Due guerre
di Enrico Tomaselli - 30/07/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/due-guerre
Fonte: Giubbe rosse
Apparentemente,
sono in atto due guerre, una guerreggiata, sul campo di battaglia, ed
un’altra cognitiva, per le menti ovunque nel mondo. In un contesto in
cui tutti i soggetti convengono che quella in atto è a tutti gli effetti
una guerra ibrida,
e che quindi queste due guerre sono in realtà solo due facce della
stessa medaglia, potrà suonare strana l’affermazione che, invece, sono
in un certo qual senso due guerre distinte.
È
interessante notare che l’occidente parla di guerra dell’informazione, e
lo fa nella convinzione che la stia vincendo (il direttore della CIA
William Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti, dichiarando che “la Russia sta perdendo la guerra dell’informazione sull’Ucraina”).
Sul versante opposto, Andrei Ilnitsky, un importante stratega
consigliere del Ministero della Difesa russo, parla invece di guerra cognitiva (mental’naya voina). Ad un primo sguardo, può sembrare che dicano la stessa cosa, solo con termini diversi, ma non è esattamente così.
Burns pone infatti il focus sul come tale
battaglia viene portata avanti, che è appunto – e ben lo sappiamo – un
esercizio totalizzante di propaganda: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta… Dal canto suo, Ilnitsky si focalizza invece sul cosa, sull’obiettivo che si vuole conseguire, ovvero la capacità di distinguere e comprendere.
Ma,
ben più importante, è qualcosa che ancora sfugge a questa, pur diversa,
lettura. Ed è la dimensione spaziale. Il conflitto in atto, infatti,
non è una questione che riguarda soltanto i diretti contendenti; è una prova di forza,
il cui valore (ed il cui esito) non stabilisce meramente i rapporti tra
gli schieramenti ostili, ma tra questi ed il mondo intero. Se, dunque,
il campo di battaglia della guerra guerreggiata è limitato all’est europeo, quello della guerra cognitiva non ha limiti.
Come
in ogni conflitto, c’è ovviamente un intreccio tra le due guerre. La
propaganda serve fondamentalmente ad ottenere il sostegno (politico,
materiale, morale) alle proprie forze in campo. Ed è quindi rivolta
essenzialmente al proprio fronte interno.
Ma serve anche a creare un clima internazionale ostile all’avversario.
Se guardiamo a questi due aspetti, l’affermazione di Burns risulta
totalmente fallace.
Per quanto riguarda il fronte interno occidentale (USA, Europa, Ucraina), nonostante un uso spregiudicatamente violento della
propaganda, risulta abbastanza evidente che il sostegno alla guerra (ed
a chi l’alimenta e la vuole) è a dir poco scarso; la popolarità dei
leader occidentali è pressoché ovunque assai bassa, a partire da quella
di Biden. Viceversa, per quanto il fronte interno russo non sia
ovviamente graniticamente compatto, è altrettanto evidente che il
sostegno alla guerra, ed ancor più alla leadership, è molto più alto che
in occidente.
Quanto alla dimensione internazionale, l’accelerazione di innumerevoli processi di smottamento geopolitico rende plasticamente evidente che la guerra cognitiva occidentale ha fallito.
Come
ho avuto modo di sostenere precedentemente, uno dei grandi problemi con
cui deve fare i conti l’occidente, in questo frangente storico, è la
propria straordinaria supponenza. È ovviamente qualcosa che ha a che
vedere con la storia, con la narrazione storica che l’occidente si è
costruito nei secoli, e di cui il suprematismo americano non è che l’ultima manifestazione.
Nonostante
un certo dilagare di pensiero autocritico (sul colonialismo, sul
razzismo ad esso connesso, etc), si tratta comunque di una
manifestazione di superiorità (se lo diciamo noi che il colonialismo è
cattivo, allora è così…), che peraltro lascia inalterati i reali
rapporti presenti tra occidente e resto del mondo. La frase di Borrell
sul giardino e la giungla, voce dal sen sfuggita, è chiaramente
paradigmatica del pensiero profondo delle classi dirigenti occidentali.
