Nella prima intervista del marzo scorso, con un successo di letture e critica straordinario, il generale Mini aveva offerto al pubblico de l’AntiDiplomatico uno spaccato completo di quello che sarebbe accaduto per la miopia dell’approccio Ue e Nato nel conflitto ucraino. La lettura è altamente consigliata anche oggi.
A quattro mesi di distanza torniamo a sollecitare le riflessioni del Generale Mini, in una fase che appare drammaticamente decisiva per il futuro degli interessi strategici nazionali e più in generale per la tenuta delle relazioni internazionali.
INTERVISTA
Generale nella precedente intervista a l’AntiDiplomatico del 10 marzo lei dichiarava che per uscire dall’impasse l’Italia, cito testualmente, avrebbe dovuto: “Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.” 4 mesi dopo che cosa si sente di aggiungere a questa affermazione?
Soltanto una constatazione: il superamento della crisi si allontana ogni giorno di più. Le iniziative di pace sono sempre di meno e mentre la via per il disastro sta diventando un’autostrada, quella per la fine del conflitto non solo è un sentiero di montagna, ma è anche bloccato da un masso enorme fatto d’interessi contrastanti e cinismo.
Sempre in quell’intervista a l’AntiDiplomatico, a proposito delle armi che l’Italia ha iniziato ad inviare all’Ucraina da aprile con la delega in bianco conferita al governo dal Parlamento, Lei profetizzava come queste avessero reso “più sanguinoso” il conflitto. È stato così e in che mani possono essere finite le armi italiane?
Mi sembra che i fatti parlino chiaro e comunque le mie non erano visioni profetiche dovute ad una difficile digestione notturna ma l’anticipazione razionale di ciò che poteva succedere. Ed è successo. Le nostre armi leggere sono in Ucraina in mano a truppe territoriali male addestrate e molte di esse sono finite nelle mani dei russi. I veicoli corazzati sono finiti alle milizie del ministero dell’Interno ucraino che considerano tutti i combattenti opposti come terroristi. Le artiglierie e i sistemi più sofisticati dati all’esercito ucraino sono arrivati alla spicciolata e diluiti fra le unità come rimpiazzi dei loro mezzi distrutti. Siccome i mezzi hanno sempre equipaggi per ogni mezzo distrutto si perdono uomini che nessuno è in grado di rimpiazzare. Ho visto equipaggi per i carri armati norvegesi addestrati sul campo con le istruzioni scritte a mano in inglese su fogli di carta appiccicati sugli scafi: la più sofisticata delle istruzioni è come si mette la prima e la retromarcia. Tutti questi mezzi sono stati dati senza il supporto logistico e nessuna cura per le manutenzioni e le riparazioni. Non c’è alternativa all’usa e getta finché durano mezzi e uomini. Rimane il grande interrogativo sul mercato parallelo che si è attivato. La quantità enorme dei sistemi antiaerei e anticarro portatili affluita in Ucraina è sempre più un business. Per chi li usa, per chi non li usa e per chi li cattura.
Generale, nel suo libro “Ucraina. La guerra e la storia” scritto insieme allo storico Franco Cardini parte da una domanda essenziale che in tanti si stanno ponendo: Quanto durerà la guerra e come potrebbe finire?
Al ritmo attuale di successi e perdite, consumi e ripianamenti da ambo i lati può durare un anno per l’Ucraina e tre per la Russia. Ciò significa che al massimo tra un anno o succede qualcosa di eclatante che porta allo stallo delle operazioni o la Nato e quindi noi dobbiamo intervenire boots on the ground. Si potrà verificare quanto sincero e totale è l’impegno occidentale a combattere fino all’ultimo ucraino e poi combattere con i nostri soldati. Il che significa mettere in conto la guerra nucleare in tutta Europa.
Vladimir Putin ha recentemente confermato come la posizione russa sia quella di fermarsi alla cosiddetta liberazione del Donbass - come delineato negli obiettivi del 24 febbraio. La recente decisione di ritirarsi dall’Isola dei Serpenti, che rende impossibile per i russi lo sbarco ad Odessa, è un segnale di distensione che in occidente si fa finta di non vedere?
