L'autore di Giubbe Rosse News riporta nel testo sottostante esattamente quanto avevo argomentato nei miei articoli dei mesi precedenti, in particolare il concetto fondamentale, che gli occidentali (europei in particolare) dovrebbero tenere ben presente, cioè che dovremmo essere grati a Putin per la sua moderazione e pazienza oltre che lungimiranza.
Esattamente il contrario di come i media mainstream lo descrivono (falsamente, mentendo sapendo di mentire). Lo dobbiamo considerare un amico dell'Occidente, dell'Europa in particolare, in quanto rappresenta il senso comune di appartenenza culturale e antropologica del popolo russo occidentale (Russia Europea) alla comunità europea, intesa come comunità di popoli, non certo politica e istituzionale. Con qualche eccezione, ovviamente, mi riferisco ai popoli dell’Europa dell’Est, piuttosto russofobi.
Questo suo atteggiamento di mediazione e moderazione strategica spiega il fatto che non abbia ancora infierito militarmente sull'Europa, nonostante tutte le gravissime provocazioni subite ripetutamente, bel oltre qualsiasi linea rossa. E' anche vero che le élite europee sono talmente demenziali, essendo composte da minus habens, che si stanno suicidando da sole e quindi sarebbe inutile e crudele infierire su di esse, anche perché sarebbero i popoli a subirne le conseguenze, che sarebbero ancora più gravi di quelle attualmente già pesanti e debilitanti, e Putin, lo ripeto per l'ennesima volta, non vuole colpire i popoli ma i loro governanti e servitori.
Putin sta mantenendo una sorta di guerra fredda impedendo che diventi calda, nonostante le élite occidentali (in particolare quelli anglofoni) facciano di tutto per renderla calda, anzi caldissima. In particolare gli USA sperano che la guerra rimanga in Europa e non colpisca mai il territorio americano, anche se iniziano a nutrire qualche dubbio, sapendo di quali armi apocalittiche dispone la Russia, in grado di radere al suolo in pochi minuti tutte e due le coste del paese, Atlantico e Pacifico, non avrebbero neppure il tempo di accorgersi di cosa gli sta venendo addosso.
Con la potenza bellica di cui dispone la Russia, nettamente superiore a quella occidentale, il fatto che i russi si limitino a una guerra convenzionale, nonostante l'aberrante e criminale comportamento nazi-ucraino, rende un fatto accertato che Putin e il suo entourage non intende infierire sull'Europa, ma è la sua leadership che sta infierendo masochisticamente su se stessa per un'autolesionista pusillanime sottomissione alle politiche USA-NATO.
Putin deve solo attendere che l'Occidente si danneggi da solo con le sue ottuse e deleterie scelte strategiche, fino a che non collasserà o imploderà. Che senso avrebbe bombardare un territorio se sai già che presto sarà colpito da un terremoto? Quando un popolo o più popoli, come nel caso europeo, sono governati da stupidi, occorre attendere che gli stupidi abbiano esaurito il loro entourage composto da altri stupidi, fino a che si siano distrutti a vicenda e inizino a comparire persone meno stupide. Intendiamoci, gli stupidi non si estingueranno mai, ma occasionalmente e temporaneamente potrebbero esaurirsi le scorte ...
Claudio Martinotti Doria
Di qua e di là del fronte
Mentre sulla linea di combattimento emergono, in tutta la loro evidenza, i limiti tattici e strategici della NATO, preludio ad una sconfitta che è già nei fatti, ed a cui manca solo la sanzione formale e finale, all’interno della Federazione Russa si gioca un’altra partita, non meno importante, soprattutto per gli europei; ed a cui proprio gli europei dovrebbero prestare attenzione, giacché da lì dipende il futuro del vecchio continente nei decenni a venire.
Sulla linea di combattimento
Come era facilmente prevedibile – ed infatti previsto – il tentativo
di passare ad una postura offensiva, da parte delle forze armate
ucraine, cercando di replicare i successi della scorsa estate, non solo
non ha dato i risultati sperati, ma si è trasformato in un vertiginoso
incremento delle perdite.
Se infatti l’offensiva dell’estate 2022
consentì a Kiev di riprendere Kharkiv (profittando del fatto che i russi
avessero lasciato quel settore quasi sguarnito) e la parte di Kherson
sulla riva destra del Dniepr (da cui però i russi decisero di ritirarsi
senza neanche combattere, per una scelta strategica del Generale
Surovikin), stavolta per l’esercito ucraino si è trattato di andare
all’attacco di forze considerevoli, ben fortificate, e largamente
superiori in alcuni ambiti fondamentali – artiglieria, aviazione
d’attacco, guerra elettronica.
