Omissioni, distorsioni, ambiguità, utopie nel rapporto di Draghi sull’Europa
di Giorgio Vitangeli - 01/11/2024
Fonte: Italicum
Sono passati solo due mesi dalla consegna alla Commissione
di Bruxelles del Rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa,
accolto dalla stampa italiana come una sorta d’ispirata rivelazione
della via che l’Europa deve seguire se vuole salvarsi dalla decadenza
economica, politica e sociale che l’hanno caratterizzata in questi
ultimi decenni.
Sono passati solo due mesi ma quel rapporto sembra
quasi appartenere ad un altro tempo, reso obsoleto dai venti di guerra
che soffiano con improvvisa e crescente violenza in Europa e nel
Mediterraneo e dal prospettarsi di nuovi equilibri politici all’interno
dell’Unione Europea.
Ma non è solo lo scenario globale in rapida
evoluzione che già fa apparire datata quella relazione. Essa infatti
invece d’essere la bussola della nuova Commissione rischia di finire
dimenticata in qualche cassetto, ha osservato amaramente il commissario
all’economia della Commissione uscente Paolo Gentiloni, in una
intervista a Sky Tg24. E non è solo per l’inflessibile opposizione della
Germania e di alcuni Paesi nordici all’idea di un debito comune
“monstre” con cui finanziare i poderosi investimenti che dovrebbero
rilanciare l’economia europea, che è l’idea centrale della Relazione
Draghi. E’ l’intero vecchio equilibrio politico dell’Unione Europea che
sta crollando, come hanno evidenziato le recenti elezioni in alcuni
“Länder” della Germania, con la poderosa avanzata dei partiti
sovranisti. E l’aperto scontro tra la presidente della Commissione
Ursula von der Leyen e Viktor Orban, presidente di turno del Consiglio
europeo è stata una ulteriore manifestazione di questa faglia tellurica
che attraversa ormai tutta l’Unione e che ne mina sempre più la
stabilità.
Malgrado tutto ciò la relazione Draghi, per vari aspetti
largamente ripetitiva, merita lo sforzo di un’attenta lettura. Essa
infatti pur contenendo evidenti omissioni, distorsioni palesi della
verità, ambiguità, adesione acritica ai dogmi del “pensiero unico”
imperante, proposte al momento irrealizzabili, illustra anche e
documenta alcuni aspetti essenziali del declino dell’Unione Europea ed
alcuni problemi essenziali che oggi le Nazioni europee devono
affrontare: l’emergere della Cina come potenza globale; il profilarsi di
un sistema politico ed economico multipolare; il tendenziale
frammentarsi del mondo in aree economiche contrapposte; e la fine della
globalizzazione, con la riduzione del commercio internazionale che ciò
comporta. Ed infine, ma non è certo l’ultimo dei problemi, il declino
demografico dell’Europa e soprattutto la sua perdita di competitività
rispetto agli Stati Uniti.
Questa parte della relazione Draghi
potrebbe essere anche condivisa, quantomeno in alcuni aspetti, malgrado
un certo schematismo semplicistico. Draghi infatti sottolinea e
documenta ampiamente, numeri alla mano e grafici conseguenti, che negli
ultimi decenni si è creato un ampio divario tra la crescita del “Pil” in
Europa e negli Stati Uniti, ove, conseguentemente, dal 2000 ad oggi la
crescita del reddito disponibile “pro capite” è stata quasi doppia
rispetto a quella registrata in Europa. La causa di questo divario,
secondo Draghi, è stata la minor crescita della produttività in Europa, e
questa minore produttività è conseguenza, essenzialmente, del minore
sviluppo delle tecnologie innovative e del ritardo accumulato
dall’Europa nel settore digitale (delle 50 aziende digitali più
importanti al mondo, solo 4 sono europee). In conclusione: il ritardo
tecnologico ha generato in Europa una diminuzione della produttività; la
minor produttività ha determinato un rallentamento nella crescita del
“Pil”. E, avverte Draghi, se l’UE dovesse mantenere il tasso medio di
crescita della produttività che ha registrato nell’ultimo decennio, cioè
dal 2015 ad oggi, esso sarebbe appena sufficiente a mantenere costante
il “Pil” sino al 2050. Cioè avremmo per i prossimi 25 anni sviluppo
zero.
