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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

Sono passati solo due mesi dalla consegna del Rapporto Draghi sulla competitività dell’UE ed è già obsoleto, senza contare le omissioni, distorsioni, ambiguità, ecc..

 

Omissioni, distorsioni, ambiguità, utopie nel rapporto di Draghi sull’Europa

di Giorgio Vitangeli - 01/11/2024

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/omissioni-distorsioni-ambiguita-utopie-nel-rapporto-di-draghi-sull-europa

Omissioni, distorsioni, ambiguità, utopie nel rapporto di Draghi sull’Europa

Fonte: Italicum

Sono passati solo due mesi dalla consegna alla Commissione di Bruxelles del Rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa, accolto dalla stampa italiana come una sorta d’ispirata rivelazione della via che l’Europa deve seguire se vuole salvarsi dalla decadenza economica, politica e sociale che l’hanno caratterizzata in questi ultimi decenni.
Sono passati solo due mesi ma quel rapporto sembra quasi appartenere ad un altro tempo, reso obsoleto dai venti di guerra che soffiano con improvvisa e crescente violenza in Europa e nel Mediterraneo e dal prospettarsi di nuovi equilibri politici all’interno dell’Unione Europea.
Ma non è solo lo scenario globale in rapida evoluzione che già fa apparire datata quella relazione. Essa infatti invece d’essere la bussola della nuova Commissione rischia di finire dimenticata in qualche cassetto, ha osservato amaramente il commissario all’economia della Commissione uscente Paolo Gentiloni, in una intervista a Sky Tg24. E non è solo per l’inflessibile opposizione della Germania e di alcuni Paesi nordici all’idea di un debito comune “monstre” con cui finanziare i poderosi investimenti che dovrebbero rilanciare l’economia europea, che è l’idea centrale della Relazione Draghi. E’ l’intero vecchio equilibrio politico dell’Unione Europea che sta crollando, come hanno evidenziato le recenti elezioni in alcuni “Länder” della Germania, con la poderosa avanzata dei partiti sovranisti. E l’aperto scontro tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e Viktor Orban, presidente di turno del Consiglio europeo è stata una ulteriore manifestazione di questa faglia tellurica che attraversa ormai tutta l’Unione e che ne mina sempre più la stabilità.
Malgrado tutto ciò la relazione Draghi, per vari aspetti largamente ripetitiva, merita lo sforzo di un’attenta lettura. Essa infatti pur contenendo evidenti omissioni, distorsioni palesi della verità, ambiguità, adesione acritica ai dogmi del “pensiero unico” imperante, proposte al momento irrealizzabili, illustra anche e documenta alcuni aspetti essenziali del declino dell’Unione Europea ed alcuni problemi essenziali che oggi le Nazioni europee devono affrontare: l’emergere della Cina come potenza globale; il profilarsi di un sistema politico ed economico multipolare; il tendenziale frammentarsi del mondo in aree economiche contrapposte; e la fine della globalizzazione, con la riduzione del commercio internazionale che ciò comporta. Ed infine, ma non è certo l’ultimo dei problemi, il declino demografico dell’Europa e soprattutto la sua perdita di competitività rispetto agli Stati Uniti.
Questa parte della relazione Draghi potrebbe essere anche condivisa, quantomeno in alcuni aspetti, malgrado un certo schematismo semplicistico. Draghi infatti sottolinea e documenta ampiamente, numeri alla mano e grafici conseguenti, che negli ultimi decenni si è creato un ampio divario tra la crescita del “Pil” in Europa e negli Stati Uniti, ove, conseguentemente, dal 2000 ad oggi la crescita del reddito disponibile “pro capite” è stata quasi doppia rispetto a quella registrata in Europa. La causa di questo divario, secondo Draghi, è stata la minor crescita della produttività in Europa, e questa minore produttività è conseguenza, essenzialmente, del minore sviluppo delle tecnologie innovative e del ritardo accumulato dall’Europa nel settore digitale (delle 50 aziende digitali più importanti al mondo, solo 4 sono europee). In conclusione: il ritardo tecnologico ha generato in Europa una diminuzione della produttività; la minor produttività ha determinato un rallentamento nella crescita del “Pil”. E, avverte Draghi, se l’UE dovesse mantenere il tasso medio di crescita della produttività che ha registrato nell’ultimo decennio, cioè dal 2015 ad oggi, esso sarebbe appena sufficiente a mantenere costante il “Pil” sino al 2050. Cioè avremmo per i prossimi 25 anni sviluppo zero.
