LA SCACCHIERA DI BRZEZINSKI
La grande partita anti-russa, le cui linee strategiche furono battezzate da Brzezinski oltre 25 anni fa, sembra aver superato (almeno in questa fase calda) il suo acme e si avvia ad un finale non proprio esaltante per l’occidente collettivo. Sullo scacchiere internazionale, infatti, sembra aleggiare lo scacco matto; resta solo da capire quando avverrà, e dove. La casella della mossa finale potrebbe essere Kharkov o, magari, Odessa.
Spiazzati dalla guerra
Ci sono molte ragioni che spiegano l’afonia degli intellettuali occidentali, e delle stesse chiese cristiane, di fronte a quella che il Papa ha definito come terza guerra mondiale.
Ma sono fondamentalmente due le ragioni per cui tale afonia si
accompagna – non a caso – a quella di un movimento pacifista che non è
mai stato così silente, anzi del tutto assente.
La prima è che questa
guerra – diversamente da quella contro l’Iraq, o quella contro la
Serbia – è percepita diversamente rispetto alle altre; mentre quelle
erano guerre d’aggressione imperialista, in cui l’occidente era l’aggressore (cosa resa ancor più evidente dalla asimmetria dei conflitti), e quindi toccavano le corde della coscienza antimperialista, e più in generale della coscienza tout court, in questo caso – e non solo per effetto della propaganda – l’occidente si percepisce come l’aggredito.
La
seconda è che questa guerra (im)pone la necessità di una riflessione
differente, perché, sia pure confusamente, se ne coglie la portata assai
più profonda, paragonabile a quella che ebbe la seconda guerra
mondiale. È chiaro a tutti, tranne forse che alle leadership occidentali
(ed anche questo è sintomatico), che questa guerra, comunque vada,
cambia l’ordine del mondo.
Ho qui più volte parlato dell’autismo dell’occidente – delle sue élite –
da intendere nel senso di totale chiusura in sé stessi, di incapacità
alla connessione col mondo esterno (la sua realtà). Paradigmatica, in
tal senso, appare l’arroganza ed il deficit cognitivo con cui, ancora
adesso, il giardiniere Borrell (la cui figura ricorda lo Chance
interpretato da Peter Seller, ma priva della sua ingenua simpatia)
definisce la Russia come “una stazione di servizio il cui proprietario ha la bomba atomica” [1].
Naturalmente, i servi sciocchi sono
sempre in ritardo rispetto al padrone, il quale peraltro solo adesso
sembra iniziare a svegliarsi dal suo sonno onirico. Perché poi il grande
paradosso di questo tempo è proprio lo scarto enorme tra la lunga progettualità imperiale che sta dietro il conflitto (le cui basi furono gettate appunto da Brzezinski già nel 1997, col suo “La Grande scacchiera” [2]),
e la raffazzonata improvvisazione con cui è stato messo in atto il
progetto. In un certo senso, è come se gli USA avessero scambiato i
propri desideri per una possibilità: lo voglio, quindi posso.
Se infatti oggi l’occidente collettivo, la NATO e quindi gli USA in
particolare, si trovano ingabbiati nella propria stessa trappola, è
perché fondamentalmente hanno sbagliato i calcoli sui tre livelli
fondamentali nella pianificazione di una guerra. Hanno profondamente
sottovalutato la capacità militare del nemico (soprattutto in relazione
alla propria), sia sotto il profilo materiale che sotto quello dottrinale.
Ne hanno sottovalutato la capacità di reazione economica, sia in
termini di produzione industriale (ancora una volta, in relazione alla
propria), sia in termini di resistenza ai meccanismi sanzionatori. Ed
hanno data per scontata la propria capacità di isolare
internazionalmente il nemico, scoprendo poi che invece il resto del
mondo (al di fuori del miliardo d’oro occidentale) semplicemente se ne frega delle indicazioni imperiali, ormai indifferente sia al bastone che alla carota.
Il
solo calcolo esatto, sul breve periodo, è stato il totale asservimento
dell’Europa, ed il drenaggio delle sue ricchezze verso il cuore
dell’impero. Ma questo è stato anche un calcolo fallace, perché ha fatto
del vecchio continente una palla al piede, che dipende più che mai
dagli USA per tutte le questioni essenziali. Ma che, allo stesso tempo,
non può essere mollato, perché se gli Stati Uniti perdono la presa sull’Europa, sono finiti.
Adesso, quindi, Washington ha tre nuovi ordini di problemi. Il primo,
più impellente, come tirarsi fuori dalla trappola ucraina, minimizzando
il più possibile i danni. Il secondo, come non mollare la presa sulla
Russia, continuando a tenerla impegnata in conflitti di varia intensità,
sufficienti comunque ad impedirle un pieno sviluppo economico. Il
terzo, come ripristinare la propria piena capacità di esercitare la
supremazia militare, reindustrializzandosi e ripensando la propria
dottrina strategica.
