Anche se l’Europa, contro ogni logica, sembra indifferente ad una qualsiasi prospettiva di pace, la guerra ucraina rischia di scivolare lentamente verso una situazione di stallo, che è esattamente lo scenario peggiore per i paesi europei. Trovare una via d’uscita, che salvaguardi gli interessi europei, ma che al contempo possa risultare percorribile per i contendenti, è qualcosa che però richiede non soltanto abilità diplomatica, ma una visione anche militare del conflitto, in modo tale da poter operare affinché la situazione sul terreno non si cronicizzi – premessa indispensabile per qualsivoglia iniziativa di pace.
L’aggressore riluttante
Uno dei tanti paradossi di questa guerra è che, mentre la narrazione occidentale dipinge la Russia come un paese estremamente aggressivo, questa in realtà si rivela essere estremamente riluttante nell’uso della forza.
Se
guardiamo alla storia complessiva del conflitto, dal 2014 ad oggi,
possiamo rilevare che ogni passo compiuto da Mosca mostra una estrema
riluttanza a spingersi oltre, sia sul piano politico-diplomatico che su
quello militare. Quando, dopo il golpe di piazza Maidan e l’inizio delle
violenze anti-russe nel Donbass, la Russia si attiva rispetto alla
nascente guerra civile ucraina, lo fa sul piano diplomatico: gli accordi
di Minsk – I e II – di cui continuerà per anni a chiedere
l’applicazione, sono infatti il tentativo di risolvere la questione
senza intervenire direttamente. Intervento che arriverà solo dopo otto
anni di guerra civile, a fronte della crescente minaccia ucraina. E per
tutta una prima fase dell’operazione speciale (che si premura
di inquadrare in qualche modo all’interno di una formalità giuridica,
ex-art. 5 dell’ONU) continua a perseguire una soluzione politica; anche
dopo la svolta strategica, conseguente alla presa d’atto che la NATO
intende sviluppare un conflitto per procura, la condotta di guerra sul
campo continua ad essere improntata alla moderazione. Persino
sulla stampa statunitense gli analisti militari constatano (1) questo
approccio basato sull’auto-limitazione nell’uso del proprio potenziale
bellico. Approccio che rimarrà immutato nel corso dei sette mesi di
guerra, e che caratterizza non solo la condotta bellica, ma anche la
linea politico-diplomatica. Benché già da marzo-aprile vi fosse piena
evidenza non solo del coinvolgimento NATO nel conflitto, ma di come
questo rappresentasse un investimento strategico per l’Alleanza
Atlantica, questo aspetto non è mai stato sottolineato troppo, almeno
sino al momento della mobilitazione parziale dei riservisti; ed anche
allora (per quanto ovviamente vi siano evidenti ragioni per ciò) non si è
prodotta alcuna corrispondenza tra la situazione descritta e la
concreta azione politico-militare. La stessa mobilitazione appare
obiettivamente tardiva, rispetto all’andamento della guerra.
Naturalmente,
è chiaro che si tratta di una partita giocata sul filo del rasoio, e
che l’interesse russo non è certo quello di arrivare ad uno scontro
diretto con la NATO. Purtuttavia, l’impressione è che oltre questa
giusta prudenza, vi sia per l’appunto una qual certa riluttanza
nell’assumere posizioni e comportamenti coerenti con la (peraltro
corretta) lettura del quadro generale. Cosa che, ad avviso di chi
scrive, rischia di rivelarsi un punto di debolezza, e che possa
paradossalmente portare Mosca ad assumere, domani, posizioni ben più
drastiche di quelle che oggi mostra di non voler prendere.
La mobilitazione
Prendiamo per esempio la questione della mobilitazione parziale dei
riservisti – e quella dei referendum nei territori liberati, che vi è
strettamente connessa.
Era evidente da tempo, ben prima delle due
offensive ucraine su Kherson ed Izyum, che le unità impiegate erano del
tutto insufficienti. Se consideriamo che la linea del fronte si sviluppa
lungo oltre 1.000 Km, e che le truppe impegnate nell’operazione speciale sono
complessivamente tra le 150 e le 200.000, appare abbastanza evidente
che la pur notevole supremazia dell’artiglieria russa non è affatto
sufficiente a garantirne la prevalenza strategica e tattica. Bisogna
infatti tener conto del fatto che buona parte di quegli uomini sono
impegnati nella logistica (rifornimenti, comunicazioni, sanità,
riparazioni meccaniche, etc), che un’altra parte deve necessariamente
stare nelle retrovie – sia per garantire la rotazione ai reparti di
prima linea, sia per costituire una prima riserva – e quindi quelle
unità rimaste devono coprire una sterminata linea di combattimento.
