17 Lug 2022
La falsa coscienza di un Paese colonizzato
Fonte: ControInformazione
di Andrea Zhok
L’altro giorno stavo assistendo ad una bella discussione di tesi avente per oggetto autori dei cosiddetti “postcolonial studies”.
Era tutto
molto interessante, ma mentre ascoltavo gli argomenti di Frantz Fanon,
Edward Said, ecc. ad un certo punto ho avuto quello che gli psicologi
della Gestalt chiamano un’Intuizione (Einsicht, Insight).
Ascoltavo
di come gli studi postcoloniali cercano di depotenziare quelle teorie
filosofiche, linguistiche, sociali ed economiche per mezzo delle quali i
colonialisti occidentali avevano “compreso” i popoli colonizzati
proiettandovi sopra la loro autopercezione.
Ascoltavo di come veniva
analizzata la natura psicologicamente distruttiva del colonialismo, che
imponendo un’identità coloniale assoggettante intaccava la stessa salute
mentale dei popoli soggiogati.
Queste ferite psicologiche, questa
patogenesi psichiatrica avevano luogo in quanto lo sguardo coloniale
toglieva al colonizzato la capacità di percepirsi come “essere umano
pienamente riuscito”, perché e finché non riusciva ad essere
indistinguibile dal colonizzatore. Ma tale compiuta assimilazione era
destinata a non avvenire mai, ad essere guardata sempre come ad un
ideale estraneo ancorché bramato.
Di conseguenza il subordinato era condannato ad una esistenza dimidiata, in una sorta di mondo di seconda classe, irreale.
Quest’inferiore
dignità rispetto alla cultura colonizzante finiva per inculcare una
mentalità insieme servile e frustrata, perennemente insoddisfatta.
Di
fronte al rischio di perenne dislocazione mentale una parte dei
colonizzati reagiva cercando di fingere che la propria condizione
subordinata era proprio ciò che avevano sempre desiderato.
D’altro
canto, con il consolidarsi del dominio coloniale la stessa capacità di
organizzare la propria esistenza in una forma diversa da quella del
colonizzatore andava impallidendo, con sempre meno gente che aveva
memoria del mondo di “prima”.
Il passo finale decisivo era l’adozione
della lingua del colonizzatore, che il colonizzato parlava naturalmente
sempre in modo subottimale e riconoscibile come derivato. Nel momento
in cui i colonizzati iniziano ad adottare la lingua dei colonizzatori
essi importano lo sguardo degli oppressori e le loro strutture di
alienazione: il colonizzato introiettando lo sguardo del colonizzatore
finiva per generare forme di sistematico autorazzismo.
Ecco,
mentre sentivo tutte queste cose, ragionavo, come fanno tutti,
assumendo che “noi” fossimo i colonizzatori e gli altri i colonizzati.
Ma poi, d’un tratto, lo slittamento gestaltico, l’intuizione.
D’un tratto ho visto che immaginarci come quel “noi” era a sua volta frutto della nostra introiezione della cultura dei colonizzatori.
Noi,
come italiani, o mediterranei, dopo essere stati colonizzati dagli
angloamericani, ne abbiamo adottato lo sguardo fino ad immaginare che
“noi” fossimo come loro, che fossimo noi ad avere sulla coscienza secoli
di tratta degli schiavi e di sfruttamento coloniale imperialistico con
cui fare i conti (innalzando un paio di patetici e fallimentari episodi
in Libia e nel corno d’Africa come se giocassero nella stessa lega con i
professionisti).
Nell’ultimo
mezzo secolo, abbiamo adottato pienamente e senza remore tutte le
dinamiche dei popoli assoggettati, fantasticando che la “vita vera”
fosse quella che ci arrivava come immaginario d’oltre oceano,
dimenticando tutto ciò che avevamo ed eravamo, per proiettarci
nell’esistenza superiore dei colonialisti, pronti ad assumerne i peccati
nella speranza che ciò ci assimilasse, almeno da quel punto di vista,
al modello irraggiungibile.
Questa condizione di esistenza a metà,
tremebonda e felice di essere assoggettata, ma frustrata dal nostro
essere ancor sempre distanti dal modello, ha creato ondate di
autorazzismo inestinguibile e ha bruciato tutte le possibilità di
rinascita.
In sempre maggior misura tutta la nostra cultura, da
quella popolare a quella accademica ha iniziato questo processo di
mimesi, immaginando che se farfugliavamo qualche neologismo in inglese o
se ne infarcivamo i documenti ufficiali (dai programmi scolastici alle
direttive ministeriali) avremmo magicamente acquisito la potenza del
nostro santo oppressore.
Come paese sotto occupazione ci
siamo inventati di essere “alleati” degli occupanti, e mentre eravamo
orgogliosi del nostro acume nel denunciare “governi fantoccio” in giro
per il mondo non vedevamo quelli che si succedevano (e succedono) in
casa nostra.
In tutta questa storia di falsa coscienza
conclamata, di cui si dovrebbero narrare le vicende in un libro
apposito, siamo sempre rimasti un passo al di sotto della consapevolezza
di ciò che siamo e possiamo.
Oggi che gli interessi della potenza
occupante danno segni di progressivo disinteresse per noi – salvo che
come ponte di volo per cacciabombardieri – oggi forse si presenta per la
prima volta dopo tre quarti di secolo la possibilità di uscire da
questa condizione di falsa coscienza.
Tra non molto saremo
forse in grado di applicare lo sguardo dell’emancipazione coloniale
anche a noi stessi. Sarà una presa di coscienza dolorosa e vi si
opporranno forze enormi, ma il processo è avviato e con il fatale
deterioramento della situazione interna esso emergerà sempre di più.
Fonte: Andrea Zhok
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