Uno squarcio improvviso e lancinante che sconvolge una tranquilla domenica pomeriggio di Palermo. Il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio si sente un fragoroso boato che riecheggia per tutta la città.
Erano gli anni in cui la meravigliosa città siciliana si era tramutata in una sorta di Beirut. Le bombe si sentivano spesso in quell’epoca. Nemmeno due mesi prima a saltare in aria era stato un altro famoso magistrato, Giovanni Falcone, che tornava a casa sull’autostrada di Capaci.
Un attentato devastante che ha fatto saltare in aria un’autostrada, fatto mai avvenuto in Italia. Sotto quel maledetto viadotto sono stati piazzati quindici quintali di esplosivo di tipo militare.
Mettiamo da parte questa informazione perché essa ci tornerà utile nel corso di questa analisi per comprendere qual è il filo rosso stragista che lega Capaci a via D’Amelio e che non porta certo nelle masserie di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Porta altrove, nei depositi militari della NATO dove è detenuto quel tipo di esplosivo.
Questa è solamente la prima di una lunga serie di anomalie che porta molto lontano dalla pista mafiosa.
Impossibile pensare che siano stati trasportati quindici quintali di esplosivo nei giorni precedenti al 23 maggio del 1992 senza che nessuno vedesse nulla.
Se è impossibile pensare che nessuno abbia visto i camion che trasportarono tale enorme quantitativo risulta molto anche difficile da credere che gli uomini che lo installarono sotto il viadotto potevano essere semplice manovalanza mafiosa ma piuttosto uomini con una formazione specifica addestrati a maneggiare quel potente e micidiale materiale.
Così muore Giovanni Falcone in un attentato che sconvolge l’Italia e il mondo e nemmeno sessanta giorni dopo viene ucciso anche il suo fraterno amico che aveva costruito a Palermo il primo vero pool antimafia della storia d’Italia, inviso al resto della ipocrita magistratura italiana che verserà le solite lacrime di coccodrillo ai funerali dei due magistrati quando nel corso della loro carriera è stata la prima a pugnalare alle spalle entrambi.
Si pensi solamente al celebre tradimento che il sistema correntizio dei togati inflisse a Falcone quando nel 1988 gli sbarrò la strada per divenire il capo della procura di Palermo preferendogli Antonino Meli che si diede alquanto da fare invece per smantellare l’eredità del pool antimafia.
A distanza di più di 30 anni ogni anno i vari esponenti delle istituzioni si radunano nelle consuete e consunte celebrazioni di rito dei due magistrati nelle quali l’unica cosa che riluce è l’assoluta assenza di volontà di risalire ai veri mandanti di quelle stragi.
Ma la verità sulla morte di Paolo Borsellino non può essere trovata senza prima risalire alle menti della strage di Capaci dal momento che i due delitti sono strettamente legati e probabilmente ordinati dagli stessi mandanti.
L’inchiesta di Falcone sui fondi neri del PCI
A Roma, Giovanni Falcone non si stava occupando di mafia da diverso tempo. Era divenuto direttore generale degli Affari Penali sotto il ministero presieduto dal socialista Carlo Martelli prima che iniziasse la stagione di Mani Pulite che portò alla fine del PSI di Craxi e di un’intera classe politica.
Il mondo stava cambiando all’epoca ad una velocità impressionante. Un cambiamento voluto e guidato da determinati ambienti atlantici che avevano deciso che era giunto il momento di chiudere la stagione della cortina di ferro e di abbandonare la contrapposizione controllata tra i due blocchi.
A Mosca, regnava il caos. La stagione di Gorbachev, uomo della perestroika e considerato il vero liquidatore dell’URSS si era conclusa soltanto un anno prima.
L’ex segretario del PCUS sembrava aver assolto in pieno alla sua missione di “rinnovamento” dell’Unione Sovietica che lo aveva reso così popolare tra gli ambienti frequentati dalle élite Occidentali, soprattutto il gruppo Bilderberg.
Ora la Russia si ritrovava senza una classe dirigente e al centro di una furiosa guerra tra bande. Delle bande che avevano delle profonde e strette entrature con la finanza Occidentale e che stavano letteralmente depredando il Paese.
Al Cremlino, c’era il presidente Boris Eltsin che era considerato poco più che un fantoccio nelle mani della CIA e dello stato profondo di Washington.