Il risultato di sei settimane di controffensiva è
semplicemente devastante, per Kiev. Tanto che ormai in occidente si
comincia (sia pur malvolentieri) ad archiviare questa storia, e tutte le
aspettative ad essa connesse. Dopo il sanguinoso tritacarne dell’ostinata
resistenza a Bakhmut, contro ogni logica militare, il salasso di sangue
pagato in queste ultime settimane rende le cose davvero complicate, per
il regime ukronazi. Ormai le perdite viaggiano sull’ordine dei 400.000
KIA, una cifra enorme rispetto ai numeri delle forze impiegate.
Tra
l’altro, la capacità di mobilitazione diventa sempre più difficoltosa;
benché vi sia potenzialmente un bacino ancora ampio cui attingere (1),
non si può certo dire che l’Ucraina sia percorsa da un fremito
patriottico, che spinge ad arruolarsi volontariamente. Ovviamente, la
consapevolezza che ci sono elevatissime probabilità di restare uccisi è
la prima ragione che raffredda l’afflato nazionalistico; ma anche la
dilagante corruzione degli ufficiali, spesso più preoccupati di lucrare
in ogni modo possibile che di combattere, fa la sua parte.
Del resto, ormai sono centinaia, se non migliaia, le testimonianze
video dei reclutamenti forzati, veri e propri rastrellamenti. Da ultimo,
il governo di Kiev ha stretto accordi con vari paesi europei affinché
questi si incarichino a loro volta di rimandare in Ucraina gli uomini
delle classi richiamate, e precedentemente rifugiatisi all’estero allo
scoppio dell’Operazione Speciale Militare. Tutti segnali,
appunto, di una difficoltà di reclutamento. Ciò nonostante, secondo
l’attuale Ministro degli affari dei veterani ucraino, alla fine della
guerra “la nostra previsione è che ce ne saranno almeno 4 milioni” (2). Secondo i media ucraini, “la cifra è abbastanza spaventosa, perché è più di quattro volte l’attuale forza delle forze armate ucraine”.
Ovviamente
questa stima ha un suo senso nella previsione che il conflitto si
protragga ancora a lungo, non meno di altri due anni. Per arrivare a
quei livelli di mobilitazione, stante la situazione precedentemente
descritta, e che tende ad aggravarsi, è infatti necessario un tempo
abbastanza lungo; peraltro, ammesso che non venga meno il fattore tempo,
benché il regime zelenskyano si sia dimostrato disponibilissimo a
fornire carne da cannone alla proxy war della NATO, resta
comunque l’esigenza di addestrare ed armare questa eventuale massa di
mobilitati. Cosa che, allo stato, appare sempre più complicata, viste le
crescenti difficoltà della NATO stessa.
Uno degli esiti della fallimentare strategia ukro-NATO, infatti, è il
consumo quasi completo delle disponibilità di armamenti da parte dei 33
paesi membri dell’Alleanza. Il che ha mostrato, tra l’altro, non solo
l’impreparazione strategica nell’affrontare un conflitto ostinatamente
voluto e provocato, ma anche gli enormi limiti del potenziale militare
della NATO stessa. Tutte le potenti tecnologie belliche fornite a Kiev,
spesso spacciate per decisivi game changer, si sono alla fine dimostrate estremamente sopravvalutate. E non si tratta semplicemente di un cattivo uso da
parte degli ucraini, come pure qualcuno vorrebbe far credere, a cui
semmai si deve rimproverare l’aver seguito le direttive tattiche
impartite dagli addestratori e dai comandi NATO; né tanto meno di una
mera questione d’insufficienza quantitativa.
Il problema, e qui sarebbe necessario aprire ben altro capitolo, è strutturale, quasi ideologico.
L’occidente collettivo si è talmente a lungo crogiolato nella
presunzione della propria superiorità (morale, politica e tecnologica,
mettendo quest’ultima alla prova prevalentemente contro forze
infinitamente inferiori sotto ogni profilo), da aver messo a punto un
modello – strategico, tattico, e quindi anche iper-tecnologico – che
discende direttamente da questa idea di superiorità. Il giardino borrelliano non può che vincere, contro la giungla.
La realtà della guerra guerreggiata, si è incaricata di spazzare via
questa illusione. Disporre di strumenti altamente tecnologici,
costosissimi e quindi disponibili in quantità limitate, non serve quando
si deve fronteggiare un esercito di pari livello, che dispone di
strumenti un po’ meno sofisticati, ma in grandissima quantità.