A parte, come dicevamo, l’estrema schematicità dell’analisi
questa parte della relazione è sostanzialmente accettabile. E’ evidente
il fatto che i Paesi europei, se vogliono recuperare competitività,
debbono recuperare terreno nel campo delle tecnologie innovative, anche
se non è solo questo che determina la competitività di un sistema
economico.
Ma se nell’analisi della situazione attuale e dei problemi
che essa pone ai Paesi europei la relazione Draghi è in parte
condivisibile, ciò che è tutt’altro che condivisibile sono le soluzioni
che propone. Essa infatti individua tre aree d’investimento in cui
l’Europa dovrebbe impegnare nei prossimi anni enormi risorse; la prima è
appunto il settore delle tecnologie innovative; la seconda è la
decarbonizzazione delle fonti energetiche, che deve avvenire, dice
Draghi, “per il bene del nostro pianeta” ed infine le spese per la
difesa, per aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze perché “con
l’affievolirsi dell’era della stabilità geopolitica aumenta il rischio
che l’insicurezza crescente diventi una minaccia per la crescita e la
libertà”.
Sconcerta il fatto che Draghi continui ad insistere
tenacemente sulla mitologia della causa antropica del mutamento
climatico in atto, con una adesione totale ai dogmi del “pensiero unico”
dominante. Una mitologia, quella della causa umana del mutamento del
clima, già contestata con forza da centinaia di autorevoli scienziati di
vari Paesi in un “manifesto” da essi sottoscritto sei anni or sono.
Qualche esempio per quanto riguarda gli scienziati italiani? Il prof.
Antonino Zichichi, professore emerito del Dipartimento di fisica
superiore all’ Università di Bologna ha dichiarato: “Il riscaldamento
globale antropico è solo una congettura non dimostrata, dedotta solo da
alcuni modelli teorici”. Ed il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia
in una audizione al Senato del 2014 , ha dichiarato tra l’altro: “Oggi
noi pensiamo che se teniamo l’anidride carbonica sotto controllo il
clima della terra resterà invariato. Questo non è assolutamente vero”.
Draghi, a quanto pare, crede più a quella povera ragazzina svedese
cinicamente usata quale icona della transizione “green”, che non al
premio Nobel Rubbia.
Ma non sono solo gli scienziati più prestigiosi
ad aver preso apertamente posizione contro l’idea che il riscaldamento
climatico sia causato dagli uomini, ed in particolare dall’uso dei
combustibili fossili, e che bisogna quindi eliminare l’uso del carbone e
degli idrocarburi per “salvare il pianeta”. Ora anche alcuni dei più
autorevoli imprenditori cominciano a scendere in campo contro quella
sorta di dogma che si vorrebbe imporre.
In Germania Sigmar Gabriel,
già presidente del Consiglio di vigilanza di Thyssen-Krupp Steel in
un’intervista dello scorso ottobre al quotidiano economico – finanziario
Handelsblatt ha messo sotto accusa tutta la strategia dell’Unione
Europea volta allo sviluppo della motorizzazione elettrica. “Non ho mai
capito - ha detto infatti - perché noi tedeschi stiamo rovinando così,
volontariamente, uno dei pilastri più importanti della nostra economia,
della nostra prosperità, eliminando gradualmente, per decreto, i motori a
combustione interna. Nessun altro Paese al mondo farebbe una cosa del
genere”. Sigmar Gabriel ha espresso inoltre forti preoccupazioni per il
futuro di tutto l’indotto e della componentistica connessa con
l’industria automobilistica. Componentistica, ricordiamo per inciso, che
in parte considerevole è fornita alla Germania da industrie italiane.
In
Italia è stato Claudio Descalzi, presidente dell’Eni , ospite della
“Convention economica” di Forza Italia, a sparare ad alzo zero contro il
“Green Deal” che Draghi considera nella sua relazione uno dei pilastri
su cui dovrebbe poggiare la ripresa della competitività dell’Unione e
su cui suggerisce di investire annualmente centinaia di miliardi di
euro.