Sono ovviamente tutti compiti estremamente impegnativi, e non è detto che gli USA siano in condizione, politicamente e culturalmente,
di portarli a termine. In ogni caso, sono problemi la cui soluzione
richiede un certo margine di tempo, e che richiedono non solo la volontà
di risolverli, ma soprattutto che si determinino le condizioni
necessarie perché le soluzioni immaginate possano realizzarsi.
La partita russa
Già il più urgente dei problemi, la trappola ucraina, è di non facile
soluzione. È ormai assolutamente evidente che l’Ucraina perderà la
guerra, si tratta quindi di evitare che questa ineluttabile sconfitta
non appaia – o quanto meno non appaia del tutto – come una sconfitta
della NATO. In parole povere, bisogna operare un rovesciamento radicale
della narrativa bellica sinora sostenuta, passando da “l’Ucraina vincerà
(grazie al nostro aiuto)” a “l’Ucraina perderà (nonostante il nostro
aiuto)”, fornendo una spiegazione quantomeno sostenibile di tale
rovesciamento. Operazione, questa, che tra l’altro richiede un
cambiamento sostanziale anche della leadership ucraina, che potrebbe rivoltarsi contro qualora si percepisse abbandonata a sé stessa.
Da
quanto si percepisce ormai chiaramente, la strategia di sganciamento
prevede la colpevolizzazione degli ucraini, alle cui incapacità si
attribuirà la responsabilità della sconfitta. A bene vedere, questa
strategia è stata sostanzialmente delineata già al vertice NATO di
Vilnius, ed i più recenti articoli di stampa con cui è partita la
campagna demolitrice non sono che l’inizio della sua messa in atto.
Questa strategia, in ogni caso, richiede un certo tempo per essere
pienamente dispiegata con un minimo di credibilità. Sicuramente mesi,
forse anche un anno. L’altro pezzo della strategia, quello più
complicato, è stabilire il prezzo politico accettabile (e possibile)
da pagare. Se infatti la sconfitta militare può essere scaricata sugli
ucraini, i termini politico-diplomatici che definiranno il quadro
post-bellico investono direttamente – ed ineluttabilmente – la Casa
Bianca.
Al riguardo, non appare esserci ancora chiarezza, a
Washington, soprattutto perché ancora non riesce ad accettare
concettualmente l’idea di essere stata sconfitta; e conseguentemente
rifiuta di considerare la posizione russa – i suoi obiettivi strategici,
le sue esigenze, le sue preoccupazioni. Ovviamente questo è il nodo
centrale di tutta la questione, e quindi il tempo di prolungamento del
conflitto dipende in buona parte anche dal tempo necessario affinché la
leadership statunitense addivenga ad una determinazione in merito.
Il secondo dei problemi – come mantenere la pressione sulla Russia – è
probabilmente il più complicato. Per fare ciò, infatti, sono necessarie
alcune condizioni. Innanzitutto, ovviamente, occorre un paese
confinante con la Federazione Russa, che sia anche disponibile a
sostenere un’altra proxy war – il che, dopo la guerra in
Ucraina, è tutt’altro che facile… Deve essere anche abbastanza forte da
reggere l’urto, senza farsi travolgere in poche settimane o mesi. E deve
essere agevolmente raggiungibile dalla catena logistica della NATO.
Già queste precondizioni determinano una drastica riduzione delle possibilità.
La
Siria, ad esempio, dove comunque si sta alzando reciprocamente la
tensione, non risponde ai requisiti essenziali soprattutto perché non
c’è un paese mercenario; nello scenario siriano, non solo gli
Stati Uniti sono presenti direttamente (e quindi significherebbe andare
incontro ad uno scontro diretto), ma dispongono solo delle truppe di complemento delle
SDF e dell’Isis, e per di più si trovano in terra ostile. Le basi
siriane ovviamente, ma anche quelle di retrovia, basate in Iraq. Per non
parlare del fatto che un inasprimento del conflitto siriano porterebbe
ad uno scontro anche con l’Iran, il quale a sua volta potrebbe portare
ad un intervento di Israele… Insomma, rischierebbe di prendere fuoco
l’intero Medio Oriente.
A conti fatti, quindi, l’unico candidato plausibile sembrerebbe
essere la Polonia, il cui governo peraltro (follemente) scalpita per
entrare in guerra con Mosca. Ma, per quanto Varsavia sia lanciatissima
in una corsa al riarmo frenetica e dispendiosa, non appare granché più
pronta di quanto non fosse l’Ucraina un anno e mezzo fa – anche se,
ovviamente, è assai più integrata nel modello NATO (ammesso che questo
sia un vantaggio…).
