa
perché ha mancato il secondo obiettivo, ha mostrato la debolezza del suo
dispositivo di guerra totale anche solo contro quella che considera una potenza regionale, ha messo in moto meccanismi di indebolimento della propria rete di dominio mondiale, ha spinto i suoi nemici più significativi a cooperare sempre più strettamente.
E, cosa assai più rilevante, aveva intenzione di intrappolare Mosca
in un conflitto di logoramento, e si è trovata a sua volta intrappolata
in un conflitto che rischia di logorare Washington (e le sue alleanze
militari) assai più che il nemico. Paradossalmente, ha convinto la
Russia che questa fosse una partita vitale per la sua sopravvivenza,
facendo sì che assumesse una prospettiva strategica coerente con questo
assunto, laddove invece per l’America non è la partita decisiva.
La
Russia non può perdere, perché ne va della sua esistenza, non solo come
potenza ma come nazione; ed è pienamente nelle condizioni di riuscirvi.
Gli USA non possono vincere, se non a condizione di investire tutto in
questo conflitto, regalando quindi un vantaggio strategico incolmabile
alla Cina. Ciò dovrebbe portare alla ricerca di un punto di caduta
reciprocamente accettabile – e per quanto ufficialmente si abbaino l’un
l’altro, i contatti ci sono e si mantengono. Ma, per il momento,
entrambe puntano a massimizzare i risultati possibili.
Se c’è quindi una lezione ricavabile dal laboratorio Ucraina,
in termini strategici è senz’altro che se un impero comincia una guerra
perché si sente minacciato, quella guerra è già perduta.
1 – Quiao Liang, Wang Xiangsui “Guerra senza limiti”, ed. Le Guerre
2 – Cfr. “Gas, Russia: ‘è fase finale suicidio energetico Europa’”, https://www.adnkronos.com/gas-russia-e-fase-finale-suicidio-energetico-europa_1KxqYRA2lp064OcxwuUCvs?refresh_ce
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