Ovviamente, soprattutto considerando che Kyev nel frattempo ha già
effettuato ben 4 scaglioni di mobilitazione, era impensabile andare
avanti con un numero così inferiore di combattenti.
La riluttanza a
mobilitare ulteriori truppe, alla fine ha fatto sì che si è dovuto
procedere in fretta, con un numero probabilmente più elevato di
richiamati rispetto a quello che sarebbe stato sufficiente tre/quattro
mesi fa, e per di più all’indomani di una sconfitta tattica (non
decisiva, ma neanche irrilevante), finendo col trasmettere l’idea che
l’esercito si trovi in serie difficoltà. Tra l’altro, anche per dare un
senso di guerra patriottica alla mobilitazione, è stato
necessario anticipare la consultazione referendaria sull’annessione alla
Federazione Russa, inizialmente prevista non prima di novembre,
nonostante che il territorio di tre oblast su quattro non sia ancora del
tutto controllato dalle forze russe.
Per quanto i 300.000 mobilitati
siano tutti riservisti, e preferibilmente con esperienza di
combattimento, è chiaro c’è un tempo tecnico – tra formazione dei
reparti, equipaggiamento, riaddestramento e dislocamento – prima che
diventino operativi, tempo che presumibilmente non potrà essere
inferiore ai 30/45 giorni; il che, a sua volta, significa che
l’effettiva operatività delle nuove unità non potrà dispiegarsi e
sortire effetti concreti prima di un paio di mesi.
Al tempo stesso, il risvolto bellico dei
referendum darà i suoi frutti nel giro di pochi giorni. Perchè, al di
là delle parole di Putin e Shoigu sulla disponibilità a ricorrere alle
armi nucleari in caso di minaccia all’integrità territoriale (parole
assai enfatizzate quanto ovvie, mentre non avevano fatto alcuno scandalo
le parole della Truss, che si dichiarava “ansiosa” di premere per prima
il bottone…), si pone una questione concreta, ovvero l’occupazione di
territorio russo da parte delle truppe ucraine. Tale infatti diventa
quello dei quattro oblast, in tre dei quali sono presenti le forze
armate di Kyev. Anche se sin dal primo momento Mosca ha parlato di
“liberazione”, in riferimento alle regioni sud-orientali dell’Ucraina, è
chiaro che questo passaggio formale cambia anche la valutazione degli
avvenimenti sul campo. In concreto, le offensive ancora in corso verso
Liman, ed i persistenti tentativi di sfondare verso Kherson, a questo
punto si configurano formalmente come un attacco ucraino alla Russia.
Difficoltà
Anche se ovviamente Mosca non lo ammette, mentre la NATO ne
ingigantisce demagogicamente la portata, è chiaro che al momento la
Russia è leggermente in difficoltà sul terreno. Questo, al netto degli
errori commessi nel settore di Kharkiv, è in buona misura dovuto alla
riluttanza pregressa di cui si è già detto, ma anche ad una ancora in
essere.
Esaminiamo quelli che al momento sono i tre settori caldi del fronte, al fine di evidenziare queste difficoltà.
Nel
settore nord-est, quello appunto di Kharkiv, l’offensiva ucraina di
inizio settembre ha travolto le deboli difese russe, prevalentemente
affidate a poche unità della Rosvguardya, che non hanno avuto altra
scelta che ripiegare, andandosi ad attestare su una linea difensiva che
corre lungo il fiume Oskil. Questa offensiva non solo ha portato alla
riconquista di una vasta area da parte di Kyev (circa 2.500 Km2),
comprese alcune città – tra cui l’importante nodo strategico di Izyum –
ma ha costretto i russi a rinculare profondamente. Per quanto, ancora
una volta, la superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione russa
abbiano inferto pesanti perdite agli ucraini, questi continuano a
tentare di accerchiare la città di Liman.
Ad oltre 15 giorni
dall’inizio dell’offensiva, i russi non sono stati ancora in grado di
lanciare una controffensiva, né relativamente ai territori persi nelle
settimane precedenti, né tantomeno per alleggerire la posizione delle
truppe asserragliate a Liman. E questo attesta appunto la difficoltà di
riprendere l’iniziativa in quel settore. Ma – e qui torna la riluttanza…
– nonostante la pressione ucraina continui, non viene fatto un uso
massiccio dell’aviazione. Dall’inizio della guerra, infatti, questa
agisce prevalentemente in supporto tattico alle unità di terra, in
genere impiegando pochi cacciabombardieri. Per quanto siano in
difficoltà, e comunque sulla difensiva, non c’è traccia – ad esempio –
di massicci bombardamenti utilizzando bombardieri d’alta quota. La
truppe ucraine quindi, sono sostanzialmente colpite soprattutto quando
entrano nel raggio d’azione dell’artiglieria, ma non nelle
concentrazioni sulle retrovie – e non in modo sistematico.