Il ritiro dall’isolotto è senz’altro un segnale, non tanto di distensione quanto di razionalità. Tenere in posto qualcosa che è come un prete nella neve, visibile, circoscritto ed eliminabile in qualunque momento deve valere il rischio. Ritengo che i russi abbiano valutato che non è il caso di perdere uomini e infrastrutture che possono essere eliminati dai missili occidentali da centinaia di chilometri. L’importanza dell’isolotto è proporzionale alla capacità di tenerlo. Se la Russia ha valutato di non poterlo tenere alle condizioni di rischio createsi significa che ha perso l’importanza iniziale. E allora l’eventuale presa di Odessa non avviene più dal mare. In compenso abbandonando l’isolotto la Russia può giocare, come ha fatto, sullo sblocco del traffico portuale per il grano che ora dipende esclusivamente dall’Ucraina. Anche l’obiettivo limitato del Donbass è relativo. Era senz’altro il progetto iniziale. Ma le condizioni iniziali grazie ai nostri “aiuti” sono cambiate e non è escluso che se la conquista del Donbass, come sembra, porterà le forze convenzionali ucraine e russe allo stremo l’obiettivo limitato potrebbe non essere più un successo in termini di costi/efficacia e allora la Russia di fronte a una ridotta resistenza potrebbe tentare il passaggio alle opzioni strategiche convenzionali e nucleari: neutralizzare Kiev e puntare all’acquisizione di Odessa e della Transnistria.
In un passaggio molto significativo del recente intervento di Vladimir Putin al Forum di San Pietroburgo del 17 giugno il presidente russo ha dichiarato: “Gli Stati Uniti, dopo aver dichiarato la vittoria nella Guerra Fredda, si sono anche dichiarati messaggeri di Dio sulla terra, privi di obblighi, ma solo portatori di interessi che hanno dichiarato sacri. Non sembrano aver notato che sul pianeta si sono formati nuovi potenti e sempre più assertivi centri”. È una visione corretta? E cosa rischia l’Europa a restare ancorata in questa visione delle relazioni internazionali da parte degli Stati Uniti?
È una versione parzialmente corretta. Il problema è che tutti questi “nuovi centri” sono “potenzialmente potenti” ma devono ancora dimostrare di essere assertivi. E da parte statunitense l’assertività è misurata in termini militari o economici e finanziari “militarizzati” usati come armi per piegare la volontà di un qualsiasi avversario. Non vedo nessuna assertività in questo senso né da parte della Russia né della Cina o da parte dei tre quarti del mondo che non segue la logica statunitense. Vedo invece l’assertività statunitense e allora i centri citati sono ancora “centri di vittime” ancor più vittimizzati e sviliti proprio perché “potenzialmente potenti”. L’Europa è il primo della lista di questi centri e sembra aver deciso che tale ruolo le va bene.
Nel recente summit di Madrid appena conclusosi, la Nato ha aperto le porte formalmente a Svezia e Finlandia, con il rischio concreto di aprire un nuovo fronte con la Russia. Mosca ha, infatti, già annunciato ritorsioni in caso di basi Nato nei due paesi scandinavi. Quali sono i rischi concreti che corre l’Italia nella sua partecipazione alla Nato nel prossimo futuro? E, come sottolineato recentemente dal Prof. Andrea Zhok, più che essere sotto l’ombrello della Nato non rischiamo di essere noi l’ombrello della Nato?