Questo enorme problema cognitivo si
traduce non soltanto nella convinzione della propria superiorità –
morale, politica, tecnologica – ma, conseguentemente, anche in una
pericolosa distorsione percettiva.
Durante la golden age del dominio occidentale, ed ancor più dopo la caduta dell’URSS, il cuore dell’occidente – ovvero l’impero statunitense
– ha esercitato il suo potere globale attraverso una proiezione
militare mai vista nella storia, attraverso un esercizio ricattatorio
dell’economia e della finanza e, non da ultimo, attraverso il soft power della
sua gigantesca industria della comunicazione (1). Attraverso questo, ha
diffuso la propria filosofia di vita, il proprio modello culturale e
politico, facendone – appunto – il modello cui tendere, universalmente.
Lo
scoppio del conflitto ucraino – che è assai più di una delle tante
guerre occidentali, ma un passaggio cruciale della storia – ha cambiato
radicalmente le cose, e poiché la posta in gioco è elevatissima, si è
reso necessario passare dal soft power all’harsh power: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta…
Ma
questa operazione era possibile soltanto all’interno dell’occidente. E
la sua leadership non si è resa conto né di questo scarto, né delle sue
conseguenze.
In
un certo senso, è come se l’occidente, avvertendo la minaccia del
proprio declino, avesse indossato l’armatura, approntandosi alla guerra.
Ma l’armatura non è solo uno strumento di difesa, è anche qualcosa che
condiziona la postura – non solo fisica – di chi la indossa; e la
visuale attraverso la celata dell’elmo risulta limitata.
Fuor
di metafora, la scelta bellicista dell’occidente, il suo rinchiudersi
in una prospettiva militare (la NATO-armatura), con la conseguente
militarizzazione di ogni ambito civile (l’UE,
l’universo mediatico…), hanno dato vita e forma alla sua stessa
distorsione percettiva. Il cui apice si raggiunge nel momento in cui la
narrazione propagandistica – elaborata in funzione del consenso interno –
si insinua nella percezione delle leadership, mischiandosi e
confondendosi con la realtà fattuale.
Questa
percezione falsata crea un pericoloso meccanismo di autoinganno, i cui
minacciosi riflessi riverberano sulla condotta della guerra, e possono
tradursi non soltanto in un tracollo dell’occidente stesso, ma in una
disastrosa deriva che dilata la guerra nel tempo e nello spazio.
Tra
tali riflessi possiamo sicuramente annoverare quelli che spingono a
mettere in atto disegni tattici e strategici privi di fondamento reale.
Tale ad esempio è stata la convinzione di poter mettere in ginocchio la
Russia in breve tempo, e quindi di non aver completamente considerato
che – qualora questa ipotesi si fosse rivelata infondata – sarebbe stato
necessario essere in grado di reggere uno scontro prolungato. La realtà
dei fatti si è incaricata di distruggere questa convinzione, con il
risultato che la Russia vede crescere rapidamente la propria produzione
industriale militare (oltre a poter contare su sterminati arsenali
sovietici), mentre l’occidente ha esaurito le sue disponibilità ed è in
forte affanno.
Ugualmente, le pressioni
cui sono stati e sono sottoposti gli ucraini affinché sferrassero
un’offensiva in grado di cambiare il quadro generale, nonostante fosse
ben nota sia la schiacciante superiorità difensiva russa, sia la
mancanza dei presupposti tattici per il successo (artiglieria
insufficiente, assenza di copertura aerea); pressioni dovute ad esigenze
politiche occidentali, e cinicamente indifferenti al massacro degli
ucraini, ma anche determinate dalla (solita) convinzione che armi e
tattiche occidentali avrebbero assicurato il successo di per sé.
La grande scacchiera
Ma
è l’intero sguardo occidentale al conflitto, ad essere falsato. Sia in
ordine alle aspettative che in ordine alla valutazione complessiva della
situazione sul campo.
