Fin dal suo apparire, l’artiglieria ha cambiato il modo di fare la guerra. Basti pensare alla calata in Italia di Carlo VIII di Francia nel 1494. Tuttavia, è solo dall’età napoleonica che i cannoni sono diventati i protagonisti del campo di battaglia: fino a quel momento infatti l’esiguità dei fondi a disposizione per la guerra limitava la consistenza numerica delle batterie, oltre naturalmente a una tecnologia ancora rudimentale.
Con l’avvento della nazione in armi dopo la Rivoluzione, unito all’espansione della base produttiva, gli eserciti poterono contare su centinaia di pezzi in ogni battaglia. Bonaparte, non a caso ufficiale di artiglieria, seppe sfruttare a fondo le potenzialità dell’arma, aprendo la strada a oltre un secolo di innovazioni strategiche e tecnologiche.
Molti ricorderanno la celebre frase di Rhett Butler in “Via col Vento” in risposta ai facili entusiasmi dei secessionisti: “Non c’è una sola fabbrica di cannoni in tutto il Sud”. Ebbene, la Guerra di Secessione fu il primo conflitto totale in cui la quantità e la qualità dell’artiglieria si rivelarono decisivi.
Qualche anno dopo, la guerra franco-prussiana fu la prova decisiva: la superiorità dei cannoni di Von Moltke riuscì ad annullare il vantaggio dato ai francesi dal superbo fucile Chassepot, tanto che negli scontri di fanteria le perdite prussiane furono superiori a quelle francesi, mentre quando entrava in campo l’artiglieria, i soldati di Napoleone III avevano regolarmente la peggio.
Questa consapevolezza spinse gli eserciti europei a dotarsi di obici sempre più potenti e precisi, e anche di una base industriale in grado di produrre quantità impressionanti sia di pezzi che di munizioni. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, i cannoni di ogni calibro si contavano ormai a migliaia in ogni armata e nel corso del conflitto le industrie belliche arrivarono a sfornare centinaia di migliaia di proiettili al giorno.
Le cifre che leggiamo oggi sui colpi che i russi sparano ogni giorno o che la NATO prevede di consegnare agli ucraini impallidiscono di fronte a quelle della Grande Guerra: solo per fare due esempi, i tedeschi, solo nel 1916 e solo nelle battaglie di Verdun e della Somme, consumarono circa sessanta milioni di proiettili e gli anglo-francesi una cifra analoga. Nel solo 21 febbraio 1916, giorno di inizio dell’attacco a Verdun, l’artiglieria di Falkenhayn sparò un milione di colpi con 808 cannoni di ogni tipo.
Nel primo dopoguerra i tagli al bilancio, la volontà di lasciarsi alle spalle la carneficina e il ruolo sempre più importante di aviazione e carri armati, anche nell’ottica di tornare alla strategia della guerra di movimento, relegarono in secondo piano l’artiglieria, arma vista come tipica della guerra di posizione.
Effettivamente nel secondo conflitto mondiale abbiamo visto come a ovest prima i carri tedeschi e poi la schiacciante superiorità aerea alleata abbiano reso più che secondario il ruolo del cannone, e così fu in larga parte anche a est fino all’inizio del 1943. Da quel momento in poi, le offensive sovietiche si scontrarono con l’ordine di Hitler di resistere sul posto a ogni costo, e tornarono i lunghi bombardamenti con migliaia di cannoni per sgretolare le difese germaniche prima di lanciarsi all’attacco.
L’Offensiva Bagration vide oltre 12.000 pezzi all’opera, quella Vistola-Oder quasi 14.000 e un numero pari tra mortai e lanciarazzi e infine per l’attacco finale a Berlino ne vennero radunati oltre 20.000. Numeri enormemente superiori a quelli cui siamo abituati dal secondo dopoguerra.
I conflitti combattuti dagli USA e dai loro alleati, dalla Corea in poi, hanno modellato la visione occidentale dell’uso dell’artiglieria: molto limitato, con scorte di munizioni che a Verdun si sarebbero esaurite in un giorno. Del resto, o l’arma aerea consentiva di avere ragione dell’avversario oppure si trattava di combattere un nemico sfuggente come in Vietnam, situazione in cui i cannoni servono a poco.
Nel frattempo, i sovietici continuavano a riservare una grande importanza agli obici in vista di un ipotetico scontro in Germania con la NATO, e accumulavano enormi scorte di proiettili. Scorte che spiegano come gli ucraini siano stati in grado per lunghi mesi di sparare una media di 6000 colpi al giorno, cifra che farebbe esaurire gli arsenali dei Paesi europei in qualche settimana
Dopo il crollo dell’URSS, le guerre a cui abbiamo assistito sono state contro nemici infinitamente più deboli, risolte praticamente solo dall’aviazione. In Iraq e Afghanistan, poi, il carattere di guerriglia assunto dalla resistenza locale ha reso tutto sommato inutile disporre di un ampio parco di artiglieria.
Così, negli ultimi trent’anni le forze NATO hanno dato la priorità all’aviazione, alla logistica e alla tecnologia, privilegiando forze armate snelle e ben equipaggiate, modellate sui conflitti a cui avevano partecipato. Anche la base industriale venne modellata in tal guisa, dando priorità alla qualità sulla quantità.
L’offensiva russa dello scorso febbraio, e anche la risposta di Kiev, sono stati uno shock: trincee, guerra di attrito e cannoni ovunque, in una sorta di Verdun 2.0 per via dei droni e dei missili. E la NATO si è scoperta inadatta a condurre una battaglia di materiali, facendo sempre più fatica a rifornire Zelensky delle munizioni necessarie, peraltro a costo di ridurre le proprie scorte ai livelli di guardia.
I russi, dal canto loro, hanno finito missili e proiettili una dozzina di volte secondo i nostri media. Ma siccome i russi non leggono i nostri giornali non lo sanno e continuano a sparare. Forse la base industriale ereditata dall’URSS e ammodernata nell’ultimo decennio potrebbero spiegare il mistero, per dir così.
A Stalin viene tradizionalmente attribuita una frase che, in realtà, risale probabilmente a Marx ed Engels: “Quantity has a quality all its own”. Avere mezzi migliori serve fino a un certo punto: il Tiger tedesco era certamente migliore sia del T-34 che dello Sherman, eppure tutti sanno come è andata a finire.
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