Curiosa questa Europa, in cui politici, opinionisti e media si dividono apertamente tra Donald Trump e Kamala Harris e diventa una professione di fede politica schierarsi per l’uno o l’altra nelle imminenti presidenziali Usa. Viktor Orban, dall’Ungheria, e il vicepremier italiano Matteo Salvini tifano per “The Donald” e non ne fanno mistero; a favore di Harris si sono esposti ufficialmente solo due leader del Vecchio Continente, il premier norvegese Jonas Gahr Støre e il collega kosovaro Albin Kurti, ma di fatto per la candidata democratica hanno spinto anche i principali partiti progressisti del Vecchio Continente, dalla Spd tedesca al Pd italiano.
La politica europea vive le elezioni americane come sfida di casa propria, e si arriva al paradossale appiattimento mostrato nella giornata dell’1 novembre dal gruppo europeo dei Verdi che ha chiesto alla candidata ecologista alle presidenziali Usa, Jill Stein, di ritirarsi dalla corsa per lasciare strada alla Harris. Paradossale perché Stein sta conducendo una campagna mirata a mostrare gli errori dei democratici sulla guerra di Gaza e contro il sostegno acritico a Israele, ma a guidare il gruppo europeo sono i Verdi tedeschi della vicecancelliera Annalena Baerbock, che di recente ha apertamente giustificato i bombardamenti di Tel Aviv sui civili palestinesi.
La polarizzazione su due candidati spinge questi processi semplificatori. L’ulteriore dicotomia imposta da un voto divisivo come pochi in passato aumenta il sentimento di identificazione. E chiaramente non senza elementi di verità: un sincero progressista o un conservatore convinto certamente sapranno bene quale figura approssima meglio la loro visione del mondo. Il nodo politico, però, è in definitiva ben più complesso: in Europa l’approssimarsi del voto Usa viene visto spesso come un redde rationem, quasi che nei cinquanta Stati si eleggesse il leader del mondo intero e che dalla sua volontà personale dipendano i destini degli scenari globali. Ma per quanto riguarda il Vecchio Continente…
In definitiva, infatti, per l’Europa il prossimo mandato presidenziale sarà ancora da “America First”. Un precetto sbandierato, nel caso di amministrazione Trump. Un dato di fatto reso operativo, in caso di continuità tra Joe Biden e la vice uscente Harris. Ma molti dati di fatto contribuiscono a lasciar pensare che proseguirà la comune volontà di guardare all’Europa come al primo satellite americano a cui sia il primo Trump sia Biden hanno contribuito. Mettiamo in fila alcuni elementi.
Innanzitutto, gli scenari geopolitici. Spesso la discussione viene fatta riguardo la guerra in Ucraina e i possibili sviluppi a prescindere da chi sarà il vincitore. Ma la guerra in Ucraina, prosieguo del conflitto in Donbass nel quale Trump non ha mancato di sostenere Kiev, è stata ormai interiorizzata e, va detto, la graduale avanzata russa non cambia il quadro strategico che vede Washington “vincitrice”: Russia sanzionata, asse con l’Europa spezzato e, soprattutto, Germania ridimensionata come potenza concorrente in campo economico.
Più decisivo per gli scenari europei, a livello di grande politica, sarà invece l’esito della guerra in Medio Oriente. Qui l’obiettivo americano, al netto degli imbarazzi su Gaza, è chiaro: un gioco delle tre carte con Israele, un “poliziotto buono/poliziotto cattivo” che copre la sostanziale accettazione della strategia israeliana di de-strutturare il Medio Oriente per rendere Tel Aviv più coesa e i rivali irretiti nei confronti dello Stato Ebraico. Mossa che serve anche a Washington, in nome del precetto secondo cui una regione tanto strategica o viene controllata dagli Usa o deve esser resa inagibile agli avversari, a partire dalla Cina. Per l’Europa, Trump o Harris che sia, questo vorrà dire il rischio di una crescente instabilità su diversi fronti, dalle rotte commerciali alle migrazioni passando per l’allerta terrorismo, come dopo le primavere arabe sostenute da Barack Obama nello scorso decennio.
Veniamo poi al quadro economico. In questo ambito Trump e Harris promuovono strategie diverse. The Donald si dichiara favorevole alle tariffe massicce, ai dazi, alla possibilità di paventare guerre commerciali. E in campo energetico è un convinto assertore del rilancio della produzione di gas e petrolio. Harris, invece, intende spingere sull’industria green e sugli investimenti già lanciati da Biden, e guarda meno al nodo daziario. Cosa implica questo per l’Europa? Il fatto che il Vecchio Continente, in un modo o nell’altro, sarà messo in secondo piano. Colpito da tariffe e dazi diretti in caso di Trump 2.0; messo in condizioni di minorità da Harris qualora continuassero le manovre di investimento che hanno già drenato miliardi di euro di fondi dalla transizione e dall’industrializzazione europea a favore di quella americana.
In parallelo a questo, né Trump né Harris certamente verranno meno al principio della supremazia energetica (energy dominance) che vede l’Europa mercato privilegiato dell’export di materie prime come il gas naturale liquefatto da parte degli Usa. Strategia avviata da Obama, consolidata da Trump e non negata da Biden. E il combinato disposto tra una rottura del rapporto energetico Russia-Europa, l’aumento dell’export americano e il palese vantaggio di prezzo garantito dall’indipendenza energetica rispetto ai partner di oltre Atlantico consolida l’America First bipartisan. Sfruttando questi vantaggi, l’amministrazione Biden ha finanziato sussidi nei settori strategici come l’Inflation Reduction Act sulle tecnologie green e il Chips Act sui semiconduttori che sono stati visti da molti in Europa come un’avvisaglia di “guerra economica”.
A Washington, insomma, è sempre America First. Al netto di ogni pur sensibile differenza ideologica, le linee guida dell’interesse nazionale sono chiare. Biden ha ammantato, con l’idea della “partnership transatlantica“, un consolidamento dell’influenza americana sull’Ue che tra guerre, crisi economiche, scenari energetici in mutamento e soprattutto l’assenza di una vera agenda europea per gli scenari globali è destinata a perdurare. Indipendentemente dai differenti toni e dalla retorica che li contraddistinguerà, Harris e Trump non cambieranno molto su questo fronte. Ed è questa la vera notizia da sottolineare.
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