Inoltre,
c’è una questione rilevantissima, che incredibilmente i comandi NATO
sembrano aver sottovalutato. Il modello strategico occidentale è basato
interamente sulla coordinazione terra-aria, e richiede quindi l’impiego
massiccio di una forza aerea predominante. Senza di questa, il modello
semplicemente non funziona, e si traduce in un tritacarne (ed un tritacarri).
Non
è per un caso che la NATO, se ancora può disporre – almeno teoricamente
– di un vantaggio strategico (nei confronti di Russia-Cina-Iran) è
proprio nel campo dell’aviazione, sulla quale ha investito moltissimo. E
si tratta appunto, anche qui, di un vantaggio teorico, in quanto mai
verificato sul campo.
E comunque il dato quantitativo non è privo
d’importanza. È infatti ben chiaro che fornire i caccia-bombardieri F-16
a Kiev resta strategicamente insignificante, non solo perché la Russia
dispone di migliaia di velivoli equivalenti o migliori, ma perché i
sistemi di difesa aerea russi ne farebbero strame.
Sul fronte interno
Ha di recente fatto un po’ di scalpore la notizia dell’arresto, da
parte delle forze di sicurezza russe, di Igor Girkin ‘Strelkov’. Famoso
combattente del Donbass durante la guerra civile, Strelkov è poi
diventato un esponente di punta di quel mondo iper-nazionalista russo,
estremamente critico nei confronti delle scelte strategiche del
Cremlino, verso cui non ha risparmiato critiche ferocissime.
Questo
arresto va a mio avviso inquadrato in un contesto più ampio, che serve a
meglio comprendere cosa sta accadendo dietro la prima linea.
In questo quadro, vanno collocati sia il fallito putsch di Prigozhin, sia il ridislocamento della Wagner in Bielorussia, sia l’incontro di Putin con i blogger di guerra lo scorso giugno. Per restare ovviamente ai fatti più noti.
Anche se lo storytelling occidentale ama dipingere la Russia
come un’autocrazia orientale ed un po’ barbara, la realtà è alquanto
diversa. Fondamentalmente, la Federazione Russa è una democrazia
rappresentativa presidenziale, come può esserlo la Francia e gli stessi
Stati Uniti, anche se ovviamente – per ragioni storiche e culturali – vi
sono delle differenze, formali e sostanziali. Ma soprattutto, la Russia
(la sua parte più popolosa ed importante) è e si sente europea.
Ne
consegue che la società russa contemporanea non è poi molto dissimile da
quella di qualunque altro paese europeo, ed al suo interno – fermo
restando il larghissimo consenso di cui dispone Putin, anche da prima
del conflitto (3) – si muovono diverse correnti di pensiero politico, le
cui diversità si riflettono poi anche sulle questioni di merito
relative al conflitto in Ucraina.
C’è una componente liberal,
cosmopolita, che guarda all’occidente, composta prevalentemente – ma
non solo – dall’oligarchia economica, che nei rapporti con l’ovest ha
ulteriormente sviluppato il proprio successo economico, così come c’è
una variegata componente nazionalista, che rivendica con forza la rottura, culturale e politica, con questo occidente.
La posizione di Putin, e del suo gruppo dirigente, che deve comunque fare i conti con queste realtà presenti all’interno della nazione, è in un certo qual senso mediana. C’è ovviamente piena consapevolezza che – quella che stiamo attraversando – è una fase di rottura nei rapporti est-ovest, e che non si tratta di una questione di breve durata. Con un orizzonte, a voler essere ottimisti, di nuova guerra fredda, è chiaro che la Federazione deve essere in qualche modo ridislocata strategicamente, non solo sotto il profilo economico e militare, ma in senso più ampio anche geopoliticamente; il che comporta un lavoro anche culturale. Ma, al tempo stesso, c’è consapevolezza che il ruolo storico della Russia è quello di fare da ponte tra Europa ed Asia, di essere lo snodo centrale di una prospettiva euroasiatica. Senza questo ruolo, se l’asse geopolitico venisse spostato completamente verso l’Asia, la Russia sarebbe destinata ad essere fagocitata politicamente dalla Cina. Si tratta quindi di giocare una partita di grande equilibrio, che per un verso deve fare i conti con l’esigenza di pendere tatticamente ad est, ma senza mai perdere di vista l’esigenza – altrettanto importante – di non disperdere il sentiment di appartenenza europea.
Per questo diventa necessario segare sul nascere quelle
forme di opposizione troppo radicali, e che si spingono troppo oltre
nella critica; del resto, si tratta pur sempre di un paese in guerra. In
quel presunto tempio della democrazia che sta dall’altra parte del
fronte, accade quotidianamente molto ma molto di peggio.