Al di là degli esiti disastrosi degli ultimi due momenti rilevanti della guerra (caduta di Bakhmut, 50 giorni di controffensiva), permane l’idea dello stallo,
ovvero che la spinta di entrambe le forze sul campo di battaglia sia in
esaurimento, e che vi sia un sostanziale bilanciamento, tale da
determinare appunto una condizione di stasi sostanziale. Idea sulla cui
base da tempo si accarezza l’idea del congelamento coreano, ovvero la trasformazione dello stallo bellico in sospensione delle ostilità.
Ma,
ancora una volta, siamo anche qui in presenza di una distorsione
percettiva. Si potrebbe quasi dire di una sovrapposizione della propria
immaginazione sulla realtà. Realtà che infatti ci dice non esserci
alcuno stallo, e che – conseguentemente – non vi è spazio per alcun congelamento.
All’origine di questa percezione di stasi, c’è da un lato un portato culturale, che ha appunto a che vedere col nostro immaginario (la guerra come movimento), e dall’altro una visione decisamente antica della
guerra stessa, come se fosse incentrata sulle conquiste territoriali
(o, per usare un’espressione dell’ex-diplomatico indiano M.K.
Bhadrakumar (2), su “Westphalian principle” (3)). Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con ciò che sta realmente accadendo in Ucraina.
Innanzitutto,
il fatto che la linea del fronte non abbia subito mutamenti radicali
negli ultimi mesi, non significa che vi sia un equilibrio delle forze.
Questa lettura, infatti, adotta una chiave interpretativa basata sulle
variazioni chilometriche, ignorando quelle assai più sostanziali.
Una
lettura complessiva non può non tener conto del fatto che le perdite
(umane e materiali) di parte ucraina sono spaventose, così come del
fatto che questa è sotto attacco non soltanto lungo la linea di
contatto, ma sull’intero paese.
Inoltre,
a limitare l’iniziativa offensiva russa non è tanto una questione di
equilibrio della forze (che non esiste, sotto alcun profilo), quanto una
scelta strategica: non offrire agli ucraini il vantaggio derivante da
una grande offensiva (che implicherebbe grandi perdite), e sfruttare
appieno la totale superiorità aerea.
Contrariamente alla narrazione corrente nel NATOstan occidentale, non c’è dunque alcuno stallo nei combattimenti. Questo misunderstanding rischia
però di riverberarsi anche su un possibile percorso che cerchi una via
d’uscita al conflitto. Va da sé, infatti, che non è possibile avviare un
qualsiasi negoziato, se una delle due parti ignora sia l’effettiva
situazione sul campo, sia gli obiettivi della controparte. Perché
ovviamente se si guarda alla guerra in corso come una mera questione
territoriale, ne discende che gli interessi russi possano essere
abbastanza soddisfatti da quanto già ottenuto, e ciò può quindi essere
posto a base di un negoziato.
Al tempo stesso, e per converso, la medesima chiave di lettura può indurre a ritenere che lo stallo sia
dovuto all’incapacità russa di fare di più, e che quindi sia in realtà
ancora possibile ribaltare la situazione in favore di Kiev, attraverso
un intervento diretto della legione baltico-polacca (effettivamente in via di costituzione). Questa è ovviamente l’ipotesi prediletta dalle frange ultrà dei neocon statunitensi.
Sostanzialmente
dismessa, per quanto malvolentieri, l’ipotesi della vittoria ucraina, e
di fronte alla necessità di porre fine al conflitto prima che
l’esaurimento delle risorse belliche occidentali superi il livello di
guardia, per le leadership occidentali – o per meglio dire, per quelle
anglosassoni, le uniche che contano – la questione si pone nei termini
di riduzione del danno. Come uscire dal cul de sac, salvando il salvabile – ovvero, in ultima analisi, la faccia.