“Non voglio essere antieuropeo - ha chiarito Descalzi - ma
anche la stupidità uccide, e ci sta uccidendo, perché dobbiamo subirla
sulla base di ideologie ridicole che ci vengono dettate da una minoranza
dell’Europa, non una maggioranza, e noi dobbiamo continuare a digerirle
e chinare il capo, morendo lentamente”.
E quasi in aperta
contestazione della relazione Draghi ha aggiunto che l’Europa è
competitiva nelle tecnologie ambientali, ma non sulla crescita in cui
investono invece cinesi ed americani. “Noi abbiamo fermato lo sviluppo
industriale – ha aggiunto - privilegiando il terziario, nel mito della
globalizzazione, ed importiamo ora più del doppio di quello che
esportiamo”. Quanto poi al fatto che l’Europa sarebbe la più virtuosa,
perché emette nell’atmosfera meno anidride carbonica, “è una favola, -
ha precisato, - l’Europa ha ridotto le emissioni perché ha delocalizzato
molte produzioni altrove”.
Ma perché malgrado alcuni dei più
autorevoli scienziati dissentano dall’idea che causa del riscaldamento
climatico sia l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera bruciando
combustibili fossili, ed alcuni dei più importanti imprenditori
denuncino apertamente i disastri economici che la “transizione verde”
sta già facendo, l’apparente maggior parte degli scienziati insiste
invece nella tesi che solo riducendo l’emissione di anidride carbonica
si può “salvare il pianeta”? Perché, risponde il prof. Zichichi, “hanno
costruito modelli matematici buoni alla bisogna. Ricorrono a parametri
arbitrari. Alterano i calcoli con delle supposizioni per fare in modo
che i risultati diano loro ragione”.
Viene in mente la storiella del
proprietario di una società che doveva dare l’incarico ad un revisore
dei conti, e alla fine della conversazione, quasi distrattamente gli
domanda: “Quanto fa sei per sette?” E quello, guardandosi prima attorno
ed assicuratosi che non c’è nessuno sussurra: “Lei quanto vuole che
faccia?”
A questo punto sorge inevitabilmente un’altra domanda. Chi e
perché avrebbe interesse a indurre a far conti falsi per spingere una
parte almeno del mondo verso un divieto di usare combustibili fossili?
A
questa domanda non esiste oggi risposta: si possono fare solo
supposizioni, col risultato di sembrare complottisti ridicoli. Ma sarà
bene anche ricordare che i cosiddetti “complotti” non sono sempre il
frutto risibile di menti malate. Essi esistono, da che mondo è mondo. Il
cavallo di Troia è il primo esempio tramandatoci, di cui i malcapitati
troiani si accorsero troppo tardi. Nei secoli più recenti, con un nome
più presentabile, i complotti si chiamavano diplomazia segreta, ma
sempre complotti erano.
Uno degli ultimi esempi più clamorosi è stato
quello della crisi energetica che sconvolse il mondo negli anni
settanta del secolo scorso, quando centinaia di scienziati sostenevano
compatti che la disponibilità di petrolio in circa trent’anni si sarebbe
esaurita. Quell’affermazione divenne presto verità indiscutibile (lo
diceva la scienza…), ed il prezzo del greggio di conseguenza salì alle
stelle. Ebbene: quella “verità indiscutibile” era solo una “fake news”
diffusa ad arte. La dimostrazione inconfutabile, la prova regina è che
dopo mezzo secolo ci sono oggi più riserve petrolifere di allora. Vi fu
in realtà un complotto. E’ venuto alla luce infatti un patto segreto tra
Arabia Saudita e Stati Uniti in base al quale non solo il prezzo del
petrolio doveva essere espresso in dollari, ma solo in dollari il
petrolio doveva essere pagato. La ragione di quel patto segreto è presto
detta. Nel 1973, dopo la dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro
in oro, la moneta americana era in crisi profonda, aveva subito l’onta
di una svalutazione ed il suo ruolo di moneta degli scambi
internazionali cominciava ad essere contestato. Gli Stati Uniti
rischiavano di perdere quel “diritto di signoraggio” che si erano
conquistati nel 1944 con gli Accordi di Bretton Woods. Era in gioco la
