E l’uomo inventò la morte
di Livio Cadè - 09/07/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/e-l-uomo-invento-la-morte
Fonte: EreticaMente
Premesse
Ogni corpo umano ha in sé una piccola quantità
di ferro, rame, zinco ecc. Se dovessimo pesarla e calcolare il suo
valore di mercato, potremmo vendere il nostro corpo a un ben misero
prezzo. Viceversa, se consideriamo quanto vengono valutati i nostri
organi – cuore, fegato ecc. – sul relativo mercato, la nostra autostima,
almeno in termini economici, ne uscirebbe notevolmente rafforzata.
Scopriremmo infatti di valere parecchie centinaia di migliaia di
dollari. E questa cifra sarebbe solo una parte del giro d’affari che i
nostri organi possono creare. In America, ad esempio, un trapianto di
cuore costa oltre un milione di dollari, uno di cuore e reni oltre due
milioni. V’è poi un ampio indotto relativo alle cure post-operatorie,
che durano fino alla morte del trapiantato. A questo punto ci renderemmo
conto che il nostro corpo, il vituperato frate-asino, la nostra umile
dimora di carne, è in realtà un capitale di tutto rispetto, un piccolo
tesoro che può far gola a molti. E in un mondo retto non certo da valori
etici o spirituali ma da quelli disumani del Mercato, potremmo stupirci
che qualcuno ancora non ci abbia fatto la pelle per impossessarsi delle
nostre preziose frattaglie.
Il fatto è che la Legge, vecchia noiosa
piena di fisime, ancora proibisce l’omicidio. Sarebbe tuttavia ingenuo
pensare che l’ingegno umano si lasci scoraggiare e rinunci a lucrosi
profitti per colpa di qualche cavillo legale. E difatti, fatta la legge,
scoperto l’inganno. Come si può depredare una persona dei suoi organi
vitali senza ucciderla? La soluzione è semplice, ma occorreva del genio
per vederla. Basta far credere che quella persona sia già morta.
Ovviamente una diagnosi di morte va certificata, ma questo non è un
problema. È sufficiente modificare alcuni tradizionali parametri
clinici.
Per esempio, anche se il vostro cuore batte, siete morti.
Respirate? Siete morti comunque. Se anche il vostro sangue circola,
avete ancora membra rosee, elastiche e calde, potete ancora contrarre
un’infezione e guarirne, conservate le vostre difese immunitarie, potete
essere alimentati, persino portare avanti una gravidanza e partorire,
generare figli ecc., non fatevi ingannare, siete morti. Ce lo dice un
aggeggio che capta alcuni fenomeni elettrici nel cervello. Quando una
persona è viva il suo cervello emette infatti una serie di onde
elettriche. Se la macchinetta non le registra, ne deduciamo, con una
logica rigorosa, che la persona è morta. Come dire: se uno canta è
sveglio, ergo, se non lo sento cantare vuol dire che dorme.
Questa
morte ancora così piena di vita è l’ingegnosa invenzione di una scienza
medica impaziente di certificare il nostro decesso. Ma il medico non
dovrebbe essere colui che ci cura e ci guarisce? Probabilmente era così,
un tempo. Ma oggi la medicina è il volano di un enorme business e non
può occuparsi di cose futili e poco remunerative come la salute dei
pazienti. All’industria sanitaria e farmaceutica rende molto di più che
la gente si ammali o, in certi casi, che muoia. Motto della moderna
medicina potrebbe essere: primum nocere.
La covidomania, con tutti i
suoi corollari, potrebbe apparire in tal senso il caso più
rappresentativo di una sanità pubblica ormai asservita a scopi maligni.
Ma a mio parere sono ancora i trapianti di organi a occupare il punto
più basso mai raggiunto dalla coscienza medica. Purtroppo questa
pratica, sintesi di una polimorfa perversione sanitaria, ha col tempo
ricevuto patenti di normalità, moralità e legalità, e la gente non
riesce più a percepirne il carattere aberrante. La ‘bioetica’ ufficiale
le ha concesso il nulla osta, la politica l’ha avallata, i media l’hanno
incoraggiata, la Chiesa stessa, piegandosi all’opinione dei medici,
l’ha accettata e benedetta. Oggi, resi forse un poco più accorti
dall’esperienza della pseudo-pandemia, dovremmo sapere che sotto il
profilo etico tali riconoscimenti e approvazioni ufficiali non valgono
nulla e in genere non hanno alcun nesso con la verità.