A parte, come dicevamo, l’estrema schematicità dell’analisi questa parte della relazione è sostanzialmente accettabile. E’ evidente il fatto che i Paesi europei, se vogliono recuperare competitività, debbono recuperare terreno nel campo delle tecnologie innovative, anche se non è solo questo che determina la competitività di un sistema economico.
Ma se nell’analisi della situazione attuale e dei problemi che essa pone ai Paesi europei la relazione Draghi è in parte condivisibile, ciò che è tutt’altro che condivisibile sono le soluzioni che propone. Essa infatti individua tre aree d’investimento in cui l’Europa dovrebbe impegnare nei prossimi anni enormi risorse; la prima è appunto il settore delle tecnologie innovative; la seconda è la decarbonizzazione delle fonti energetiche, che deve avvenire, dice Draghi, “per il bene del nostro pianeta” ed infine le spese per la difesa, per aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze perché “con l’affievolirsi dell’era della stabilità geopolitica aumenta il rischio che l’insicurezza crescente diventi una minaccia per la crescita e la libertà”.  
Sconcerta il fatto che Draghi continui ad insistere tenacemente sulla mitologia della causa antropica del mutamento climatico in atto, con una adesione totale ai dogmi del “pensiero unico” dominante. Una mitologia, quella della causa umana del mutamento del clima, già contestata con forza da centinaia di autorevoli scienziati di vari Paesi in un “manifesto” da essi sottoscritto sei anni or sono. Qualche esempio per quanto riguarda gli scienziati italiani? Il prof. Antonino Zichichi, professore emerito del Dipartimento di fisica superiore all’ Università di Bologna ha dichiarato: “Il riscaldamento globale antropico è solo una congettura non dimostrata, dedotta solo da alcuni modelli teorici”. Ed il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia in una audizione al Senato del 2014 , ha dichiarato tra l’altro: “Oggi noi pensiamo che se teniamo l’anidride carbonica sotto controllo il clima della terra resterà invariato. Questo non è assolutamente vero”. Draghi, a quanto pare, crede più a quella povera ragazzina svedese cinicamente usata quale icona della transizione “green”, che non al premio Nobel Rubbia.
Ma non sono solo gli scienziati più prestigiosi ad aver preso apertamente posizione contro l’idea che il riscaldamento climatico sia causato dagli uomini, ed in particolare dall’uso dei combustibili fossili, e che bisogna quindi eliminare l’uso del carbone e degli idrocarburi per “salvare il pianeta”. Ora anche alcuni dei più autorevoli imprenditori cominciano a scendere in campo contro quella sorta di dogma che si vorrebbe imporre.
In Germania  Sigmar Gabriel, già presidente del Consiglio di vigilanza di Thyssen-Krupp Steel in un’intervista dello scorso ottobre al quotidiano economico – finanziario Handelsblatt ha messo sotto accusa tutta la strategia dell’Unione Europea volta allo sviluppo della motorizzazione elettrica. “Non ho mai capito - ha detto infatti - perché noi tedeschi stiamo rovinando così, volontariamente, uno dei pilastri più importanti della nostra economia, della nostra prosperità, eliminando gradualmente, per decreto, i motori a combustione interna. Nessun altro Paese al mondo farebbe una cosa del genere”. Sigmar Gabriel ha espresso inoltre forti preoccupazioni per il futuro di tutto l’indotto e della componentistica connessa con l’industria automobilistica. Componentistica, ricordiamo per inciso, che in parte considerevole è fornita alla Germania da industrie italiane.
In Italia è stato Claudio Descalzi, presidente dell’Eni , ospite della “Convention economica” di Forza Italia, a sparare ad alzo zero contro il “Green Deal” che Draghi considera nella sua relazione uno dei pilastri  su cui dovrebbe poggiare la ripresa della competitività dell’Unione e su cui suggerisce di investire annualmente centinaia di miliardi di euro.