Una situazione simile si può osservare più a sud, dove invece sono i russi ad essere all’offensiva.
L’avanzata
in quel settore è assai costosa, in termini di caduti e di tempo,
giacché si tratta di un settore altamente fortificato, con linee di
difesa successive che fanno perno sui centri urbani, a loro volta
collegati da reti di formicai (linee trincerate articolate in
profondità). Anche qui osserviamo – come già s’era visto a Mariupol –
come l’esercito russo, le milizie del Donbass e la PMC Wagner,
preferiscano operare conquistando le città casa per casa, con
combattimenti sanguinosi che possono richiedere anche mesi. L’avanzata
sulla città di Bakhmut, e così prima la conquista di Soledar, impegnano i
russi da luglio. E poco più indietro di quella, c’è un’altra linea
fortificata ucraina, lungo l’asse Sloviansk-Kramatorsk, che richiederà a
sua volta altri mesi per essere presa. Eppure, anche qui, l’uso delle
forze aeree e missilistiche è limitato. Come praticamente accade dal 24
febbraio, la distruzione di infrastrutture strategiche è assai scarsa.
Anche volendo evitare di colpire quelle che hanno un più diretto impatto
sulla popolazione civile (centrali elettriche ed idriche), stazioni e
linee ferroviarie, così come ponti stradali, che sono determinanti nel
garantire l’afflusso di rifornimenti e rinforzi per gli ucraini, vengono
colpiti solo occasionalmente, e comunque non in un quadro strategico
complessivo.
Terzo esempio, nel settore di Kherson. Qui l’offensiva ucraina di
agosto si è scontrata con una resistenza molto forte, ed anche qui ha
registrato molte perdite, sia in uomini che mezzi. Purtuttavia, sul
fronte di Kryvyi Rih si era registrata una penetrazione ucraina
all’interno delle linee russe. La risposta, per certi versi geniale, è
stato il bombardamento delle dighe sul fiume Inhulets, che hanno
provocato lo straripamento delle acque e quindi l’allagamento di ampi
pezzi di territorio, mettendo fuori uso i pontoni gettati dagli ucraini
per assicurare il flusso di rifornimenti verso la testa di ponte. Il
problema è che anche qui, a parte una serie di immediate controffensive
russe, che hanno effettivamente bloccato la gran parte delle direttrici
d’attacco ucraino, sinora non è stato possibile mettere in atto una
controffensiva di più ampio respiro, in grado di ricacciare indietro le
forze di Kyev. E gli allagamenti provocati dalla distruzione delle dighe
impediscono anche alle forze russe la mobilità, rendendo praticamente
impossibile chiudere in una sacca la testa di ponte.
Volendo tirare
un bilancio complessivo, la situazione al momento è stabile, con gli
ucraini che continuano a premere in direzione di Liman a nord e di
Kherson a sud, mentre i russi proseguono la lenta offensiva verso la
linea Sloviansk-Kramatorsk.
Il rischio
Come si è visto, la leadership russa ha deciso di rompere gli indugi,
quanto meno in alcuni campi. Ha deciso di accelerare il processo di
integrazione nella Federazione delle regioni ucraine liberate, ha
ufficialmente affermato di ritenere che la NATO sia a tutti gli effetti
in conflitto con la Russia, ha avviato una mobilitazione parziale che –
con l’aggiunta dei battaglioni di volontari che si stanno costituendo in
molte repubbliche – dovrebbe portare gli effettivi operanti in
Novarussia a circa 5/600.000 uomini.
A tal proposito, come in parte
già accennato, occorre tener presente due fattori concomitanti. Innanzi
tutto, siamo ormai alle porte dell’inverno, e prima che i nuovi reparti
siano operativi anche per operazioni offensive, la stagione
fredda avrà già trasformato le pianure ucraine in pantani poco
praticabili; questo, d’altro canto, non solo rallenterà anche le forze
ucraine, ma ne trasformerà i trinceramenti in paludi inospitali. Allo
stesso tempo, va considerato che la triplicazione degli effettivi
comporterà – al netto di tutto – quanto meno un raddoppio dei mezzi
messi in campo dalle forze russe: artiglieria, carri armati, blindati e
mezzi meccanizzati.
A meno di non facili sorprese, quindi, il
potenziamento delle unità combattenti russe servirà prevalentemente in
funzione difensiva, per almeno 4/5 mesi. Mesi durante i quali gli
ucraini avranno tempo di organizzare la mobilitazione di nuovi
scaglioni, addestrare le nuove reclute con minore urgenza, e soprattutto
prepararsi per la primavera. È facilmente prevedibile che, anche grazie
a quanto stabilito in sede NATO, per allora siano in grado di schierare
almeno 100.000 uomini addestrati in Europa. Al contempo, sicuramente
migliorerà la capacità operativa più generale, nonché il coordinamento
con i comandi NATO e le intelligence militari occidentali.
