Se Votare Facesse Qualche Differenza, Non Ce Lo Lascerebbero Fare
“Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare.”
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Una citazione che troppo spesso, e in maniera del tutto errata, viene attribuita allo scrittore e umorista statunitense Mark Twain. In verità la frase in questione sembra essere senza paternità, calata dall’alto da chissà chi come una spada di Damocle sulle moderne nazioni occidentali, perennemente asserragliate nei loro particolarismi e campanilismi, mentre si scoprono improvvisamente coese e, al tempo stesso, divise alla vigilia delle elezioni politiche. Una citazione senza paternità, appunto, ma con un gran fondo di verità.
Nulla come una tornata elettorale, infatti, riesce ad infiammare gli animi di coloro che ricercano e affermano la propria identità attraverso lo strumento del voto.
Votare rappresenta, agli occhi dell’elettore medio, un atto solenne,
tramite il quale il singolo afferma se stesso (andando a definirsi per somiglianza
con chi la pensa come lui) e, al tempo stesso, riscopre quel senso di
comunità che rende possibile la sua presenza nel mondo, in qualità di
cittadino.
Non c’è da stupirsi, dunque, se alla vigilia di ogni
elezione politica, il Paese venga pervaso da un fremito estatico che
vede i cittadini schierarsi in fazioni, dibattere
animatamente per le strade o nei bar e sognare scenari di rivalsa e
riscossa, in caso di vittoria del proprio partito di riferimento.
L’immagine che spinge la popolazione, lustro dopo lustro, in direzione delle urne è quella che dipinge ai loro occhi uno scenario idilliaco, in caso di vittoria della loro fazione e, per converso, una sorta di emanazione infernale, in caso di successo degli “altri”. Ci si reca alle urne nell’illusione di salvare la civiltà dalla barbarie, di contribuire alla creazione di un mondo più giusto e libero, di scongiurare drammatici scenari economici e di ricacciare in un polveroso armadio quei fantasmi del passato che vengono puntualmente evocati dai politici per tenere alta la soglia dell’attenzione, e per dare vigore alla infinita crociata contro i mulini a vento.
Ma per una legge del contrappasso, tanto grande è l’entusiasmo che
pervade il Paese intero, quanto immensa è la rassegnazione di fronte ad un’evidenza post-elettorale
che parla sempre la lingua della censura, della privazione, dello
sterile sacrificio, della povertà, del pensiero unico e dell’assoluta
assenza di arte e cultura nelle nostre vite.
Come un viandante
smarrito in un bosco che si lascia morire di stenti, dopo aver girato
per giorni intorno agli stessi alberi senza mai vedere una radura, il
cittadino irretito si ritrova rapidamente accartocciato sui propri sogni
e sulle proprie illusioni elettorali, intento a
domandarsi cosa possa essere andato storto in quel sogno di libertà che
spira lentamente nel buio di abeti troppo fitti per lasciar penetrare la
luce del sole.
La rassegnazione e la frustrazione perenne, di fronte al mancato mantenimento delle promesse,
al tradimento degli ideali e all’incapacità di porre rimedio a
problematiche strutturali, oltra la mera cosmesi, sono figlie di una
classe politica sempre più avulsa dalla vita reale e sempre più distante
dal produrre personalità in grado di elevarsi sopra la mediocrità
morale più assoluta.
Il vuoto delle infinite schermaglie nei salotti
televisivi (per lo più incentrate su questioni prive di qualunque
rilevanza) è l’ultima maschera della politica di fronte alla propria incapacità
di incarnarsi nel reale e di fornire risposte concrete a tutti coloro
che vorrebbero assistere ad una trasformazione autentica della propria
esistenza, in senso individuale e collettivo.
L’esploratore e scrittore norvegese Erling Kagge osserva nel suo libro “Il silenzio” che, se ci dovessimo assentare dal mondo e dai media per sei mesi di fila, ritroveremo, al nostro ritorno, la situazione politica
del tutto invariata, con i vari esponenti politici intenti a discutere
su quella serie di tematiche che nessuno intende risolvere davvero,
oltre il teatro delle opposte fazioni.