C’erano però uomini nella nomenclatura russa che volevano salvare il tesoro della Russia e impedire quella massiccia ondata di privatizzazioni che sono state considerate da alcuni come il più grosso furto della storia, superiore persino forse all’altra grande ruberia delle partecipazioni statali dell’Italia eseguita dagli ineffabili Mario Draghi e Giuliano Amato per conto della finanza anglosassone a bordo del Britannia.
Uno di questi uomini che voleva impedire il saccheggio era l’ex ambasciatore russo, Your Adamishin, che sconvolto e furioso chiese aiuto al presidente Cossiga per fermare quel saccheggio.
L’Italia aveva un ruolo chiave in questa storia perché tutto il tesoro del partito comunista dell’Unione Sovietica, il PCUS, stava lasciando Mosca per essere depositato in società di copertura italiane che erano direttamente legate all’ex PCI, già divenuto in quegli anni PDS e prescelto da Washington negli anni precedenti per traghettare l’Italia verso la prigione di Maastricht e del famigerato “vincolo esterno”.
Cossiga non lasciò cadere nel vuoto la richiesta di aiuto dell’ambasciatore e chiamò Andreotti, allora presidente del Consiglio per approntare un piano e aiutare i russi.
Viene deciso quindi di contattare Giovanni Falcone che inizierà ad interessarsi del caso per poi stabilire una stretta collaborazione con il suo omologo russo, il procuratore Valentin Stepankov.
Falcone e Stepankov sviluppano una reciproca simpatia e stima sin dai primi momenti e sono determinati a scoprire i nomi di coloro che stavano riciclando quella enorme massa di capitali che era passata per l’Italia.
Le cifre sono di quelle da capogiro. Si parla di 989 miliardi di lire di fondi neri che sarebbero transitati da Mosca a Roma e tali fondi non erano altro che i finanziamenti illeciti dell’ex partito comunista italiano.
Per decenni, il PCI era stato un satellite controllato dal Cremlino che eseguiva ordini e istruzioni del PCUS che finanziava il primo solo a patto che fosse rispettata la politica imposta da Mosca.
L’inchiesta stava decollando e Giovanni Falcone aveva in programma un viaggio a Mosca nei primi di giugno del 1992.
Quel viaggio non ebbe mai luogo. Falcone venne fatto saltare in aria il 23 maggio del 1992 e la sua vita venne spezzata prima che potesse arrivare ad una verità che faceva paura ad ambienti potentissimi, menti molto più raffinate della mafia, come amava dire lo stesso magistrato siciliano.
A compiere il viaggio che avrebbe dovuto fare Giovanni Falcone furono invece altri uomini. A Mosca andarono i magistrati Ugo Giudiceandrea, Luigi De Ficchy e Franco Ionta assieme al generale dei carabinieri Antonio Ragusa e il generale della Finanza Nicolò Pollari.
Sono nomi che troveremo poi nelle cronache degli anni successivi. Pollari divenne direttore del SISMI sotto il governo Berlusconi e venne coinvolto nella vicenda del sequestro di Abu Omar nel 2003. Erano gli anni nei quali la CIA eseguiva le famigerate “extraordinary rendition”, ovvero quei rapimenti illegali di personaggi sospettati di appartenere a gruppi islamisti.
Per fare tali operazioni l’intelligence americana si serviva della collaborazione di quelle dei Paesi Occidentali, e nel caso dell’Italia ciò non costituiva un ostacolo particolare dal momento che lo stato profondo italiano e il suo apparato di intelligence non sono altro che dal dopoguerra un feudo dell’anglosfera.
Ragusa invece lo ritroveremo coinvolto in una vicenda che lo vede condannato nel 2016 per corruzione per aver fornito un appalto di informatizzazione che poi beneficiò suo genero.
Il nome del magistrato Luigi De Ficchy verrà fuori in un altro scabroso caso per la magistratura italiana, quello che riguarda Luca Palamara, accusato di pilotare le nomine dei vari magistrati nelle varie procure italiane.
Secondo quanto riferisce Palamara stesso, fu proprio De Ficchy ad informarlo della inchiesta che lo riguardava.