Tuttavia,
grazie alla complicità tra media, pseudo-scienza, politica e mondo degli
affari, il consenso sociale ai trapianti è ormai un riflesso
condizionato, una sorta di dogma religioso o articolo di fede. È
difficile sottrarsi ai pregiudizi della propria epoca. Un tempo, nei
processi per stregoneria, si pungeva il corpo della presunta strega in
alcuni punti e se quella non sentiva dolore se ne ricavava la
dimostrazione inoppugnabile della possessione diabolica. Pochi
dubitavano della razionalità di tale procedimento. Oggi si crede che,
misurando alcuni voltaggi elettrici, si possa stabilire se una persona è
posseduta dalla morte, e si dà a questa credenza dignità di teorema
scientifico. Li vedo, questi moderni inquisitori, interrogare l’encefalo
del malcapitato. “Non risponde”. Li immagino chini su di lui, intenti a
staccare e riattaccare il boccaglio del respiratore, in una scientifica
tortura. “Non reagisce”. Il tutto molto in fretta, perché bisogna
depositare celermente gli atti del processo e consegnare il poveretto al
carnefice. Infine – Deo gratias! – dopo averlo eviscerato, i suoi
organi diverranno proprietà di chi ansiosamente li attendeva. Mors tua
vita mea, è la vita.
La filosofia del trapianto è il paradigma di
un’involuzione antropologica. Visione utilitaristica della persona,
ridotta a corpo-macchina, essere senza sostanza ontologica, pura
funzionalità. Rottura della nostra unitaria percezione psicofisica,
anticipazione di un futuro corpo ibrido, mero assemblaggio di parti, di
innesti estranei, da cui sarà possibile espiantare anche la mente,
l’anima e farne commercio. Simbolo di una vita artificiale, che per
affermarsi sopprime le nostre difese naturali, inibisce il nostro
sistema immunitario, che altrimenti la rigetterebbe. In fondo,
ammissione di un fallimento della medicina, una sostanziale
degenerazione terapeutica che, all’incomprensione dei processi vitali,
ovvia con interventi meccanici, aggressivi e distruttivi. Emblema di un
progresso tecnico cui corrisponde un regresso etico e su cui, non a
caso, attecchiscono vasti fenomeni speculativi e criminali.
Analisi
Questo
cascante edificio poggia in realtà su un guscio di noce, sul fragile
sofisma della ‘morte cerebrale’, sotterfugio che rende possibili i
trapianti e cancella il volto antico e familiare della morte. Scriveva
Shakespeare: “il polso arresterà il suo battito: e non ci sarà più
calore in te né respiro a rivelare la vita. Le rose della labbra e del
viso appassiranno nel pallido colore della cenere. Le membra private del
movimento, dure, rigide, fredde ecc.” Questo è l’ordine naturale delle
cose, fino a ieri indiscutibile. Ma oggi cos’è la morte?
Un comune
malinteso vuole che la risposta stia in un formale referto medico. In
realtà è legata a un’elaborazione concettuale. La morte non è solo un
dato di fatto ma un’interpretazione. Può essere annullamento,
estinzione, compimento, transito, liberazione, distacco ecc. secondo
varie prospettive culturali. Potremmo anche dirla un nulla,
un’astrazione, un’invenzione della mente, un’illusione, un pregiudizio.
In ogni caso una definizione ci è necessaria, perché la nostra società
deve dotarsi di criteri logici, medici e giuridici, per distinguere i
vivi dai morti. La legge del 1993 che regola tale materia, recita: “la
morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo”. Questa formula, che apparentemente inventa una morte
più ‘razionale’, presenta in realtà profonde contraddizioni. Emergono
qui quattro punti problematici e interdipendenti.
Innanzitutto, si
pone un’opzione di tipo filosofico: qual è il soggetto della morte?
Nella cultura tradizionale è il corpo che muore, mentre la persona, o
anima, sopravvive in forma incorporea. Viceversa, nella condizione di
‘morte cerebrale’ il corpo è ancora vivo, e forse è sottinteso che a
morire sia la ‘persona’, o un’entità vaga identificata nelle ‘funzioni
encefaliche’. La legge non lo chiarisce.