loro egemonia sull’Occidente. Ma il fatto che il petrolio si dovesse
pagare solo in dollari, e che il prezzo del petrolio fosse salito alle
stelle perché le riserve mondiali la scienza diceva che erano in via di
esaurimento, fece salire alle stelle anche le richieste della valuta
americana, che riprese gran forza, ed il suo ruolo di moneta degli
scambi internazionali (con il signoraggio che ne deriva) è rimasto
immutato per un altro mezzo secolo, ed ancora dura. Inventore di questo
“complotto perfetto” pare fosse stato Henry Kissinger, l’ebreo tedesco
naturalizzato americano che in quegli anni era diventato Segretario di
Stato degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il riscaldamento
climatico, di illazioni complottistiche se ne potrebbe fare più d’una,
ma ce ne guardiamo bene. Una cosa però è certa: questo tentativo di
spacciare per incontestabile la tesi di un riscaldamento d’origine
antropica, questo utilizzo, a sostegno della tesi, di tutti i classici
strumenti delle campagne pubblicitarie di massa (vedi ruolo di
“testimonial” svolto da Greta Thunberg, invitata a parlare all’ONU, al
Forum economico di Davos, ecc., mentre i più autorevoli scienziati
dissenzienti vengono di fatto silenziati), il trascurare il fatto che la
transizione verde sta creando già dissesti in intere filiere
industriali (vedi industria automobilistica) e richiede investimenti
colossali con esito incerto (a meno che un ruolo primario nella
produzione di energia elettrica non sia assegnato al nucleare), tutto
ciò sottende evidentemente uno scopo ed un disegno, altrimenti non
avrebbe senso. E gli autori non possono essere che coloro che realmente
comandano nel mondo.
Ma passiamo ora al terzo caposaldo su cui si
dovrebbe fondare la rimonta dell’economia europea, cioè un forte aumento
delle spese militari. Sintetizziamo le ragioni per cui, secondo Draghi,
l’Europa non può più sottrarsi a tale impegno. Essa ha beneficiato
sinora di un ambiente globale favorevole: il commercio mondiale cresceva
continuamente e la stabilità geopolitica era assicurata dall’egemonia
americana. La copertura della difesa del nostro continente da parte
degli Stati Uniti permetteva ai Paesi europei di riservare per la difesa
un livello basso di risorse, destinandone una quota maggiore ad altre
priorità. Inoltre in un mondo di geopolitica stabile non avevamo motivo
di preoccuparci per la crescente dipendenza da Paesi che ci aspettavamo
rimanessero amici (l’Europa, grazie alla rete di metanodotti costruita,
era giunta ad importare dalla Russia quasi la metà del suo fabbisogno di
gas naturale, ed il prezzo basso apportava competitività al nostro
sistema industriale). Ma quel tranquillo e favorevole scenario globale è
svanito “a causa della aggressione arbitraria della Russia all’Ucraina,
del deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, e della
crescente instabilità in Africa, fonte di molte materie prime
fondamentali per l’economia europea”. L’Europa, “ha perso bruscamente il
suo più importante fornitore di energia a basso costo”, cioè la Russia e
“attualmente imprese europee debbono far fronte a prezzi
dell’elettricità 2-3 volte superiori a quelle degli Stati Uniti ed a
prezzi del gas naturale (che ora ci forniscono gli americani) 4-5 volte
più alti”. L’era della rapida crescita del commercio mondiale inoltre
sta svanendo e le imprese europee debbono affrontare una maggiore
concorrenza ed un minore accesso sui mercati esteri.
L’Europa,
conclude Draghi, deve dunque reagire a un mondo politico meno stabile in
cui le dipendenze stanno diventando vulnerabilità e non si può contare
su altri soggetti per la propria sicurezza. Deve affrontare un grado di
sicurezza radicalmente mutato ai suoi confini. E visto che la sua spesa
aggregata per la sicurezza è un terzo dei livelli degli Stati Uniti e
che le scorte sono depauperate, bisogna rafforzare gli investimenti per
la difesa.
