È scoppiata la bolla del cibo a domicilio: migliaia di fattorini licenziati
25 Agosto 2023
Il food delivery in Italia non ha attecchito. Se durante il Covid era stata registrata un’impennata nell’utilizzo delle app di consegna a domicilio di spesa e cibo, con il progressivo ritorno alla normalità le persone vi si sono rivolte sempre meno e le aziende hanno cominciato ad abbandonare il suolo italiano. Un anno fa è toccato a Gorillas, poi a luglio di quest’anno a Uber Eats e ora a Getir. E, mentre le multinazionali abbandonano il nostro Paese per puntare su mercati più promettenti, migliaia di lavoratori si ritrovano da un giorno all’altro senza lavoro.
Risale a poche settimane fa la comunicazione fatta da Getir, azienda turca che garantisce la consegna della “spesa in pochi minuti”, di abbandonare il mercato italiano. Con 1,8 miliardi di dollari di finanziamenti ricevuti dal 2017, Getir contava, nel 2022, di circa 1300 dipendenti tra rider e personale amministrativo nel nostro Paese. Per motivazioni quali la bassa profittabilità, i risultati non in linea con gli obiettivi e la mancanza di volontà degli investitori di sostenere ulteriori investimenti, l’azienda ha comunicato ai sindacati l’intenzione di chiudere in Italia e il conseguente licenziamento dei 370 dipendenti (tra rider e amministrazione) ancora rimanenti nel 2023 (dopo un primo taglio del personale effettuato lo scorso anno, che aveva riguardato il 14% dei dipendenti a livello globale). I sindacati riferiscono che la multinazionale non li ha contattati per cercare un dialogo, ma si è limitata a comunicare la decisione già presa. “Getir ha potuto sfruttare i benefici derivanti dall’essere sulla carta una start up, per decidere poi, al termine di tale periodo, di lasciare il nostro Paese. Un’azienda che ha sfruttato manodopera con inquadramenti al ribasso e che avrebbe dovuto in queste ore sedersi a un tavolo con le Organizzazioni Sindacali per provare a sanare questa situazione. Al contrario, è arrivata la doccia fredda. Tavoli di confronto sospesi e la notizia della prevista uscita di Getir dall’Italia” denunciano i sindacati.
Il 15 luglio scorso ad abbandonare definitivamente l’Italia era stato il servizio Uber Eats. Come Getir, anche la piattaforma statunitense ha riferito di non essere cresciuta “in linea con le aspettative” in modo da “garantire un business sostenibile nel lungo periodo”. Appena un anno fa un’altra azienda del settore, Gorillas, abbandonava a sua volta il mercato italiano (insieme a quello spagnolo e danese) per puntare su mercati più promettenti (come USA, Inghilterra, Germania, Francia e Paesi Bassi), lasciando a casa 540 dipendenti. Funzionanti con modelli molto simili, Gorillas e Getir erano nate durante la pandemia puntando sulla prospettiva che il q-commerce (quick-commerce, ovvero commercio veloce) sarebbe stato sempre più un modello dominante. Il modello è quello di fornire una risposta immediata ad un bisogno impulsivo (attenendosi al claim need-order-get, ovvero hai bisogno-lo ordini-arriva). Punto di forza di questo è la consegna iper rapida, entro i 10 minuti dall’ordine, ancora più veloce di quella garantita da Glovo, Delivery e JustEats, operatori tuttavia presenti sul territorio da più tempo e con a disposizione un ampio catalogo di negozi di cibo e altro che vi ricorrono.
Così, migliaia di dipendenti di tali aziende, per la maggior parte fattorini e addetti alle consegne, si sono ritrovati all’improvviso senza lavoro. Fare un conteggio preciso è difficile: USB (l’Unione Sindacale di Base) parla di 8500 lavoratori rimasti senza impiego dopo l’abbandono dell’Italia da parte di Uber Eats che, sommati ai 1300 di Getir e ai 540 di Gorillas, fanno un totale di oltre 10 mila lavoratori solamente negli ultimi due anni. L’inquadramento di tali dipendenti come collaboratori occasionali o partite IVA, inoltre, ha fatto sì che questi non potessero godere di alcuna tutela: «pur perdendo l’attività lavorativa non avranno diritto agli ammortizzatori sociali né ad alcun sostegno pubblico per un’eventuale ricollocazione» ha sottolineato Francesca Re David, segretaria confederale della CGIL. A tal proposito, a venire parzialmente in aiuto dei rider è una recente sentenza del tribunale di Torino, nella quale è stato determinato che “tutto il turno in cui il rider è loggato sulla piattaforma, quindi il tempo intercorso tra il check-in e il check-out nei singoli slot prenotati, è da considerarsi tempo di lavoro, a prescindere dalle consegne svolte, stabilendo di fatto che la possibilità di rifiutare una consegna non è sufficiente a qualificare l’attività dei rider come lavoro autonomo”. Sempre il tribunale di Torino, in un procedimento per condotta anti-sindacale condotto contro Glovo, aveva deliberato l’obbligo per le piattaforme di rendere chiaro il funzionamento dei loro algoritmi, rendendo comprensibili le “logiche di funzionamento dei sistemi, le informazioni che consentano di rendere ‘prevedibile’ e ‘trasparente’ la decisione adottata dal sistema automatizzato, le misure adottate per prevenire decisioni di natura discriminatoria”.
Dopo il boom registrato tra il 2020 e il 2021, quando i lockdown dovuti alla pandemia da Covid-19 rendevano difficile la circolazione delle persone, la crescita del settore è notevolmente rallentata nel 2022, registrando un +15% sul 2021 (molto lontano dal +87% del 2020 sul 2019). Secondo una recente indagine di Inapp, inoltre, nella ristorazione le commissioni per le consegne affidate alle piattaforme di food delivery superano il 20% per un’azienda su 3, mentre un’azienda su quattro non ha accesso alle informazioni sulla propria clientela. Per tale motivo, alcune aziende hanno deciso di non farvi affidamento.
[di Valeria Casolaro]
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