In secondo luogo, dovremmo
definire cosa si intenda per morte. Tradizionalmente è il distacco
dell’anima dal corpo, ovvero la frattura insanabile tra un principio
vitale e la sua struttura somatica, la perdita di un ordine, di
un’entelechia o principio sintropico che unifica e organizza la materia
biologica. Nella legge anche questo punto è lasciato in sospeso, dato
che il silenzio encefalico può essere un indizio di morte, ma non la
morte in sé. Dovremmo arguire che la vita coincide con l’attività
cerebrale. Ma allora perché non con un’altra attività: il movimento, il
linguaggio, le relazioni sociali? Anche questo non è chiaro.
In
realtà la legge dice ‘funzione encefalica’, ma l’EEG può solo registrare
una certa attività del cervello, non la sua funzione. Questa
distinzione è cruciale. Se svengo perdo temporaneamente l’attività della
coscienza, ma questo non significa che ne abbia perso la facoltà. Che
all’assenza di attività encefalica corrisponda un’incontrovertibile
cessazione delle relative funzioni è una mera congettura. Un domani
potremmo trovare il modo di curare queste lesioni al cervello, come oggi
possiamo rianimare persone colpite da arresto cardiaco.
Un terzo
livello attiene ai segni mediante cui la morte si manifesta. In passato
questi indizi erano l’assenza prolungata di respiro, di battito del
cuore e di circolazione sanguigna, cui seguivano inconfondibili segni di
disgregazione biologica, conferma della morte intesa come totale
divorzio tra il corpo e la vis o pneuma che lo animava. Qui la legge del
’93 è pertinente, ci indica un reale segno tanatologico ma, avendo
omesso di definire la ‘morte’, ci dà un ‘significante’ senza
‘significato’, ovvero un segno di sé stesso, autoreferenziale.
Il
quarto e ultimo livello, di carattere specificamente medico, concerne
strumenti e metodologie mediante cui possiamo rilevare i segni di morte.
In passato bastava un’osservazione empirica per constatare la mancanza
di respiro e di pulsazioni. In seguito il corpo era vegliato per un
tempo minimo (di solito due giorni) prima di procedere all’inumazione.
La ‘morte cerebrale’ va invece certificata tramite
elettroencefalogramma, o valutando i riflessi del tronco encefalico, e
dopo sei ore si può procedere all’espianto.
Tuttavia, i limiti
tecnici delle nostre apparecchiature le rendono inadeguate a
scandagliare la complessità del nostro sistema nervoso centrale nel suo
insieme. Di conseguenza, quando la legge chiede di accertare la
“cessazione totale e irreversibile delle funzioni encefaliche” chiede
l’impossibile e affida la diagnosi a un’approssimazione. Per altro, la
prassi clinica contraddice la legge, perché il paziente cui viene
diagnosticata la ‘morte cerebrale’ presenta funzioni vitali –
cardiorespiratorie, endocrine, metaboliche etc. – che sono incompatibili
con una presunta distruzione totale del cervello.
Infatti, in
centinaia di casi l’autopsia condotta su persone dichiarate
cerebralmente morte ha evidenziato danni al cervello parziali, limitati,
non irreparabili e che avrebbero puto venir curati, se non avesse
prevalso la ‘fame di organi’. In Giappone, dove la diagnosi di ‘morte
cerebrale’ è stata rifiutata fino al 1999, le persone che in altre parti
del mondo venivano definite ‘morte’ erano assistite e in certi casi
recuperate a una vita normale, rivelando quanto la stessa prognosi di
‘coma irreversibile’ fosse in molti casi immotivata. Se cito
l’esperienza giapponese non è però per insinuare che la diagnosi di
‘morte cerebrale’ possa in certi casi peccare di negligenza o di
imperizia. Essa è sempre radicalmente inammissibile, per ragioni di
metodo e di pensiero.
Si può capire l’incongruenza della legge citata
riferendola ad altre fenomenologie. Per esempio, se dicessimo: “il
concepimento è la cessazione del mestruo”, oppure: “il sonno è
un’assenza di onde beta nel cervello” diremmo una palese sciocchezza. Il
concepimento include ma insieme trascende l’assenza di flusso
mestruale, come il sonno l’assenza di onde beta. Ben oltre questi segni,
il loro significato comprende un’enorme varietà di altri fattori
costitutivi. Analogamente, a prescindere dai limiti degli strumenti
impiegati, è assurdo far coincidere la morte con la cessazione delle
funzioni encefaliche.
