Il demone nella Rete
di Livio Cadè - 02/07/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-demone-nella-rete
Fonte: EreticaMente
“Finché si credeva al Diavolo, tutto quel che accadeva era intelligibile e chiaro…”
(Emil Cioran)
Discutere
del nostro rapporto con la tecnologia comporta problemi complessi, in
cui si intrecciano questioni pragmatiche, di mera utilità, con altre di
natura etica e persino metafisica. In altre parole, data l’estrema
problematicità della natura umana e dei suoi bisogni, risulta sempre più
complicato stabilire in che misura lo sviluppo tecnologico ci giovi o
ci danneggi. Non v’è dubbio, ad esempio, che la Rete abbia portato
vantaggi pratici negli scambi, nelle comunicazioni, nell’aver messo a
disposizione degli utenti una quantità di dati e di servizi che era un
tempo inimmaginabile ma è oggi immediatamente accessibile a tutti.
D’altro
canto, è evidente che la Rete è ormai una droga legalizzata, sorta di
sostanza stupefacente gratuita e diffusa in ogni angolo del globo. È il
nostro comune oppio, un eterico ed eclettico assenzio in grado di
sedare, stimolare, stordire, allucinare. Ci introduce in un mondo
irreale e parallelo, induce sporadiche trance, crea sottili ma potenti
dipendenze, altera e compromette in varia misura i processi fisiologici
del cervello. Gli aspetti tossici della Rete sono ben noti ai suoi
spacciatori, ma vengono in genere rimossi dalla coscienza dei
consumatori. Perciò, ancora si esita a imporle il marchio infamante
della droga, o lo si fa in modo metaforico, senza una reale cognizione
della sua pericolosità per il cervello. Infatti, a differenza delle
classiche tossicodipendenze, la Rete non produce sintomi così
immediatamente e brutalmente palesi. Inoltre, mentre gli eroinomani o i
cocainomani sono un’esigua minoranza, i ‘retomani’ sono miliardi. Dunque
la loro dipendenza non appare un’eccezione patologica ma la normalità.
Sappiamo
che chiunque si droghi è avvinto con tenaci legami alla sostanza di cui
è schiavo, e che non solo gli è quasi impossibile liberarsene ma, di
solito, non lo desidera. Il retomane, da parte sua, non trova una
ragione per disintossicarsi, dato che neppure sospetta d’esser drogato.
La Rete è per lui uno svago innocente, una risorsa culturale, un
inesauribile canale di informazione, un piacevole luogo di incontro, un
utile strumento di lavoro etc. Benché possa trovare inopportuni e
censurabili alcuni contenuti, non vede nulla in questo immenso e
versatile contenitore, in questo straordinario dispositivo
multifunzionale, che gli evochi scenari tossicomani. È per lui solo un
immenso cilindro magico cui attingere secondo le proprie esigenze e i
propri gusti. È vero che astenersene gli provoca crisi penose, ma
l’offerta di tale droga è talmente capillare e a buon mercato che è raro
ne resti sprovvisto e provi i sintomi dell’astinenza.
È difficile
dare del fenomeno un giudizio obiettivo, perché dovremmo prendere il
vasto e ramificato sistema di interazioni tra l’uomo e la Rete e
riferirlo a un fondamento vincolante di significati e di valori. Ma v’è
ormai l’attitudine a percepire la Rete stessa come un universo
totalizzante, fondamento di valori e significati. Ciò la rende una
trascendenza di fatto non giudicabile perché essa stessa determina gli
strumenti e le modalità del giudizio. Nella sua autoreferenzialità, si
giudica da sé e, anche quando sembra condannarsi, si autoassolve. È lei a
suggerirci le parole, a offrirci i concetti con cui stimolare finte
auto-critiche e false forme di auto-coscienza. Quando denunciamo i
pericoli che la Rete comporta per la nostra libertà, lo facciamo quindi
seguendo le implicite categorie etiche e intellettuali che lei stessa ci
costringe a utilizzare. L’unico modo per revocare l’autorità di un
linguaggio è non utilizzarlo. Ma questo ci ridurrebbe al silenzio,
perché la Rete ha ormai il monopolio linguistico. Lei stessa è un
metalinguaggio che incorpora e assimila tutti i linguaggi, anche quelli
che la contraddicono.