Non sorprende che dal viaggio di questa delegazione non venne fuori praticamente nulla. A De Ficchy, Giudiceandrea, Ionta, Pollari e Ragusa venne offerta la possibilità unica di accedere alle carte di Mosca ma apparentemente non seguirono le tracce di Falcone visto che l’inchiesta finì nel solito “porto delle nebbie”, l’espressione che venne coniata per descrivere la scarsa solerzia investigativa della procura di Roma.
Borsellino era pronto a proseguire l’inchiesta di Falcone
C’era soltanto un uomo che poteva seguire le tracce di Giovanni Falcone e quello era Paolo Borsellino.
Francesco Cossiga rivelò che Falcone aveva intenzione di coordinarsi con Borsellino per portare avanti quell’inchiesta.
Falcone era privo dei poteri inquirenti che gli avrebbero consentito di emettere mandati di cattura o sequestrare conti correnti ma attraverso Borsellino che era ancora magistrato avrebbe potuto far vedere la luce a quell’indagine.
Quando Falcone fu ucciso, Borsellino disse di aver “capito tutto” sulla morte del suo fraterno amico e di avere fretta perché il tempo era contro di lui. E in quel tutto non c’è probabilmente la favola che un certo mondo dell”antimafia” liberal-progressista e i vari organi di stampa hanno raccontato.
In quel tutto non c’è l’assurdo depistaggio che voleva Berlusconi e Dell’Utri come mandanti occulti degli attentati dal momento che non avevano né l’interesse né i mezzi per mettere in atto delle operazioni del genere.
In quel tutto c’era la pista internazionale. Se l’inchiesta fosse arrivata a compimento, non sarebbe probabilmente rimasto nulla di via delle Botteghe Oscure.
A pagina dieci del Corriere della Sera c’è un articolo del 4 giugno 1992 intitolato “I fondi neri dei comunisti” che dà un’idea delle conseguenze che quell’inchiesta avrebbe potuto creare.
L’articolo “dimenticato” del Corriere della Sera sui fondi neri del PCI
Nell’articolo si parla del viaggio della delegazione italiana citata sopra a Mosca.
Viene descritto in particolare il complesso meccanismo di riciclaggio di denaro dal PCUS al PCI attraverso una fitta rete di società ombra.
Il passaggio che segue dell’articolo è alquanto rivelatore.
“In varie occasioni i fondi non venivano accreditati in Italia, ma su banche estere. Se le carte dei russi sono veritiere, dal punto di vista giudiziario non si configura solo il reato di violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Ci sono anche illeciti tributari e falsi in bilancio. Dai documenti pare che risulti una clausola speciale. Se venisse confermata sarebbe un fatto clamoroso. Si tratta di questo: i soldi arrivavano a condizione che il PCI seguisse in certe occasioni la linea dettata da Mosca.”
Le conseguenze per il PDS post-comunista avrebbero potuto essere devastanti.
Il PDS prescelto come nuovo interlocutore dell’anglosfera
Dunque si tratta di questo. L’inchiesta di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbe potuta arrivare al PDS, uno dei vari nomi che il serpentone dell’ex PCI ha adottato nel corso degli ultimi 30 anni nel tentativo probabilmente di non farsi riconoscere dai suoi elettori.
La svolta della Bolognina di tre anni prima aveva cambiato nome al partito ma i dirigenti restavano gli stessi.
I dirigenti restavano personaggi come Achille Occhetto, Giorgio Napolitano e Massimo D’Alema.
Il nuovo PDS ispirato alla sinistra democratica americana poteva morire nella culla e questo non era affatto gradito agli ambienti dell’anglosfera che governavano l’Italia da quasi 80 anni.
I piani di tali poteri erano ben diversi. La magistratura italiana, da sempre quinta colonna di questi ambienti, si era attivata e stava già attuando a Milano la rivoluzione colorata di Mani Pulite.
Era necessario disfarsi della vecchia classe politica perché questa veniva considerata non più affidabile da Washington per passare alla fase successiva del piano stabilito dal Club di Roma per l’Italia negli anni 70.
L’Italia doveva morire e tutta la sua ricchezza economica, culturale e spirituale le andava portava via.
Servivano non tanto dei politici ma dei commissari liquidatori e gli uomini del centrosinistra hanno assolto in maniera “egregia” a tale compito.