“Quando un soggetto è morto v’è in lui una
cessazione di funzioni encefaliche, quindi, se v’è in lui una cessazione
di funzioni encefaliche il soggetto è morto” è un ragionamento
chiaramente fallace. Il fatto è che la legge richiede l’accertamento di
qualcosa che non sa definire. Ma come accerti una cosa se non sai cos’è?
Quindi si rifugia in una petizione di principio. Alcuni obiettano che
la legge non dice in cosa la morte consista ma come vada accertata.
Secondo loro il senso esatto sarebbe: “la morte è avvenuta quando si
registra la cessazione ecc.”. Ma è come dire: “il concepimento è
avvenuto quando si registra la cessazione del mestruo”.
In sostanza,
si pretende che la mera indagine clinica possa, arbitrariamente, senza
un vero fondamento logico, definire la morte. Perciò il processo
epistemologico cui prima s’accennava viene compresso e capovolto: si
parte dall’ultimo punto e ci si ferma al penultimo. Prima si pone una
diagnosi che dichiari una cessazione di funzioni encefaliche e poi si
decreta che quella è la morte. Questo rovesciamento di piani si spiega
solo supponendo un tacito punto preliminare: la necessità di legittimare
l’espianto di organi. Si fissa una formula legale per rendere possibile
qualcosa che altrimenti sarebbe illegale. Quindi, non è la legge a
pretendere dalla medicina un accertamento secondo determinati criteri
diagnostici, ma è la medicina a pretendere dalla legge una definizione
di morte che autorizzi i criteri diagnostici funzionali al trapianto.
Tutto
ciò si fonda quindi su un artificio dialettico, per cui un certo grado
di coma, con prognosi negativa, viene equiparato alla morte. Perciò i
cinesi, coerenti e pragmatici, espiantavano gli organi ai condannati a
morte. La morte sembra una questione di ‘tempo vitale residuo’. Ma chi
può dire quanto tempo ci resti? Alcune persone, i cui familiari si sono
opposti al prelievo, sono sopravvissute in condizioni di ‘morte
cerebrale’ per settimane, mesi o anni. È noto il caso di un bambino,
dichiarato ‘morto’ a 4 anni che, accudito a casa dalla madre, che aveva
negato il consenso all’espianto, sopravvisse altri 17 anni.
Obiezioni
Spesso
si obietta che queste persone sopravvivono solo perché collegate a un
respiratore. Non sarebbero realmente vive perché “tenute in vita
artificialmente”. Ma con questa stessa espressione – “tenute in vita” –
si ammette quel che si vuol negare. Un morto, collegato a un
respiratore, non potrebbe respirare. E quante persone dipendono, per
vivere, da farmaci, dalla ventilazione meccanica, da un rene artificiale
ecc.?
Alcuni propongono di distinguere ‘morto’ da ‘cadavere’. Prima
dell’espianto il corpo sarebbe morto, ma solo dopo diventerebbe un
cadavere. Difatti, nessuno acconsentirebbe a cremare una persona in
‘morte cerebrale’, a cuore battente. Pare invece legittimo sventrarla.
Avremmo così due morti. Una morte A, provvisoria, in attesa di donare
gli organi, e una B, definitiva, dopo averli donati; una morte vitale e
una cadaverica. Ma come non esiste una donna più o meno incinta –
l’apparizione della vita è infatti repentina e rappresenta uno scarto
ontologico – in modo analogo non esiste una persona più o meno morta. Se
non distinguiamo la morte dal processo del morire potremmo andare a
ritroso e trovare evidenze di morte in chiunque.
Altri sostengono che
il corpo di queste persone è ancora vivo ma è morta in loro la
‘coscienza’, ciò che le rende ‘esseri umani’. Costoro identificano l’io
col cervello e credono dunque di poter dire, sulla base di un esame
neurologico, che l’io è morto. Ma questa idea, la si condivida o no, è
una supposizione metafisica. Inoltre, la morte della coscienza è a
priori una realtà non sperimentabile e indimostrabile. In ogni caso, è
arbitrario assimilare la morte a una perdita di umanità, di coscienza o
altra particolare prerogativa psicofisica. Negli anni ‘20 dei medici
tedeschi proposero di sopprimere alcune categorie di persone perché la
loro esistenza era considerata ‘priva di valore vitale’. Così, oggi
alcuni vengono sacrificati perché pensiamo che la loro vita non abbia
più valore, mentre la loro morte ci può tornar utile.