“Non voglio essere antieuropeo - ha chiarito Descalzi - ma anche la stupidità uccide, e ci sta uccidendo, perché dobbiamo subirla sulla base di ideologie ridicole che ci vengono dettate da una minoranza dell’Europa, non una maggioranza, e noi dobbiamo continuare a digerirle e chinare il capo, morendo lentamente”.
E quasi in aperta contestazione della relazione Draghi ha aggiunto che l’Europa è competitiva nelle tecnologie ambientali, ma non sulla crescita in cui investono invece cinesi ed americani. “Noi abbiamo fermato lo sviluppo industriale – ha aggiunto - privilegiando il terziario, nel mito della globalizzazione, ed importiamo ora più del doppio di quello che esportiamo”. Quanto poi al fatto che l’Europa sarebbe la più virtuosa, perché emette nell’atmosfera meno anidride carbonica, “è una favola, - ha precisato, - l’Europa ha ridotto le emissioni perché ha delocalizzato molte produzioni altrove”.
Ma perché malgrado alcuni dei più autorevoli scienziati dissentano dall’idea che causa del riscaldamento climatico sia l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera bruciando combustibili fossili, ed alcuni dei più importanti imprenditori denuncino apertamente i disastri economici che la “transizione verde” sta già facendo, l’apparente maggior parte degli scienziati insiste invece nella tesi che solo riducendo l’emissione di anidride carbonica si può “salvare il pianeta”? Perché, risponde il prof. Zichichi, “hanno costruito modelli matematici buoni alla bisogna. Ricorrono a parametri arbitrari. Alterano i calcoli con delle supposizioni per fare in modo che i risultati diano loro ragione”.
Viene in mente la storiella del proprietario di una società che doveva dare l’incarico ad un revisore dei conti, e alla fine della conversazione, quasi distrattamente gli domanda: “Quanto fa sei per sette?” E quello, guardandosi prima attorno ed assicuratosi che non c’è nessuno sussurra: “Lei quanto vuole che faccia?”
A questo punto sorge inevitabilmente un’altra domanda. Chi e perché avrebbe interesse a indurre a far conti falsi per spingere una parte almeno del mondo verso un divieto di usare combustibili fossili?
A questa domanda non esiste oggi risposta: si possono fare solo supposizioni, col risultato di sembrare complottisti ridicoli. Ma sarà bene anche ricordare che i cosiddetti “complotti” non sono sempre il frutto risibile di menti malate. Essi esistono, da che mondo è mondo. Il cavallo di Troia è il primo esempio tramandatoci, di cui i malcapitati troiani si accorsero troppo tardi. Nei secoli più recenti, con un nome più presentabile, i complotti si chiamavano diplomazia segreta, ma sempre complotti erano.
Uno degli ultimi esempi più clamorosi è stato quello della crisi energetica che sconvolse il mondo negli anni settanta del secolo scorso, quando centinaia di scienziati sostenevano compatti che la disponibilità di petrolio in circa trent’anni si sarebbe esaurita. Quell’affermazione divenne presto verità indiscutibile (lo diceva la scienza…), ed il prezzo del greggio di conseguenza salì alle stelle. Ebbene: quella “verità indiscutibile” era solo una “fake news” diffusa ad arte. La dimostrazione inconfutabile, la prova regina è  che dopo mezzo secolo ci sono oggi più riserve petrolifere di allora. Vi fu in realtà un complotto. E’ venuto alla luce infatti un patto segreto tra Arabia Saudita e Stati Uniti in base al quale non solo il prezzo del petrolio doveva essere espresso in dollari, ma solo in dollari il petrolio doveva essere pagato. La ragione di quel patto segreto è presto detta. Nel 1973, dopo la dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro in oro, la moneta americana era in crisi profonda, aveva subito l’onta di una svalutazione ed il suo ruolo di moneta degli scambi internazionali cominciava ad essere contestato. Gli Stati Uniti rischiavano di perdere quel “diritto di signoraggio” che si erano conquistati nel 1944 con gli Accordi di Bretton