Le conclusioni di Draghi recepiscono in realtà la volontà
degli Stati Uniti, che lamentano da sempre lo scarso apporto europeo
alle spese “per la difesa comune” ed hanno chiesto recentemente ai Paesi
membri della NATO di portare le spese per la difesa almeno al 4% del
loro prodotto interno lordo. La descrizione degli eventi che hanno
portato al mutamento dello scenario globale ripete inoltre la “vulgata”
degli Stati Uniti e della NATO da essi egemonizzata, piena di omissioni,
di distorsioni, di autentici travisamenti. E vediamo rapidamente le più
macroscopiche di queste omissioni e distorsioni, che rendono carente e
falso il quadro che la relazione descrive.
Iniziamo dalla prima
affermazione: quella in base a cui l’ “ombrello atomico” fornito dagli
Stati Uniti all’Europa, ha permesso sinora ai Paesi europei di
risparmiare sulle spese militari, destinando più risorse per altri
obiettivi, ed in primo luogo per il “welfare”, cioè per uno Stato
sociale.
Questa storia dura dai primi anni cinquanta del secolo
scorso, cioè da oltre tre quarti di secolo. Già allora infatti gli Stati
Uniti chiedevano che i Paesi europei fornissero un maggior contributo
alle spese militari della NATO. E la resistenza degli europei, che di
fatto opponevano un rifiuto “fornì agli Stati Uniti l’alibi per
escogitare sistemi non fiscali (cioè monetari) per finanziare le
politiche di difesa” come ha scritto l’economista inglese Susan Strange
in un libro dal titolo “Denaro impazzito”, pubblicato anche in Italia
nel 1999 dalle Edizioni Comunità.
In realtà già il fatto che il
dollaro sia la valuta degli scambi internazionale dona agli Stati Uniti
un “diritto di signoraggio”. E lo ha ricordato apertamente Guido Carli,
già governatore della Banca d’Italia nelle sue Memorie, stampate
postume, ove si può leggere che “Gli Stati Uniti hanno esercitato
lungamente un diritto di signoraggio sul resto del mondo”. In quel
“resto del mondo” sono compresi ovviamente, in prima linea, anche i
Paesi europei. Lo stesso Guido Carli all’Assemblea della Banca d’Italia
del 1969, nelle sue “Considerazioni finali” aveva sottolineato con
parole inequivoche che “Le risorse reali a favore dei Paesi cui gli
Stati Uniti hanno concesso finanziamenti o elargito crediti sono state
fornite dal resto del mondo, e principalmente da tre Paesi: la Germania,
l’Italia ed i Giappone” (Paesi allora in forte avanzo con la bilancia
commerciale). Ed ovviamente quei trasferimenti di risorse monetarie dai
Paesi vinti della seconda guerra mondiale al Paese vincitore non è detto
che fossero andate a finanziare solo crediti; potevano benissimo
servire per le spese militari o per finanziare il più alto livello di
vita degli americani. Un ulteriore elemento di distorsione monetaria fu
la “piramide di carta degli eurodollari” (copyright anche questo di
Guido Carli) che sfuggiva al controllo delle Banche centrali.
Poi nel
ferragosto del 1971 il presidente americano Nixon dichiarò finita la
convertibilità del dollaro in oro da parte degli Stati Uniti, ed il
sistema di Bretton Woods collassò. Ma “Il collasso del sistema in realtà
è stato un vero e proprio sabotaggio” ha scritto ancora Susan Strange
nel libro già citato. Sabotaggio da parte degli Stati Uniti, ovviamente
(a proposito di “complotti”…), cui seguì per qualche tempo una “ignobile
pantomima” (sono ancora parole della Strange) volta a fingere che si
tentava con vari congressi di economisti e politici di concordare e
instaurare un nuovo sistema monetario internazionale. E vennero invece i
cambi liberamente fluttuati, la crisi petrolifera (sempre a proposito
di “complotti”) l’alluvione dei petrodollari, i derivati, la
finanziarizzazione dell’economia, il “denaro impazzito”, la bisca dei
mercati finanziari con la roulette truccata ed i giganteschi Fondi e le
banche d’investimento americani come croupier.