Questa opzione ha però una serie di
problematiche. Innanzitutto, il ruolo che viene attribuito ai polacchi,
nell’ambito della strategia europea degli USA, è quello di porsi come
guardiani della frontiera orientale, ed al tempo stesso di frapporsi tra
Russia e Germania. Lanciarli in una proxy war rischierebbe di lasciarli senza più la capacità di svolgere tali compiti.
Inoltre,
il riarmo polacco non è ancora del tutto completato, gran parte delle
commesse con le industrie americane e sudcoreane sono ancora in corso.
La Polonia, per di più, non ha una sua grande industria bellica, e
quindi ancora una volta finirebbe col trovarsi a dipendere dall’aiuto
della NATO, la quale è però già col fiato corto.
Infine, i polacchi
hanno già avuto diecimila caduti nella guerra ucraina (e presumibilmente
due o tre volte tanti feriti), che costituiscono il 15% delle sue
attuali forze di terra.
Il terzo problema, il ripristino della propria capacità militare,
almeno per quanto riguarda l’aspetto industriale è relativamente più
facile da risolvere. I problemi maggiori, ma non insormontabili, sono la
scarsità di manodopera specializzata, e la catena di approvvigionamento
che (per alcuni componenti) dipende dalla Cina.
La questione più complessa è invece la necessaria rivoluzione dottrinale –
e le sue ricadute sul modello industriale. Cosa, quest’ultima, che
rende necessaria la contemporaneità dei due aspetti. Sostanzialmente,
gli USA devono superare il modello strategico basato sull’idea delle
guerre asimmetriche, così come su quello (sostanzialmente immutato)
dell’airland battle, ovvero la stretta coordinazione tattica
tra forze aeree e corazzate. Questo modello, che è strettamente
intrecciato anche concettualmente alle esigenze dell’apparato
industriale [3], fondamentalmente ha dato vita ad una macchina militare
basata su un numero (relativamente) limitato di mezzi, ma ad alta
tecnologia (ed elevatissimo costo).
Ciò non solo la rende estremamente onerosa economicamente, ma anche estremamente fragile (quasi tutti i sistemi d’arma per la guerra convenzionale risultano scarsamente adeguati ad un uso prolungato). Il fatto che gli states spendano annualmente quasi 1000 miliardi l’anno per la difesa, dipende essenzialmente sia dall’enorme numero di basi sparse per il mondo (oltre 850), con tutti i costi connessi, sia da questo modello militare-industriale basato su sistemi ad elevato valore aggiunto (tecnico ed economico).La guerra ucraina ha chiaramente mostrato come questo modello, sicuramente efficace nelle guerre contro paesi infinitamente più deboli, è assolutamente inadatto ad una guerra simmetrica, in cui l’attrito prevale sulla mobilità, e che comporta un elevato consumo di uomini e mezzi. Tralasciando qui gli aspetti tattici – e quindi strategici – dell’utilizzo intensivo ed estensivo dei droni (di sorveglianza e d’attacco), vero e proprio dominus della guerra d’Ucraina, settore nel quale gli USA sono profondamente arretrati, sia nella produzione che nella dottrina d’uso.
La risoluzione di questo problema, quindi, per le sue estremamente
complesse connessioni tra livelli diversi (politico, economico,
dottrinale), richiederà quantomeno un periodo di 4/5 anni, anche solo
per riportare la capacità industriale ad un livello produttivo tale da
ripristinare le scorte consumate nel conflitto ucraino, ed accumularne
di nuove sufficienti ad affrontarne un altro.
Ovviamente, ciò si riflette immediatamente anche sul secondo problema, in quanto una vera e propria proxy war come
quella ucraina, sarebbe oggi semplicemente insostenibile per la NATO –
che, secondo stime occidentali, in caso di un conflitto diretto con la
Russia, si troverebbe a corto di munizioni nel giro di pochi giorni.
Tutte
questo bel groviglio di problemi, ovviamente, non soltanto deve essere
affrontato e risolto, ma ciò deve necessariamente essere fatto entro
certi tempi (oltre i quali ogni soluzione sarebbe comunque tardiva), e
soprattutto deve essere fatto in un contesto dinamico, che muta continuamente in virtù dell’azione di altri soggetti – primo tra tutti, ma non solo, la Russia.
La partita dei russi
Dal punto di vista di Mosca, la questione della guerra non si pone in
termini di vincere o perdere, ma quando e come vincere. A condizione,
ovviamente, di evitare uno scontro diretto con la NATO, che non solo
potrebbe pericolosamente evolvere verso un conflitto nucleare (il quale
non prevede vincitori), ma soprattutto impegnerebbe le forze armate
russe in un ulteriore sforzo, stressandone non poco la tenuta.