Woods. Era in gioco la loro egemonia sull’Occidente. Ma il fatto che il petrolio si dovesse pagare solo in dollari, e che il prezzo del petrolio fosse salito alle stelle perché le riserve mondiali la scienza diceva che erano in via di esaurimento, fece salire alle stelle anche le richieste della valuta americana, che riprese gran forza, ed il suo ruolo di moneta degli scambi internazionali (con il signoraggio che ne deriva) è rimasto immutato per un altro mezzo secolo, ed ancora dura. Inventore di questo “complotto perfetto” pare fosse stato Henry Kissinger, l’ebreo tedesco naturalizzato americano che in quegli anni era diventato Segretario di Stato degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il riscaldamento climatico, di illazioni complottistiche se ne potrebbe fare più d’una, ma ce ne guardiamo bene. Una cosa però è certa: questo tentativo di spacciare per incontestabile la tesi di un riscaldamento d’origine antropica, questo utilizzo, a sostegno della tesi, di tutti i classici strumenti delle campagne pubblicitarie di massa (vedi ruolo di “testimonial” svolto da Greta Thunberg, invitata a parlare all’ONU, al Forum economico di Davos, ecc., mentre i più autorevoli scienziati dissenzienti vengono di fatto silenziati), il trascurare il fatto che la transizione verde sta creando già dissesti in intere filiere industriali (vedi industria automobilistica) e richiede investimenti colossali con esito incerto (a meno che un ruolo primario nella produzione di energia elettrica non sia assegnato al nucleare), tutto ciò sottende evidentemente uno scopo ed un disegno, altrimenti non avrebbe senso. E gli autori non possono essere che coloro che realmente comandano nel mondo.
Ma passiamo ora al terzo caposaldo su cui si dovrebbe fondare la rimonta dell’economia europea, cioè un forte aumento delle spese militari. Sintetizziamo le ragioni per cui, secondo Draghi, l’Europa non può più sottrarsi a tale impegno. Essa ha beneficiato sinora di un ambiente globale favorevole: il commercio mondiale cresceva continuamente e la stabilità geopolitica era assicurata dall’egemonia americana. La copertura della difesa del nostro continente da parte degli Stati Uniti permetteva ai Paesi europei di riservare per la difesa un livello basso di risorse, destinandone una quota maggiore ad altre priorità. Inoltre in un mondo di geopolitica stabile non avevamo motivo di preoccuparci per la crescente dipendenza da Paesi che ci aspettavamo rimanessero amici (l’Europa, grazie alla rete di metanodotti costruita, era giunta ad importare dalla Russia quasi la metà del suo fabbisogno di gas naturale, ed il prezzo basso apportava competitività al nostro sistema industriale). Ma quel tranquillo e favorevole scenario globale è svanito “a causa della aggressione arbitraria della Russia all’Ucraina, del deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, e della crescente instabilità in Africa, fonte di molte materie prime fondamentali per l’economia europea”. L’Europa, “ha perso bruscamente il suo più importante fornitore di energia a basso costo”, cioè la Russia e “attualmente imprese europee debbono far fronte a prezzi dell’elettricità 2-3 volte superiori a quelle degli Stati Uniti ed a prezzi del gas naturale (che ora ci forniscono gli americani) 4-5 volte più alti”.  L’era della rapida crescita del commercio mondiale inoltre sta svanendo e le imprese europee debbono affrontare una maggiore concorrenza ed un minore accesso sui mercati esteri.
L’Europa, conclude Draghi, deve dunque reagire a un mondo politico meno stabile in cui le dipendenze stanno diventando vulnerabilità e non si può contare su altri soggetti per la propria sicurezza. Deve affrontare un grado di sicurezza radicalmente mutato ai suoi confini. E visto che la sua spesa aggregata per la sicurezza è un terzo dei livelli degli Stati Uniti e che le scorte sono depauperate, bisogna rafforzare gli investimenti per la difesa.