In questi
mesi, dovrebbe anche maturare la capacità produttiva dell’industria
bellica americana ed europea, mettendola in grado di alimentare la fornace ucraina.
Resta da vedere se – ed eventualmente in che misura – si cominceranno a
fornire a Kyev armamenti strategici, come artiglieria a lungo raggio e
carri armati moderni. Tenuto anche conto che ormai gli arsenali di
materiale ex-sovietico si sono esauriti.
Se difficilmente vedremo cambiamenti sostanziali sul terreno nei
prossimi mesi, col ritorno della bella stagione si fronteggeranno due
eserciti potenziati rispetto alla situazione attuale. Ovviamente, in
termini generali, non c’è possibilità per l’Ucraina di sopravanzare
l’esercito russo, per quanto possa essere sostenuta dalla NATO. Il punto
è piuttosto che la Russia si è, in un certo senso, bruciata i ponti
alle spalle; a questo punto, infatti, la guerra non può concludersi
senza la completa liberazione dei quattro oblast sud-orientali, essendo
ormai fuori discussione che territori entrati formalmente a far parte
della Federazione possano domani essere oggetto di trattativa. Il che
rende assai possibile, per gli ucraini, mantenere aperta la
questione. Basta infatti che siano in grado di lanciare offensive anche
limitate, ma tali da impedire la stabilizzazione del fronte lungo la
linea di confine, od anche solo di tenere sotto costante minaccia i
territori liberati, colpendoli con artiglieria e missili come già fanno
adesso.
Di là dalla propaganda, infatti, per la NATO – e quindi per
gli ucraini – l’obiettivo principale è alimentare il conflitto,
mantenerlo aperto e costringere la Russia ad impegnarvisi a lungo.
Ipoteticamente, anche per vent’anni, com’è stato per la guerra USA in
Afghanistan.
All’opposto, anche se sicuramente la Russia è in grado
di reggere il conflitto per anni, durante i quali il logoramento
militare della NATO (almeno come mezzi) sarà uguale o superiore a quello
subito, è abbastanza evidente che suo interesse crescente è invece
concludere la guerra nel più breve tempo possibile. E questo
non può avvenire che soverchiando la capacità di resistenza ucraina, ed
anticipando l’efficacia del sostegno fornitogli dalla NATO.
Quanto
più perdurerà questa riluttanza ad usare mezzi più decisi (colpire
duramente le infrastrutture ucraine su tutto il territorio, ad esempio),
tanto più rischia di dover impiegare mezzi maggiori e più potenti per
ottenere il risultato. Insomma, sul breve-medio termine Mosca ha ancora
tutte le possibilità di conseguire una vittoria, restando in un ambito
non particolarmente a rischio; più i tempi si allungano, più una
risoluzione richiederà invece una maggiore escalation. È questo
fondamentalmente il nodo che deve essere sciolto a Mosca. A meno di non
contemplare la sconfitta – anche solo parziale.
1 – “The heart of Kyiv has barely been touched. And almost all of the long-range strikes have been aimed at military targets”, come dichiarato a Newsweek da un senior analyst della Defense Intelligence Agency (DIA). Cfr. Putin’s Bombers Could Devastate Ukraine But He’s Holding Back. Here’s Why [https://www.newsweek.com/putins-bombers-could-devastate-ukraine-hes-holding-back-heres-why-1690494]
“in 24 days of conflict, Russia has flown some 1,400 strike sorties and delivered almost 1,000 missiles (by contrast, the United States flew more sorties and delivered more weapons in the first day of the 2003 Iraq war). The vast majority of the airstrikes are over the battlefield, with Russian aircraft providing ‘close air support’ to ground forces. The remainder—less than 20 percent, according to U.S. experts—has been aimed at military airfields, barracks and supporting depots”. In Putin’s Bombers Could Devastate Ukraine But He’s Holding Back. Here’s Why, Newsweek, ibidem
Cfr. anche: Graham T. Allison (Douglas Dillon Professor of Government at the Harvard Kennedy School, and former director of Harvard’s Belfer Center), Amos Yadlin i(former Chief of Israel’s Defense Intelligence and a Senior Fellow at Harvard University’s Belfer Center for Science and International Affairs) in: “Piercing the Fog of War: What Is Really Happening in Ukraine?”, su nationalinterest.org [https://nationalinterest.org/feature/piercing-fog-war-what-really-happening-ukraine-201440]
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