Conclusione: le spese
militari dell’Impero americano gli europei le hanno pagate da sempre, e
con gli interessi. Ulteriore considerazione: è vero, come ricorda
Draghi, che per la sicurezza i Paesi europei, complessivamente, spendono
un terzo di quanto spendono gli Stati Uniti, ma c’è da aggiungere che
gli Stati Uniti debbono difendere la loro egemonia mondiale, con
centinaia e centinaia di basi militari sparse in tutti i continenti e su
tutti gli Oceani. L’Europa deve difendere solo se stessa, e malgrado
ciò (anche questo lo ammette Draghi) è al secondo posto al mondo per
spese militari. Ma “le sue frontiere ora sono minacciate, e l’ambiente
geopolitico è in evoluzione a causa della arbitraria aggressione della
Russia all’Ucraina, la dipendenza di forniture da Paesi che ci
aspettavamo rimanessero amici è venuta a mancare; la Russia ha
bruscamente interrotto le sue forniture di gas naturale all’Europa”.
Qui
la distorsione dei fatti e degli scenari nella relazione Draghi sfocia
apertamente nella falsità. Quando infatti venne riunificata la Germania,
la promessa formale che gli Stati Uniti fecero a Gorbaciov era che la
Nato non avrebbe avanzato le sue basi anche nell’ex Germania comunista,
avvicinandosi alle frontiere russe “neppure di un metro”. Ebbene da
allora sono entrati nella Nato tutti gli ex Paesi comunisti dell’Europa
Centrale, del Baltico, dei Balcani, dell’Europa Orientale e cioè la
Polonia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca e la
Slovacchia, la Slovenia, la Croazia, l’Albania, la Macedonia del Nord,
il Montenegro, la Bulgaria e la Romania, oltre alla Finlandia ed alla
Svezia, che erano Paesi neutrali. Dunque: non sono le frontiere
dell’Europa ad essere minacciate, ma è la Nato che minaccia la Russia,
con un continuo “abbaiare alle sue frontiere” (parole di Papa Francesco)
con grandi manovre militari e che voleva e vuole inglobare nella Nato
anche l’Ucraina, comprese le sue regioni a maggioranza russa che non ne
vogliono sapere e con un referendum hanno deciso, a stragrande
maggioranza, che vogliono far parte della Federazione russa, non
dell’Ucraina.
Dunque, non siamo noi a doverci dolere perché qualche
Paese, (leggi Russia) che credevamo rimanesse nostro amico non lo è più.
Semmai è vero il contrario: è la Russia che dovrebbe dolersi. E’ vero
che le forniture di gas dalla Russia, di cui tanto beneficiava
l’economia dell’Europa sono state interrotte di colpo. Il “colpo” è
stato quello con cui gli americani hanno fatto saltare il gasdotto Nord
Stream con cui il gas veniva trasportato in Germania, tentando poi di
far credere che a farlo saltare erano stati i russi. Si dimenticavano,
tra l’altro, di quel che aveva detto il presidente americano Biden, poco
prima che scoppiasse la guerra tra Russia ed Ucraina, forse già
mentalmente tanto confuso da rivelare candidamente quello che con tutta
evidenza sarebbe dovuto restare un segreto di Stato. Il 7 febbraio 2022
in una conferenza stampa un giornalista chiese a Biden: “Cosa sarà del
Nord Stream 2 in caso di guerra? “Se la Russia invade, - rispose Biden,-
non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a questa storia”. “Ma
come farete se il progetto è sotto controllo della Germania?” obiettò il
giornalista: E Biden: “Vi garantisco che saremo in grado di farlo”. E
ad operazione avvenuta l’ex ministro degli esteri polacco Radek Sikorski
commentava giulivo e sarcastico su Twitter: “Grazie Cia per
l’operazione di manutenzione speciale al Nord Stream che serviva a Putin
per ricattare impunemente o fare la guerra all’Europa Orientale”.
Due
parole infine su un “esercito europeo”. Se ne cominciò a parlare nei
primi anni cinquanta del secolo scorso, con la progettata istituzione di
una Comunità Europea di Difesa: la CED. Ma a scanso di equivoci già
l’art. 5 di tale Trattato (che non entrò mai in vigore per l’opposizione
della Francia) stabiliva che la CED “doveva cooperare strettamente con
la NATO”. In questi ultimi anni si è tornati a parlare di un esercito
europeo. Ebbene: il 10 gennaio 2023 a Bruxelles il presidente del
Consiglio Europeo Charles Michel, il segretario generale della NATO
Jeans Stoltemberg e la presidente della Commissione Europea Ursula von
der Leyen rilasciavano una dichiarazione congiunta che al punto 8
afferma: “Noi riconosciamo il valore di una difesa europea più forte e
più efficace che contribuisca positivamente alla sicurezza globale e
transatlantica e che sia complementare e interoperabile con la NATO”.