Le conclusioni di Draghi recepiscono in realtà la volontà degli Stati Uniti, che lamentano da sempre lo scarso apporto europeo alle spese “per la difesa comune” ed hanno chiesto recentemente ai Paesi membri della NATO di portare le spese per la difesa almeno al 4% del loro prodotto interno lordo. La descrizione degli eventi che hanno portato al mutamento dello scenario globale ripete inoltre la “vulgata” degli Stati Uniti e della NATO da essi egemonizzata, piena di omissioni, di distorsioni, di autentici travisamenti. E vediamo rapidamente le più macroscopiche di queste omissioni e distorsioni, che rendono carente e falso il quadro che la relazione descrive.
Iniziamo dalla prima affermazione: quella in base a cui l’ “ombrello atomico” fornito dagli Stati Uniti all’Europa, ha permesso sinora ai Paesi europei di risparmiare sulle spese militari, destinando più risorse per altri obiettivi, ed in primo luogo per il “welfare”, cioè per uno Stato sociale.
Questa storia dura dai primi anni cinquanta del secolo scorso, cioè da oltre tre quarti di secolo. Già allora infatti gli Stati Uniti chiedevano che i Paesi europei fornissero un maggior contributo alle spese militari della NATO. E la resistenza degli europei, che di fatto opponevano un rifiuto “fornì agli Stati Uniti l’alibi per escogitare sistemi non fiscali (cioè monetari) per finanziare le politiche di difesa” come ha scritto l’economista inglese Susan Strange in un libro dal titolo “Denaro impazzito”, pubblicato anche in Italia nel 1999 dalle Edizioni Comunità.
In realtà già il fatto che il dollaro sia la valuta degli scambi internazionale dona agli Stati Uniti un “diritto di signoraggio”. E lo ha ricordato apertamente Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia nelle sue Memorie, stampate postume, ove si può leggere che “Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di signoraggio sul resto del mondo”. In quel “resto del mondo” sono compresi ovviamente, in prima linea, anche i Paesi europei. Lo stesso Guido Carli all’Assemblea della Banca d’Italia del 1969, nelle sue “Considerazioni finali” aveva sottolineato con parole inequivoche  che “Le risorse reali a favore dei Paesi cui gli Stati Uniti hanno concesso finanziamenti o elargito crediti sono state fornite dal resto del mondo, e principalmente da tre Paesi: la Germania, l’Italia ed i Giappone” (Paesi allora in forte avanzo con la bilancia commerciale). Ed ovviamente quei trasferimenti di risorse monetarie dai Paesi vinti della seconda guerra mondiale al Paese vincitore non è detto che fossero andate a finanziare solo crediti; potevano benissimo servire per le spese militari o per finanziare il più alto livello di vita degli americani. Un ulteriore elemento di distorsione monetaria fu la “piramide di carta degli eurodollari” (copyright anche questo di Guido Carli) che sfuggiva al controllo delle Banche centrali.
Poi nel ferragosto del 1971 il presidente americano Nixon dichiarò finita la convertibilità del dollaro in oro da parte degli Stati Uniti, ed il sistema di Bretton Woods collassò. Ma “Il collasso del sistema in realtà è stato un vero e proprio sabotaggio” ha scritto ancora Susan Strange nel libro già citato. Sabotaggio da parte degli Stati Uniti, ovviamente (a proposito di “complotti”…), cui seguì per qualche tempo una “ignobile pantomima” (sono ancora parole della Strange) volta a fingere che si tentava con vari congressi di economisti e politici di concordare e instaurare un nuovo sistema monetario internazionale. E vennero invece i cambi liberamente fluttuati, la crisi petrolifera (sempre a proposito di “complotti”) l’alluvione dei petrodollari, i derivati, la finanziarizzazione dell’economia, il “denaro impazzito”, la bisca dei mercati finanziari con la roulette truccata ed i giganteschi Fondi e le banche d’investimento americani come croupier.
Conclusione: le spese militari dell’Impero americano gli europei le hanno pagate da sempre, e con gli interessi. Ulteriore considerazione: è vero, come ricorda Draghi, che per la sicurezza i Paesi europei, complessivamente, spendono un terzo di quanto spendono gli Stati Uniti, ma c’è da aggiungere che gli Stati Uniti debbono difendere la loro egemonia mondiale, con centinaia e centinaia di basi militari sparse in tutti i continenti e su tutti gli Oceani. L’Europa deve difendere solo se stessa, e malgrado ciò (anche questo lo ammette Draghi) è al secondo posto al mondo per spese militari. Ma “le sue frontiere ora sono minacciate, e l’ambiente geopolitico è in evoluzione a causa della arbitraria aggressione della Russia all’Ucraina, la dipendenza di forniture da Paesi che ci aspettavamo rimanessero amici è venuta a mancare; la Russia ha bruscamente interrotto le sue forniture di gas naturale all’Europa”.