Vorrei evitare il classico luogo comune secondo
cui la Rete sarebbe solo un mezzo, e perciò tutto “dipende dall’uso che
se ne fa”. Questa idea ne presuppone un’altra, cioè che il senso del
mezzo prescinda dalla sua funzione rispetto a un fine, il che è
palesemente assurdo. È vero che si può usare un esplosivo per scopi
civili, pacifici, o con intenti militari e omicidi. Ma il fine
dell’esplosivo è comunque il distruggere. Ogni mezzo è coerente con la
propria natura, indipendentemente dall’uso che uno ne fa. Inoltre,
quanto più dipendiamo dal mezzo e lo sentiamo necessario, tanto più ne
diventiamo schiavi. L’uomo comincia con l’usare una cosa e finisce con
l’esserne usato. È così che la Rete, mentre ci offre i suoi servigi, ci
incatena a una sorta di patto faustiano.
Ma qual è allora la natura
intrinseca della Rete e il suo scopo precipuo? In apparenza è una comoda
via per accedere rapidamente a una quantità virtualmente illimitata di
informazioni e di funzioni. Strumento eccezionale di ricerca e di
conoscenza, di apertura al mondo, fermento di idee. In tal senso
parrebbe legittimo il concetto che “basta farne buon uso”. Questa
formula ottimistica ignora il potere demoniaco della Rete di governare
le coscienze, di portarle gradualmente a un livello subliminale, quasi
ipnotico, calandole in un magma di pensieri disorganici. È una sfera di
cristallo da cui emergono magicamente voci e figure che guidano,
rivelano segreti, risolvono problemi, indicano facili evasioni.
Chiunque
venga in contatto con gli influssi streganti della Rete ne resta in
qualche misura ammaliato, anche chi se ne ritiene immune. Chi naviga nel
suo mare magnum viene sedotto da sirene che continuamente lo chiamano,
lo invitano a un dolce naufragio. Si perde nel flusso oceanico dei dati,
dove un maelstrom di testi e di immagini risucchia la realtà. Al di là,
dei suoi particolari ambiti di applicazione, è questa per me l’essenza
della Rete: il suo svuotare l’uomo mediante la vacuità prodotta da una
superfetazione di messaggi, di immagini, di parole.
In questo senso
la Rete rappresenta l’ultima fase di un processo di allontanamento
dall’intelletto naturale, fenomeno che nasce con la scrittura e si
rafforza in tempi recenti con la stampa, la radio, la tivù, il cinema.
Questa involuzione intellettuale, cui corrisponde un’evoluzione tecnica,
coincide con un’organizzazione della coscienza che privilegia forme di
razionalità artificiali e acquisite a scapito di un’intelligenza innata e
intuitiva. Il labirinto di specchi della Rete, la sua ragnatela di
messaggi contraddittori, sono il punto più basso, per ora, di questa
china, in cui la ragione prevale sullo spirito, in cui alla semplicità
del vero si oppone un numero infinito di incerte opinioni.
Altri
elementi peculiari della Rete sono la superficialità, la ricerca del
facile consenso, la vuota esibizione narcisistica. Antitesi di quelle
forme di interiorizzazione, di scavo nel profondo attraverso movimenti
lenti e pazienti, spesso umilianti e dolorosi, di cui l’anima ha bisogno
per ritrovare se stessa. La Rete blocca questo processo di
autoconoscenza e, tenendola occupata con gingilli di vario genere,
impedisce all’anima di esplorarsi. Succede così che alcune peculiari
manifestazioni della creatività umana – l’arte, la religione, la
letteratura – conoscano oggi una tragica decadenza. Ogni espressione
matura dello spirito implica infatti un potere di integrazione e
concentrazione che la Rete cerca di distruggere e di sostituire con
opposte dinamiche di frantumazione e dissipazione.