Fossi nei panni della Nato non sarei così sicuro che l’ammissione di Svezia e Finlandia sia un punto di forza aggiuntivo per l’alleanza. I due paesi, come tutti gli altri baltici e scandinavi, hanno intrapreso un percorso avviato già da diversi anni dalla Gran Bretagna che intende assumere il controllo della “Nato del nord” e perfino delle porte dell’Artico. Sempre che le basti perché anche le mire della Nato nell’Indo-Pacifico allettano gli inglesi. Questi due paesi, dopo anni di neutralità, ancorché forzata, hanno sviluppato una forte indipendenza e anche refrattarietà alle imposizioni esterne. Ora sembrano disposte a mettersi sotto l’ombrello della Nato, ma non di certo a diventare obiettivo della Russia. Questa non ha molti problemi a permettere che tali paesi entrino nella Nato purché non ospitino sui propri territori assetti militari che possano minacciarla. Sarà questa condizione a determinare fino a che punto Svezia e Finlandia saranno disposte a sacrificare tutto ciò che hanno soltanto per il gusto di far arrivare ai loro confini orientali la linea rossa della “sicurezza esistenziale” russa. Anche in questo caso si ripropone il quesito fondamentale che ha assillato tutti i paesi della Nato negli ultimi settant’anni: gli Stati Uniti tireranno la corda fino al confronto nucleare strategico? Non l’hanno mai fatto in tutti i conflitti che riguardavano il rapporto diretto con la Russia, perché formalmente non si trattava di paesi membri della Nato, ma hanno dovuto sacrificare tutte le affermazioni riguardanti i paesi” amici”, i clienti, il diritto internazionale e persino le questioni umanitarie. L’osservazione del Prof. Zhock è interessante. Di fatto i paesi europei della Nato sono veramente l’ombrello degli Stati Uniti. La guerra in Europa tiene lontana la minaccia strategica sul continente americano.
Apparentemente, o meglio secondo la narrazione dominante dai media mainstream, l'operazione in Ucraina ha portato all’isolamento della Russia. Ma se si guarda all'insieme della comunità internazionale, non è forse l'Occidente a essere entrato in un vicolo cieco? Il resto del mondo non sta forse seguendo come non mai l'ottica dello "sganciamento" economico e politico proposta molti decenni fa da Samir Amin?
È vero che esiste nel mondo un forte movimento di sganciamento economico dall’egemonia statunitense. E la posizione americana nel conflitto ucraino con gli aiuti militari e le sanzioni contro la Russia è sia la premessa sia la conseguenza del conflitto. Ed è vero che sul piano finanziario molti strumenti di lavoro si sono già sganciati dal dollaro o comunque dai prodotti finanziari occidentali. È un processo che i cinesi per primi hanno individuato di fronte al pericolo di dipendenza finanziaria (in quanto fornitori e creditori) dall’occidente. Lo sganciamento fondamentale è tuttavia quello economico che riguarda le risorse dalle quali dipende il lavoro, per chi ce l’ha, lo stile di vita e le prospettive tecnologiche. Gli Stati Uniti stanno spingendo la Russia verso l’India e la Cina e questa da anni sta spingendo la ricerca di risorse in Asia, in Africa e in America Latina. A prescindere dall’esito del conflitto in Ucraina questo movimento sarà sempre più forte ed è questo che mette paura agli Stati Uniti e li costringe ad usare il solo martello che hanno: la forza militare. La Nato a Madrid ha segnalato a Washington che l’Europa è con gli Stati Uniti in questo tipo di guerra e che coordinerà con essi la propria ricerca di risorse. Resta da vedere quanti, tra i paesi detentori di risorse,sono disposti a svendersi alle ex potenze coloniali (che tali per essi rimangono i paesi europei) e quanto gli Stati Uniti e la Nato riusciranno a sostenere le guerre o le minacce militari necessarie a procurare le risorse.
Il Parlamento di Tobruk in Libia è stato preso d’assalto e dato alle fiamme venerdì. In Libia siamo prossimi ad aprire un nuovo fronte di quella che Papa Francesco aveva correttamente definito la terza guerra mondiale a pezzetti già qualche anno fa. Con una possibile nuova implosione del Mediterraneo e alla luce del conflitto in Ucraina che non sembra arrivare ad una soluzione, qual è il peggior scenario possibile per gli interessi strategici italiani da tenere a mente?
Lo scenario peggiore per i nostri interessi è la destabilizzazione del Mediterraneo che sarà tanto più accelerata e grave quanto più l’attenzione europea e della Nato si allontana dal mare nostrum. E lo scenario peggiore ed è anche il più probabile e abbiamo un precedente importante: nel 2011 è bastato l’annuncio statunitense dell’Asia Pivot (lo spostamento dell’asse strategico in Estremo Oriente) per resuscitare le manie coloniali e nazionaliste dei paesi europei e quelle statunitensi di delegare ad essi la sicurezza mediterranea ed oltre.
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