La fortuna di Kagge è
probabilmente quella di non vivere in Italia, dove il suo discorso
avrebbe valore anche se lo si riferisse ad un lasso di tempo pari a
trent’anni, anziché a soli sei mesi.
Scavando nella memoria, potremmo tutti agevolmente accorgerci di
quanto gli infiniti partiti, e movimenti, che si sono succeduti alla
guida del nostro Paese negli ultimi trent’anni, abbiano guadagnato e
perso consensi sulla scia di problematiche (tassazione, occupazione,
immigrazione sostenibile, pensioni, autosufficienza energetica,
inflazione, carovita) che sono state cavalcate a seconda della moda del
momento, senza venire mai davvero approcciate in fase di azione legislativa.
A testimonianza del fatto che se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare.
Nella loro pochezza socio-culturale, partiti e schieramenti, una volta giunti al trono di Palazzo Chigi devono fare i conti con ricatti sovranazionali,
procedure di infrazione, fondi da destinare ad amenità di varia natura,
conflitti bellici dai quali pare impossibile esimersi, mercati
energetici sempre meno eurocentrici, implosioni demografiche e con tutta
una serie di parametri già scritti che impediscono una qualunque forma di libera azione.
Accade così che i politici si trasformino, immediatamente dopo la loro elezione, in meri esecutori di volontà superiori. Il loro unico fine diventa quella ricerca di consenso e legittimazione che permetterebbe loro di proseguire a scaldare la poltrona il più a lungo possibile (con tutti i vantaggi annessi).
Quando si vota, si
sceglie qualcuno che dovrebbe rappresentare la propria visione del mondo
e le proprie necessità, ma in realtà non si fa altro che eleggere una
persona che, come un liquidatore fallimentare, rappresenta i poteri alti, poteri talmente immensi e corrotti da potere agevolmente schiacciare qualsiasi elettore in un battito di ciglia.
Nel
momento in cui riusciremo a comprendere che un segno a matita tracciato
su di una scheda colorata non rappresenta, in quanto tale, un atto di
libertà e di civiltà, allora saremo forse in grado di pretendere
coerenza, intelligenza e sentimento da tutti coloro che chiedono
elemosine perenni, senza mai dare nulla in cambio.
La nostra identità singolare e collettiva non si definisce in base al
consenso che attribuiamo ad un partito o ad una coalizione, ma è figlia
di onestà e dignità; caratteristiche che cerchiamo,
invano, di vedere riflesse in quello specchio deformante creato ad arte
da chi sostiene di rappresentarci davanti agli occhi del mondo.
Vi lascio con le parole a me care di Tiziano Terzani (dal suo libro “Un indovino mi disse”), parole che hanno il sapore di una profezia in ambito politico ed elettorale:
“Raramente l’umanità è stata, come in questi tempi, priva di figure portanti, di personaggi luce.
Dov’è un grande filosofo, un grande pittore, un grande scrittore, un grande scultore?
I pochi che vengono in mente sono soprattutto fenomeni di pubblicità e di marketing.
La
politica, più di ogni altro settore della società, specie quella
occidentale, è in mano ai mediocri, grazie proprio alla democrazia,
diventata ormai un’aberrazione dell’idea originale quando si trattava di
votare se andare o no in guerra contro Sparta e poi…di andarci davvero,
andarci di persona, magari a morire.
Oggi, per i più,
democrazia vuol dire andare ogni quattro o cinque anni a mettere una
croce su un pezzo di carta ed eleggere qualcuno che, proprio perché deve
piacere a tanti, ha necessariamente da essere medio, mediocre e banale
come sono sempre tutte le maggioranze.
Se mai ci fosse una persona
eccezionale, qualcuno con delle idee fuori del comune, con un qualche
progetto che non fosse quello di imbonire tutti promettendo felicità,
quel qualcuno non verrebbe mai eletto.
Il voto dei più non lo avrebbe mai.”
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