Qui la distorsione dei fatti e degli scenari nella relazione Draghi sfocia apertamente nella falsità. Quando infatti venne riunificata la Germania, la promessa formale che gli Stati Uniti fecero a Gorbaciov era che la Nato non avrebbe avanzato le sue basi anche nell’ex Germania comunista, avvicinandosi alle frontiere russe “neppure di un metro”. Ebbene da allora sono entrati nella Nato tutti gli ex Paesi comunisti dell’Europa Centrale, del Baltico, dei Balcani, dell’Europa Orientale e cioè la Polonia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, la Slovenia, la Croazia, l’Albania, la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Bulgaria e la Romania, oltre alla Finlandia ed alla Svezia, che erano Paesi neutrali. Dunque: non sono le frontiere dell’Europa ad essere minacciate, ma è la Nato che minaccia la Russia, con un continuo “abbaiare alle sue frontiere” (parole di Papa Francesco) con grandi manovre militari e che voleva e vuole inglobare nella Nato anche l’Ucraina, comprese le sue regioni a maggioranza russa che non ne vogliono sapere e con un referendum hanno deciso, a stragrande maggioranza, che vogliono far parte della Federazione russa, non dell’Ucraina.
Dunque, non siamo noi a doverci dolere perché qualche Paese, (leggi Russia) che credevamo rimanesse nostro amico non lo è più. Semmai è vero il contrario: è la Russia che dovrebbe dolersi. E’ vero che le forniture di gas dalla Russia, di cui tanto beneficiava l’economia dell’Europa sono state interrotte di colpo. Il “colpo” è stato quello con cui gli americani hanno fatto saltare il gasdotto Nord Stream con cui il gas veniva trasportato in Germania, tentando poi di far credere che a farlo saltare erano stati i russi. Si dimenticavano, tra l’altro, di quel che aveva detto il presidente americano Biden, poco prima che scoppiasse la guerra tra Russia ed Ucraina, forse già mentalmente tanto confuso da rivelare candidamente quello che con tutta evidenza sarebbe dovuto restare un segreto di Stato. Il 7 febbraio 2022 in una conferenza stampa un giornalista chiese a Biden: “Cosa sarà del Nord Stream 2 in caso di guerra? “Se la Russia invade, - rispose Biden,- non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a questa storia”. “Ma come farete se il progetto è sotto controllo della Germania?” obiettò il giornalista: E Biden: “Vi garantisco che saremo in grado di farlo”. E ad operazione avvenuta l’ex ministro degli esteri polacco Radek Sikorski commentava giulivo e sarcastico su Twitter: “Grazie Cia per l’operazione di manutenzione speciale al Nord Stream che serviva a Putin per ricattare impunemente o fare la guerra all’Europa Orientale”.
Due parole infine su un “esercito europeo”. Se ne cominciò a parlare nei primi anni cinquanta del secolo scorso, con la progettata istituzione di una Comunità Europea di Difesa: la CED. Ma a scanso di equivoci già l’art. 5 di tale Trattato (che non entrò mai in vigore per l’opposizione della Francia) stabiliva che la CED “doveva cooperare strettamente con la NATO”. In questi ultimi anni si è tornati a parlare di un esercito europeo. Ebbene: il 10 gennaio 2023 a Bruxelles il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, il segretario generale della NATO Jeans Stoltemberg e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen rilasciavano una dichiarazione congiunta che al punto 8 afferma: “Noi riconosciamo il valore di una difesa europea più forte e più efficace che contribuisca positivamente alla sicurezza globale e transatlantica e che sia complementare e interoperabile con la NATO”.