È chiaro anche il
tentativo di omologarci in un tipo comune, passivo di fronte alle
procedure richieste, fiducioso nei motori di ricerca, portato alla
credulità. Ma l’elemento più peculiare della Rete è la sua efficacia nel
disconnetterci da noi stessi mediante un numero illimitato di
connessioni sempre più rapide e dilettevoli, attraverso l’esca di
irresistibili link. Si produce così una massa di inconsapevoli lotofagi,
immersi nel loro incantamento, in cui il reale è surrogato da un
semicosciente esercizio onirico. Se si considera che la percezione della
realtà ottenuta attraverso i sensi è già di per sé ingannevole, e che
la nostra assuefazione alle forme del linguaggio e della razionalità la
rende doppiamente illusoria, la Rete si può allora considerare un
miraggio elevato al cubo.
Ogni miraggio ha inevitabilmente natura
delusoria ma, paradossalmente, nel caso della Rete la ragione del suo
rapido affermarsi è proprio la radicale frustrazione che provoca in noi.
È come acqua salata. Più ne bevi e più hai sete. Ovvero, offre un tale
esubero di alimenti che in realtà non possiamo digerirlo. È una fittizia
cornucopia davanti alla quale lentamente si muore di fame. Il nutrirsi
presuppone infatti non il semplice mangiare ma l’assimilare. Così, il
trofismo dei nostri tessuti intellettuali richiede non un’epidermica
lettura delle cose ma il comprenderle e il ricordarle. Viceversa,
invogliandoci a saltare come pulci ubriache da un punto all’altro, senza
mai soffermare la nostra attenzione su un soggetto per più di pochi
secondi, la Rete pregiudica le nostre facoltà mnemoniche e di
apprendimento. Così non ci sentiamo mai sazi, ma sempre dobbiamo
ricominciare a mangiare.
Come direbbe Seneca “vomitano per mangiare,
mangiano per vomitare; e questi cibi, che hanno cercato su tutta la
terra, disdegnano di digerire”. Ogni pensiero viene deposto nello spazio
angusto di una memoria a breve termine, da cui è velocemente evacuato
per far posto a nuovi pensieri e poi ad altri, che subiranno tutti la
stessa sorte. La ricchezza infinita di contenuti sui quali riflettere,
l’accumulo di sempre nuove nozioni, il consumare argomenti d’ogni tipo,
dal volgare al sublime, in sbrigativi fast food della mente, non produce
alcun effetto corroborante sull’intelletto ma al contrario ne provoca
la denutrizione e il deperimento.
Ogni idea, dialogo o dibattito,
passa attraverso un rapido processo di autocombustione, lasciando solo
sedimenti volatili, condannati a una celere dispersione. È naturale
chiedersi quale sia lo scopo di questo annichilimento interiore.
Potremmo vedervi l’intento di chiudere l’uomo nella dimensione del
futile e dell’effimero, dove tutto diventa rapidamente scarto, rifiuto. O
di dare sfogo virtuale ai malcontenti, mitigare le frustrazioni sociali
e i sensi di ingiustizia, circoscrivere le loro potenzialità eversive
in una dimensione fittizia, dove appelli, comizi, perorazioni, proteste
etc. non sono che innocue simulazioni.
La Rete, in modo
apparentemente democratico e liberale, offre infinite verità in
conflitto tra loro, incoraggia un’orgia promiscua di opinioni,
insegnamenti, testimonianze, creando di fatto una dittatura del pensiero
caotico. E mentre si pone come paradigma di relativismo e di
equidistanza, in realtà impone una serie di inconsci dogmatismi, rigidi
pregiudizi, modelli stereotipati di pensiero, forme coatte
d’espressione. E noi, ubbidienti, leggiamo frettolosamente, scivolando
sulle parole, scorriamo rapidamente le immagini e i concetti come si
osserva distrattamente il paesaggio da un treno in corsa. Sempre
impazienti di leggere e guardare altro, saltando da nulla a nulla.