Le uniche due opzioni attualmente prese in considerazione sono, appunto, quella (irrealistica) del congelamento coreano, e quella del rilancio bellico, attraverso l’intervento diretto polacco.
Questa
ipotesi è ovviamente vista come il fumo negli occhi a Mosca, in quanto
avvicina pericolosamente il rischio di un confronto diretto con la NATO.
Se pure inizialmente questa legione si
limitasse a presidiare l’Ucraina occidentale, ovviamente quel
territorio (formalmente ucraino, ma sotto controllo di truppe NATO,
aviazione e sistemi di difesa antiaerea compresi) diventerebbe una
retrovia intoccabile,
di fatto sottratta alla possibilità di essere colpita dalle forze
aerospaziali russa. A meno che queste non accettassero il rischio che
Varsavia o Vilnius si appellino all’art.5 dell’Alleanza Atlantica.
E
che tutto sommato questa sia ritenuta la scelta più probabile,
sembrerebbe confermato sia dallo spostamento della PMC Wagner in
Bielorussia, sia dal vertice pubblico tra Lukashenko e Putin, sia dalle dichiarazioni rilasciate dai due.
Che
in effetti, al di là della concordia di facciata, potrebbero però avere
visioni diverse in materia. Se infatti per Minsk un rafforzamento
baltico-polacco più ampiamente vicino ai propri confini viene percepito
come minaccioso, per Mosca l’ipotesi di uno smembramento ulteriore
dell’Ucraina potrebbe alla fin fine non essere il peggiore dei mali.
Qualora la presenza militare polacca non sfociasse infatti in conflitto
aperto e diretto, un’ulteriore divisione del paese non sarebbe solo
negativa. Potrebbe infatti diventare la base realistica per una ipotesi
negoziale, che veda la regione occidentale della Galizia inglobata de facto nella
Polonia (quindi nella NATO), ma che lascerebbe tutti i territori tra
qui ed il Donbass (ad est) e la riva sinistra del Dniepr (a sud), come
stato ucraino sovrano e neutrale.
Venticinque anni dopo, si sta insomma ancora giocando la partita descritta (ed in fondo aperta) da Zbigniew Brzeziński nel suo “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives”, ma le possibili mosse sulla scacchiera si fanno sempre meno, e quindi sempre più nervose.
1 – Dell’importanza di questo fattore sembra essersi resa conto anche Mosca, che dalla fine dell’era sovietica (e quindi della esportazione del comunismo) non si era mai posto il problema. Al recente Russia-Africa Economic and Humanitarian Forum di
San Pietroburgo, invece, si sono fatti passi da gigante in tal senso.
Nel suo discorso ai partecipanti, Putin ha sostenuto che la Russia e
l’Africa dovrebbero creare uno spazio informativo comune, e che “si sta già lavorando per aprire uffici dei principali media russi in Africa: L’agenzia di stampa TASS, Rossiya Segodnya [gruppo mediatico che comprende RIA Novosti e Sputnik], il canale televisivo RT, l’emittente radiotelevisiva di Stato russa, Rossiyskaya Gazeta [giornale]“.
Dichiarazione accolta con favore dai convenuti; Gregoire Ndjaka, capo
dell’Unione africana delle radiodiffusioni (AUB), ha infatti dichiarato
che “siamo aperti alla cooperazione con tutti i media russi. Siamo pronti ad accoglierli in Africa”. Tra l’altro, nel Forum è stato detto che la Russia prevede di aprire filiali delle sue principali università nei Paesi africani.
2 – Cfr. “Glimpses of an endgame in Ukraine”, M.K. Bhadrakumar, Indian Punchline
3 – Il riferimento è alla Pace di Westfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trent’anni ed
a quella tra Spagna e province dei Paesi Bassi. Il senso è che i
principi ispiratori dei tre trattati stipulati in quella occasione si
fondavano, a conti fatti, su una profonda ridefinizione dei confini tra
gli stati. Cfr. Pace di Westfalia, Wikipedia
Nessun commento:
Posta un commento