E’ dunque per un’Europa “complementare e interoperabile” che affianchi gli Stati Uniti nella difesa dell’Impero americano, che dovremmo aumentare, secondo Draghi, le nostre spese militari?
La nota dolente della relazione sulla competitività dell’Europa è al dunque quella della spesa. Gli investimenti necessari, secondo Draghi, equivalgono al 5% del “Pil” dell’Unione. In cifra 750-800 miliardi di euro all’anno. Un fabbisogno di entità mai vista in Europa nell’ultimo mezzo secolo. Sarà necessaria, dice Draghi, la mobilitazione degli investimenti privati ma, aggiunge, “è improbabile che il settore privato sia in grado di finanziare la maggior parte di questi investimenti senza il sostegno pubblico” Un aumento del 2% della produttività coprirebbe, sempre secondo Draghi, già un terzo della spesa fiscale richiesta. E gli altri due terzi? L’unica ipotesi è quella di un indebitamento comune dei Paesi dell’Unione. Ma con la maggiore economia d’Europa – quella tedesca - in recessione, con la Francia il cui debito pubblico è salito al 110% del “Pil” e si avvicina rapidamente a quello fuori misura dell’Italia (137,3%), con la crescita in quasi tutti i Paesi europei dei partiti sovranisti, con i Paesi del Nord Europa sedicenti “virtuosi” i cui governi e le cui opinioni pubbliche vedono come il fumo negli occhi l’idea di  debiti in comune, l’ipotesi avanzata da Draghi appare utopistica.
Ciò detto, come accennavamo all’inizio, se l’impianto centrale della relazione (cioè la sua sottesa visione geopolitica e la scelta della decarbonizzazione e del settore militare in funzione euro atlantica quali due dei tre settori prioritari d’investimento) è del tutto inaccettabile, vi sono in essa anche  elementi interessanti nascosti qua e là nei molti dettagli, nei numeri citati, nei grafici esposti, e c’è persino qualche timido accenno ad una Europa “attore indipendente sulla scena mondiale”, che “dovrebbe evitare gli svantaggi del modello sociale americano” anche perché l’Europa “sta entrando in un periodo in cui il rapido cambiamento tecnologico, l’irruzione dell’Intelligenza Artificiale, la riduzione della popolazione in età lavorativa, potrà portare notevoli disagi per i lavoratori ed aumentare le disuguaglianze”.
Quando il carrozzone di Bruxelles sarà imploso e se sulle sue rovine si vorrà costruire l’Europa dei popoli, forse la relazione Draghi non sarà male tirarla fuori dal cassetto in cui sarà sepolta e, in tutt’altro spirito, ridargli una letta, recuperando senza pregiudizi quel di buono che c’è, se ancora fosse valido e se potesse servire. Qualche esempio? Draghi ripete spesso che l’Europa deve evitare quanto più possibile di dipendere dall’estero, senza con ciò cadere nell’autarchia. In campo militare osserva che pur avendo l’Europa eccellenti industrie che operano nel settore, tra la metà del 2022 e del 2023 ha destinato il 78% della spesa totale a fornitori esteri, di cui quasi i due terzi americani. E produciamo 12 modelli di carro armato contro uno solo degli Stati Uniti. Dipendiamo inoltre enormemente dalle importazioni di tecnologia digitale (il 75/90% della produzione è in Asia). Insiste continuamente sulla necessità che le industrie europee si coordino ed elaborino progetti comuni. E per questo non c’è bisogno di cedere sovranità, o di installare a Bruxelles o a Francoforte istituzioni sovranazionali i cui vertici nessuno ha eletto. Dice anche però che per far passi più grandi alcuni settori dovranno esser delegati a livello europeo. L’osservazione è ragionevole: non è pensabile che settori come quello spaziale, o dell’Intelligenza Artificiale, possano essere affrontati in Europa a livello nazionale. Tutto dipende da che modello di Europa si vorrà realizzare, e con quale collocazione nei rapporti internazionali e quali obiettivi geopolitici. Quella per la verità è stata la via imboccata dai Padri fondatori di un’Europa ben diversa dall’attuale, con la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) nel 1951 e con l’EURATOM e l’ESA (Comunità Europea per l’Energia Atomica) nel 1957.

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