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E’ l’individuo il soggetto originario della sovranità
Per comprendere la questione suggeriamo la lettura di questo documento, dal quale per semplicità estrapoliamo il seguente brano: Ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli Stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività internazionale. Per il concetto di popolo bisogna pertanto riferirsi a documenti ufficiali o semi-ufficiali privi di carattere giuridico. Un recente Rapporto dell’Unesco (Doc. SHS- 89/CONF. 602/7, Parigi, 22.02.1990) definisce il popolo come:
1. un gruppo di esseri umani che hanno in comune numerose o la totalità delle seguenti caratteristiche:
a. una tradizione storica comune;
b. una identità razziale o etnica;
c. una omogeneità culturale;
d. una identità linguistica;
e. affinità religiose o ideologiche;
f. legami territoriali;
g. una vita economica comune;
2. il gruppo, senza bisogno che sia numericamente considerevole (per es., popolazione dei micro Stati), deve essere più che una semplice associazione di individui in seno ad uno stato;
3. il gruppo in quanto tale deve desiderare di essere identificato come un popolo o avere coscienza di essere un popolo -restando inteso che gruppi o membri di questi gruppi, pur condividendo le caratteristiche sopra indicate, possono non avere questa volontà o questa coscienza; e eventualmente
4. il gruppo deve avere istituzioni o altri mezzi per esprimere le proprie caratteristiche comuni e il suo desiderio di identità”.
H. Gros Espiell, uno dei maggiori esperti in materia, definisce popolo “qualsiasi particolare comunità umana unita dalla coscienza e dalla volontà di costituire una unità capace di agire in vista di un avvenire comune (…)”. Dunque, due sono gli elementi fondamentali che fanno un popolo e lo distinguono da altri tipi di comunità umane, quali le minoranze etniche, linguistiche o culturali e quelle comunità che nei documenti delle Nazioni Unite vengono denominate popolazioni autoctone: a) l’esistenza di un comune patrimonio culturale; b) l’esistenza di un comune progetto di futuro politico, la cui realizzazione comporti l’esercizio del diritto all’autodeterminazione.
Il concetto del diritto di autodeterminazione
Il “principio” di autodeterminazione dei popoli è sancito dagli articoli 1, par. 2, 55 e 76 della Carta delle Nazioni Unite. Questo “principio” è divenuto “diritto umano”, formalmente riconosciuto a tutti i popoli, in virtù dell’identico articolo l dei due Patti internazionali sui diritti umani del l966:
“l. Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale. (…) 3. Gli Stati parti del presente Patto, (…), debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello statuto delle Nazioni Unite”.
Ciò premesso, è necessario constatare che i Veneti (come altri popoli della penisola), intendendo per tali non solamente i soggetti che si riconoscono come ceppo etnico omonimo, bensì tutti gli abitanti di un ben determinato territorio, non godono dei diritti democratici. Non possono eleggere i propri “rappresentanti”, poiché costoro sono il frutto di logiche partitocratiche: il cosiddetto “Porcellum”. Non sono in grado di vedere approvate Leggi d’iniziativa popolare, e nemmeno è possibile per loro modificare la Costituzione. Subiscono una tassazione di oltre il 70% dei propri redditi. Di contro non sono diminuiti i privilegi della cosidetta “Casta” a fronte dell’aumento del debito pubblico. E il Parlamento ha perso la sua funzione principe: fare le leggi. Come illustrato in questo articolo.
Si sorbiscono anche un trattamento di tipo persecutorio ad opera di un Ente: Equitalia che costa più di quanto incassa per conto dello Stato italiano. Equitalia ha messo nel suo bilancio attivo 807 miliardi, ma ne ha incassati 69 e la differenza, vale a dire 738 miliardi di euro, è diventato debito. Di più: il quotidiano “Il sole 24 ore” del 18 giugno ha pubblicato una notizia che già da qualche tempo circolava negli ambienti ben informati: Equitalia ha i bilanci in rosso. La società che dà lavoro a 8.100 dipendenti ha speso nel 2012 in sole paghe, 506 milioni di euro per un costo medio per ogni addetto di 62.500 euro/anno, mentre altri 450 milioni se ne sono andati per i servizi. Quindi per far funzionare Equitalia ci sono voluti, nel 2012, 956 milioni di euro. Dal 2010 a tutto il 2012 Equitalia ha accumulato perdite per 40 milioni di euro; solo nel 2012 ha chiuso con un lieve avanzo di 8 milioni. A fronte di ciò il territorio veneto ha potuto constatare decine e decine di suicidi di imprenditori messi alla disperazione anche per l’impossibilità di ottenere il pagamento di beni e servizi resi alla pubblica amministrazione.
Potremmo continuare la dissertazione sull’opportunità ed i motivi che sono a favore di una dichiarazione d’indipendenza; ci limitiamo a sottolineare come secondo il documento su indicato e ferme restando le indicazioni dell’Unesco siano sufficienti due sole condizioni:
a) l’esistenza di un comune patrimonio culturale;
b) l’esistenza di un comune progetto di futuro politico, la cui realizzazione comporti l’esercizio del diritto all’autodeterminazione.
Dunque si deve necessariamente partire da un progetto di nuova architettura istituzionale. Una volta realizzata questa sarà necessario informare e convincere della bontà del progetto la popolazione – o la maggior parte di essa – cui ci si vuol riferire. A quel punto l’autodeterminazione sarà la logica conseguenza.
In conformità con queste norme e principi, il
principio di sovranità degli Stati e di non ingerenza negli affari
interni cede al principio di sovranità dell’essere umano e della
famiglia umana universale, anzi non esiste più de jure. È pertanto coerente con la ratio
delle norme giuridiche sui diritti umani il principio di ingerenza
pacifica negli affari interni, come chiarito dallo Institut de Droit
International (Risoluzione di Santiago de Compostela del 13.09.1989),
dal Parlamento europeo (Risoluzione sui diritti umani nel mondo nel 1989
e 1990 e sulla politica comunitaria dei diritti dell’uomo, del 1991),
dalla CSCE (Documento conclusivo della Conferenza sulla dimensione
umana, Mosca 4 ottobre 1991), dal Consiglio di sicurezza (Risoluzione
688 dell’aprile 1991 per l’intervento umanitario a favore dei Kurdi),
nonché dalla lettera del Ministro degli Affari Esteri della Repubblica
Italiana al Coordinatore della Commissione diritti umani della Helsinki
Citizens’ Assembly.
Deve ritenersi che l’art. 2,7 della Carta delle Nazioni Unite che fa divieto di interferire negli affari interni degli Stati, sia oggi abrogato dalle norme sui diritti umani quando si tratti di materia attinente alla “dimensione umana”. Esiste oggi una gerarchia tra le norme del vigente diritto internazionale. Al primo posto sono le norme e i principi sui diritti umani, in quanto norme di jus cogens o di super-costituzione. I diritti degli Stati sono subordinati a questi principi fondamentali. Laddove esista contrasto tra diritti umani internazionalmente riconosciuti e diritti degli Stati, i primi devono prevalere.
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