La
Rete non si limita a confondere il senso della realtà, lo rovescia. I
social, ponendo la distanza come condizione abituale e normale del
contatto, favoriscono di fatto l’asocialità. Le community sono solo
agglomerati di individualismi senza alcuna reale comunione.
L’informazione serve a nascondere la verità, la semplificazione
complica, l’ottimizzazione peggiora etc. Anche quando sembra favorire
iniziative lodevoli, farsi veicolo di cultura e di sapere, la Rete è in
sé un male, un parassita che colonizza la nostra interiorità,
indebolendo le nostre capacità di concentrazione, di salda memoria e di
visione profonda.
È, a mio parere, il nucleo di una congiura globale
contro quel silenzio e quella feconda solitudine in cui fiorisce lo
spirito, ossia massima espressione di una società anti-spirituale.
Distrae l’intelletto, gli trasmette brevi e continue sollecitazioni,
come deboli scariche elettriche che lo snervano e infiacchiscono. Mentre
sembra incoraggiare la nostra libera e originale creatività, la riduce a
un insieme di reazioni meccaniche e riflessi condizionati. Determina
infine una sorta di ernia o di protrusione della nostra coscienza, la
sua fuoriuscita dalla sede naturale. Ma chi è ne colpito non ne è
consapevole, come accade in certe patologie neurologiche.
Perciò è
inutile dire ai retomani: digiunate, riducete quanto più possibile i
contatti con la Rete, sollevate la testa dal monitor, uscite da quella
malefica bolla virtuale e guardate piuttosto in voi stessi. Dimenticate
la connessione a Internet e cercate una connessione con la vostra anima.
Rinunciate a rincorrere il nulla, e invece di immergervi in questo
ininterrotto rumore di fondo di tag, blog, forum, social etc. cercate di
restare un po’ in silenzio. Non è pensabile, per chi vive nell’attuale
società, astenersi dalla lussuria della Rete, difendere la propria
verginità di pensiero. Prova ne è quello che sto scrivendo. Mi trovo di
fatto nella condizione di chi, per elogiare il silenzio, parla e dà il
cattivo esempio. Invece di tacere, butto anch’io questa bottiglia nello
sconfinato mare del Web, con dentro un altro inutile messaggio.
Questo
radicale pessimismo, si dirà, è ingiusto, perché nella Rete v’è anche
del buono: ha enormi potenzialità educative e pedagogiche, ha mille
applicazioni utili, trascende le barriere tra i popoli etc. Anch’io cado
talvolta in queste illusioni. Speranze teoriche, astratte. Messo di
fronte ai fatti, comprendo che la Rete è per sua natura un’entità
maligna, che non ha in sé nulla di buono, al massimo qualcosa di utile.
Ma l’utilità non ha alcun nesso col bene. Gandhi diceva di rifiutare
sempre e in ogni caso la violenza perché il bene che fa è apparente e
momentaneo, mentre il male che fa è reale e durevole. Questo, senza
dubbio, si può dire anche della Rete.
È una sorta di infezione
planetaria. Solo alcuni sviluppano, misteriosamente, una reazione
immunitaria che li salva dal contagio. Possiedono, come oggi si dice, i
necessari anticorpi. Possono quindi aggirarsi come monatti tra le
intelligenze appestate e le coscienze estruse. Possono sfuggire al
demone che con le fauci spalancate vaga tra gli algoritmi della Rete
cercando anime da carpire o da comprare a basso prezzo. Così malridotte
valgono infatti poco o nulla. Una volta, in cambio dell’anima, il
diavolo ci avrebbe offerto ricchezza, gloria, potere, favolosi piaceri,
eterna giovinezza. Oggi la svendiamo per un like.
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