La vecchia Prima Repubblica nonostante fosse una diretta emanazione dello stato profondo americano aveva un perimetro più ampio che consentiva all’Italia di avere un suo spazio di sovranità, seppur limitato.
Quando valenti politici e uomini di Stato provarono a portare l’Italia al di là del solco che le era stato assegnato dai suoi referenti d’Oltreoceano, il destino che incorreva loro era quello della morte.
È quello che capitò ad Enrico Mattei ucciso in un attentato bomba che fece esplodere il suo aereo – uno dei metodi di esecuzione privilegiati dalla CIA – ed è quello che capitò ad Aldo Moro quando fu ucciso nel 1978 dopo essere stato già minacciato due anni prima da Henry Kissinger, uomo forte del gruppo Bilderberg e del Council on Foreign Relations che ha deciso tutti i presidenti americani degli ultimi 100 anni, con l’eccezione di Trump, nemesi di tali apparati.
L’inchiesta sui fondi neri del PCI poteva mandare a monte tutto quel disegno. Poteva spazzare via quel PDS che era divenuto il nuovo referente dell’anglosfera in Italia.
Ciò com’è noto non avvenne. Il braccio sinistro della globalizzazione quando salirà al potere negli anni successivi farà esattamente ciò che volevano i circoli della finanza londinese e newyorchese. Privatizzò tutto quello che c’era da privatizzare e Massimo D’Alema fece di questa svendita un fiore all’occhiello del suo governo negli anni 90.
Una volta iniziato il saccheggio del tesoro dei russi a Mosca, a Roma alla stessa velocità altri predoni si impossessavano del tesoro degli italiani.
L’Italia e la Russia sono accomunate anche da questo comune calvario che le ha viste entrambe vittime degli assalti degli incappucciati senza volto del mondo della finanza.
Tutti e due i Paesi bevvero l’amaro calice del tradimento da parte delle loro classi politiche che decisero di abdicare la sovranità nazionale per sacrificarla sull’altare dei poteri della rete mondialista.
Falcone e Borsellino sfidarono il potere dell’anglosfera
Questi furono dunque i poteri che sfidarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sfidarono i poteri che hanno reso l’Italia uno stato vassallo dal 1943 in poi. Andarono oltre il perimetro assegnato a coloro che invece hanno servito i padroni dell’anglosfera.
Quando Paolo Borsellino saltò in aria, si rinvenne sul luogo del delitto lo stesso tipo di esplosivo militare che fu utilizzato per la strage del rapido 904 nel 1994 e che fu utilizzato a Capaci e per le stragi contro il patrimonio artistico del 1993 a Roma, Milano e Firenze.
L’attentato a Borsellino ha uno stretto legame operativo con gli anni della strategia della tensione.
È sempre la stessa tecnica militare e sempre lo stesso tipo di esplosivo. Si vede chiaramente sempre la stessa mano delle sfere atlantiche ma la magistratura ovviamente si guarda bene dal dare un volto a coloro che muovono quella mano.
Come si è guardata bene dal dare un volto e un nome ad un uomo che il giorno della strage di via D’Amelio era lì ma non per conto della mafia.
A pochi minuti dall’esplosione, in mezzo ai cadaveri maciullati di Borsellino e della sua scorta, si aggirava un uomo dei servizi segreti a via D’Amelio.
L’uomo non pensava a quanto accaduto. Non era sconvolto di trovarsi in mezzo a quella carneficina. La sua preoccupazione era un’altra. Cercava una borsa nella quale il magistrato custodiva la sua ormai leggendaria agenda rossa nella quale annotava tutte le intuizioni e i passaggi delle sue inchieste.
E su quell’agenda rossa c’erano forse i nomi di coloro che in Italia stavano riciclando i fondi neri del PCUS e i nomi di coloro che avevano preso parte alla più grande ruberia della storia.
L’agenda è stata fatta sparire dagli stessi apparati che attuarono la strage. Ma la memoria, quella vera non quella lavata dai media e dall’establishment, di quanto accaduto almeno qui resta viva.
L’Italia e gli italiani hanno un debito con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E tale debito può essere onorato soltanto dicendo la verità su quei mandanti atlantici che hanno insanguinato per troppi anni l’Italia e che hanno tenuto in ostaggio questo Paese per 80 anni.
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