L’obiettivo
russo, quindi, è massimizzare i risultati ottenibili con la vittoria,
minimizzando non solo le perdite ma anche i rischi di una improvvisa
escalation.
Se guardiamo agli obiettivi strategici primari russi,
ovvero demilitarizzazione e neutralizzazione dell’Ucraina, è evidente
che l’attuale tattica della consunzione sul campo delle forze ucraine
sta funzionando alla grande; le perdite sono così elevate che Kiev si
sta avvicinando ad un punto di non ritorno (oltre il quale diventa
impossibile rimpiazzarle adeguatamente). L’obiettivo bellico della
demilitarizzazione è pertanto a portata di mano. L’obiettivo politico,
cioè la neutralità ucraina post-guerra, dovrà essere conseguito
diplomaticamente, con la trattativa vera, quella con gli Stati Uniti.
Il processo di consunzione può ovviamente essere dosato
opportunamente, in modo da far sì che a Washington si chiariscano le
idee in merito alla propria exit strategy; e, una volta che sia diventato chiaro come gli americani intendono sganciarsi dal conflitto, accompagnare lo
stesso verso la sua conclusione. Fondamentale è non mettere gli USA con
le spalle al muro, neanche politicamente, perché ciò potrebbe indurli
ad una mossa di reazione, rinfocolando la guerra.
Al tempo stesso,
difficilmente Mosca si farà sfuggire l’opportunità di sconfiggere la
NATO oltre il campo di battaglia, perché ciò le offrirebbe l’occasione
di mutare considerevolmente il reciproco prestigio internazionale.
Un
possibile sviluppo, quindi, potrebbe vedere, in successione: l’attesa
che la spinta offensiva ucraina si esaurisca del tutto, consumando le
ultime riserve strategiche significative; una calibrata ripresa della
pressione offensiva, cercando di attirare e consumare le
residue forze operative di Kiev; e infine, quando lo sganciamento
americano si è sostanzialmente compiuto, e le forze armate ucraine sono
sull’orlo del collasso, lanciare un’offensiva generale che travolga le
ultime difese e costringa l’Ucraina a capitolare.
In ogni caso, ad una osservazione lucida del conflitto, dal suo
inizio ad oggi, appare evidente che la Russia persegue una linea
strategica abbastanza chiara e – nonostante alcuni sbandamenti iniziali,
soprattutto di natura politica – anche abbastanza coerente nel suo
sviluppo. E poiché tra gli obiettivi dell’Operazione Speciale non c’è
mai stata l’occupazione dell’Ucraina (tant’è che, nella fase iniziale,
si ritirarono autonomamente da pezzi importanti di territorio nel
nord-est del paese) ma soltanto la liberazione di quella che una volta
era la Novorussia, una volta acquisiti sostanzialmente questi oblast la
strategia messa in campo è stata essenzialmente difensiva.
Anche le
ulteriori avanzate territoriali sono state caratterizzate da una tattica
che faceva leva sulla necessità ucraina di riconquistare gli oblast
perduti, e che sostanzialmente si è tradotta nel premere su un settore,
inducendo gli ucraini a concentrarvi forze e contrattaccare, per poi far
valere la propria superiorità aerea e nel fuoco d’artiglieria.
In pratica, avendo ottenuto gli obiettivi necessari alla messa in sicurezza della
Crimea, le forze armate russe si sono potute concentrare sugli
obiettivi principali: distruggere l’esercito ucraino e rendere
impossibile una successiva adesione di Kiev alla NATO (laddove il primo è
anche funzionale al secondo). Con ciò, Mosca ha sostanzialmente messo
in atto una strategia effettivamente alquanto anomala, poiché il paese
che ha assunto l’iniziativa bellica sta conseguendo la vittoria
attraverso un atteggiamento essenzialmente difensivo. Da un punto di
vista clausewitziano, di obiettivi politici perseguiti attraverso lo
strumento bellico, sta effettivamente massimizzando i risultati,
minimizzando le perdite.
Resta da vedere quale sarà la mossa finale,
il che ovviamente dipende anche da quando matureranno i tempi per
cogliere la vittoria, e da quali saranno le condizioni generali in quel
dato momento. Forse a Kharkov, forse a Odessa, ma lo scacco matto già
aleggia sulla scacchiera.
1 – Cfr. “Borrell: ‘Putin está sacrificando su ejército y su pueblo para sobrevivir’”, El Pais
2 – Il libro risulta generalmente esaurito, ma sembra essere ancora disponibile su Eurolibro
3 – Sul tema, risulta interessante il pur datato libro di Seymour Melman (“Capitalismo militare”, Einaudi, 1972, oggi difficilmente reperibile).
Nessun commento:
Posta un commento