Per molti,
l’opposizione al prelievo di organi è un’ottusa reazione al ‘progresso
della medicina”. C’è l’idea che più il medico si serve di procedure
sofisticate, di macchinari complessi per la diagnosi, più questa sia
sicura e ‘scientifica’. È in fondo l’espressione di quel senso di
inferiorità che l’uomo prova ormai di fronte alla macchina da lui stesso
creata. Verificare l’assenza di pulsazioni e di respiro è possibile
anche a un selvaggio ignorante. L’uso di elettrodi e di strumentazioni
moderne, affidate ad esperti, sembra invece garantire un alto tasso di
professionalità e di certezza. In realtà è il contrario, perché averla
spostata dal cuore al cervello rende la morte molto più problematica e
ambigua.
V’è anche una forte censura morale verso chi in tale materia
è scettico o dissente. Il rifiuto di ‘donare gli organi’ è visto come
manifestazione d’inumana insensibilità. Celebrare il consenso
all’espianto come forma di solidarietà e generosità, definirlo “dono di
vita”, “estremo atto d’amore”, evocare una commovente e virtuale
‘continuità’ del donatore in altri corpi, è diventato un atto doveroso
del perbenismo borghese, della sua etica da soap opera. Ma io fatico a
vedere in questo sentimentalismo una nobiltà d’animo. Non mi pare eroico
o sublime lasciare ad altri una proprietà che si reputa senza alcun
valore, rinunciare ai propri organi vedendovi un’inutile res derelicta. E
se anche tale decisione nasce da buone intenzioni, quest’ultime nascono
da una cattiva cognizione della realtà.
Infine, la più classica
obiezione, che vorrebbe inchiodarci al nostro naturale egoismo, alle
nostre paure. Cito le parole di un esponente AIDO: “è facile disquisire
in modo astratto su morte encefalica, coma od altro, se si sta bene, ma
in che condizioni saremmo se dal trapianto dipendesse l’unica occasione
di vita per noi o i nostri cari?”. Pare dunque sia irrilevante
distinguere tra coma e morte. Se anche il prelievo di organi fosse un
crimine, ciò ha poca importanza, perché il fine giustifica i mezzi, e la
mia necessità rende inutile ogni riflessione. Non serve porsi dubbi
etici perché, come diceva Hitler, ‘etico’ è ciò che la legge consente.
Conclusione
Dopo
aver riflettuto, ammettiamo pure che la morte sia materia indecidibile.
Una nostra invenzione, un confine convenzionale che l’uomo traccia tra
l’aldiqua e un ignoto aldilà. Una linea immaginaria posta tra ciò che
appartiene alla vita terrena e quello che forse, misterioso, sta oltre.
Dobbiamo indicare quel limite ma il dubbio ci frena. Allora mi dico: se
traccio la linea più in là rischio di giudicare ancora viva una persona
già morta e di fornirle quindi un’inutile assistenza medica. Se la
traccio più in qua, il pericolo è che io consideri già morta una persona
ancora viva e quindi, nel caso dell’espianto di organi, che io la
uccida. È un’opzione che non può decidere la scienza ma la mia
coscienza.
Io scelgo, come Shakespeare, di segnare quella linea là,
dove tutte le funzioni vitali cessano. Ossia, di lasciarla dove è sempre
stata, perché ritengo che finché il nostro cuore pulsa siamo ancora
legati a questa terra. I suoi elementi scorrono ancora in noi attraverso
i canali del corpo, del sangue, del respiro. Solo quando il cuore
irrevocabilmente si ferma, anche il cervello muore. Si apre la porta
della nostra piccola cella e possiamo andarcene.
Era semplice, un
tempo, la morte. Un bambino, un animale, la potevano riconoscere. Capivi
che una persona non era più nel suo corpo. Non servivano commissioni ad
hoc, collegi di esperti e tecnologie sofisticate. La morte era una
candela subito spenta, senza più alcuna tremolante luce. Un ritmo che
improvvisamente si ferma, tra un battere e un levare. Non era cerebrale,
epatica, polmonare o altro. Era la morte. Invenzione umana e sublime
per sancire una fine, e un nuovo inizio. Per tornare umani bisogna
riportare il centro dell’essere dal cervello al cuore. Se la nostra
società strappa gli organi a persone vive è perché essa stessa è ormai
senza cuore. E una società così non poteva che inventarsi una ‘morte
cerebrale’.
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