Ugualmente,
diventa necessario spiegare ai corrispondenti dal fronte indipendenti
che la questione non è meramente tattico-strategica, ma che ha una
dimensione (ed una prospettiva) assai più ampia, e che pertanto è
necessario tenerla presente anche quando – legittimamente – si muovono
critiche al modus operandi delle forze armate.
C’è infine da tener presente, anche a fronte di un (sia pur maldestro) sollevamento come quello della Wagner, non solo della popolarità acquisita dalla PMC, ma anche del ruolo che questa svolge e può svolgere, sullo scacchiere internazionale.
La soluzione di compromesso adottata per risolvere la crisi innescata
da Prigozhin, quindi, al di là di come possa apparire, va letta ed
inquadrata ancora una volta in un contesto strategico più ampio. Il
fatto che Prigozhin stesso sia stato graziato per la
sollevazione, non toglie che sia sempre sotto scopa in Russia, dove si
trovano le sue altre imprese ed i suoi beni. È chiaro che il suo ruolo
sarà sempre più ridimensionato, anche mediaticamente, mentre tornerà ad
essere centrale la figura di Urkin, il capo militare e fondatore della
PMC. In fondo, la compagnia è nata da e per conto dei servizi di
sicurezza militari. Il suo ruolo in Africa è strategicamente importante,
e non può essere facilmente sostituito.
Ma soprattutto è chiaro che
il trasferimento in Bielorussia risponde ad un preciso disegno
strategico. Che non è certamente quello di farne una base offensiva
verso ovest, come pure racconta la narrazione NATO style.
Dal punto di vista russo, la Bielorussia è assai più che un paese amico; sostanzialmente, è quasi una marca ad ovest, ma al tempo stesso è anche un po’ un ventre molle. Mosca, più che altro, teme che possa essere oggetto di una manovra aggirante della
NATO, combinando tentativi insurrezionali interni ed attacchi esterni.
Tenendo presente questo punto di vista, si spiegano meglio una serie di
mosse. Che sono anche concatenate tra loro.
Dispiegare lì i missili nucleari tattici non ha solo un valore dissuasivo verso la NATO, e di riequilibrio dopo
l’adesione della Finlandia, ma significa indicare in modo forte e
chiaro come Mosca guarda a Minsk. Cosa poi ribadita ancor più
esplicitamente da Putin, quando ha affermato che un attacco contro la
Bielorussia sarebbe considerato equivalente ad un attacco contro la
Russia stessa.
A sua volta, dispiegare lì anche la Wagner significa aggiungere un dissuasore importante, rispetto ai temuti piani NATO, nonché una protezione per le armi nucleari che vi sono state portate. Last but not least,
può rappresentare sia un modo per riportare in Russia parte delle
truppe che si trovano attualmente in territorio bielorusso, sia per
togliere dal territorio russo un possibile interlocutore per quelle forze iper-nazionaliste di cui si è detto.
Insomma, quella che stanno giocando Putin e i suoi è una partita a
scacchi, che vede per scacchiera il mondo intero. Già solo per questo,
per la portata delle questioni in ballo, sarebbe bene che gli europei tifassero Putin a più non posso; la sua posizione equilibrata, infatti, è la miglior garanzia non solo per prevenire tremende escalation, ma soprattutto per assicurare una possibilità ad un dopo più ragionevole. E ciò a prescindere dal fatto che si possa essere o meno d’accordo con la sua politica.
Il
24 marzo 2024, mesi prima che in USA, in Russia si voterà per le
presidenziali. L’ultima dichiarazione in merito di Putin era che non
intendesse ricandidarsi, ma è ragionevole credere che non si sottrarrà a
questa responsabilità proprio mentre il paese, sotto la sua guida, si
trova a metà del guado. Di certo, diversamente da quel che accade in
Ucraina, non cancellerà il voto col pretesto della guerra. Un
prevedibile successo plebiscitario darebbe alla Russia la forza per
superare di slancio la crisi, e portare a compimento un disegno che la
vede – ora e sempre – parte della famiglia europea.
1 – Cfr. “Una lunga estate calda”, Giubbe Rosse News
2
– Interessante notare che questa cifra corrisponde esattamente a quella
che stimavo raggiungibile con una mobilitazione totale. Cfr. “Una lunga estate calda”, ibidem
3
– Fondamentalmente, il sostegno a Putin va attribuito alla sua capacità
di risollevare la Russia dal disastro post-sovietico in cui l’avevano
precipitata Gorbaciov prima, e Eltsin poi. Ma vi hanno contribuito sia
la capacità di stroncare il terrorismo islamista (le due guerre cecene),
sia la scelta di intensificare i rapporti con l’Europa.
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