E’
dunque per un’Europa “complementare e interoperabile” che affianchi gli
Stati Uniti nella difesa dell’Impero americano, che dovremmo aumentare,
secondo Draghi, le nostre spese militari?
La nota dolente della
relazione sulla competitività dell’Europa è al dunque quella della
spesa. Gli investimenti necessari, secondo Draghi, equivalgono al 5% del
“Pil” dell’Unione. In cifra 750-800 miliardi di euro all’anno. Un
fabbisogno di entità mai vista in Europa nell’ultimo mezzo secolo. Sarà
necessaria, dice Draghi, la mobilitazione degli investimenti privati ma,
aggiunge, “è improbabile che il settore privato sia in grado di
finanziare la maggior parte di questi investimenti senza il sostegno
pubblico” Un aumento del 2% della produttività coprirebbe, sempre
secondo Draghi, già un terzo della spesa fiscale richiesta. E gli altri
due terzi? L’unica ipotesi è quella di un indebitamento comune dei Paesi
dell’Unione. Ma con la maggiore economia d’Europa – quella tedesca - in
recessione, con la Francia il cui debito pubblico è salito al 110% del
“Pil” e si avvicina rapidamente a quello fuori misura dell’Italia
(137,3%), con la crescita in quasi tutti i Paesi europei dei partiti
sovranisti, con i Paesi del Nord Europa sedicenti “virtuosi” i cui
governi e le cui opinioni pubbliche vedono come il fumo negli occhi
l’idea di debiti in comune, l’ipotesi avanzata da Draghi appare
utopistica.
Ciò detto, come accennavamo all’inizio, se l’impianto
centrale della relazione (cioè la sua sottesa visione geopolitica e la
scelta della decarbonizzazione e del settore militare in funzione euro
atlantica quali due dei tre settori prioritari d’investimento) è del
tutto inaccettabile, vi sono in essa anche elementi interessanti
nascosti qua e là nei molti dettagli, nei numeri citati, nei grafici
esposti, e c’è persino qualche timido accenno ad una Europa “attore
indipendente sulla scena mondiale”, che “dovrebbe evitare gli svantaggi
del modello sociale americano” anche perché l’Europa “sta entrando in un
periodo in cui il rapido cambiamento tecnologico, l’irruzione
dell’Intelligenza Artificiale, la riduzione della popolazione in età
lavorativa, potrà portare notevoli disagi per i lavoratori ed aumentare
le disuguaglianze”.
Quando il carrozzone di Bruxelles sarà imploso e
se sulle sue rovine si vorrà costruire l’Europa dei popoli, forse la
relazione Draghi non sarà male tirarla fuori dal cassetto in cui sarà
sepolta e, in tutt’altro spirito, ridargli una letta, recuperando senza
pregiudizi quel di buono che c’è, se ancora fosse valido e se potesse
servire. Qualche esempio? Draghi ripete spesso che l’Europa deve evitare
quanto più possibile di dipendere dall’estero, senza con ciò cadere
nell’autarchia. In campo militare osserva che pur avendo l’Europa
eccellenti industrie che operano nel settore, tra la metà del 2022 e del
2023 ha destinato il 78% della spesa totale a fornitori esteri, di cui
quasi i due terzi americani. E produciamo 12 modelli di carro armato
contro uno solo degli Stati Uniti. Dipendiamo inoltre enormemente dalle
importazioni di tecnologia digitale (il 75/90% della produzione è in
Asia). Insiste continuamente sulla necessità che le industrie europee si
coordino ed elaborino progetti comuni. E per questo non c’è bisogno di
cedere sovranità, o di installare a Bruxelles o a Francoforte
istituzioni sovranazionali i cui vertici nessuno ha eletto. Dice anche
però che per far passi più grandi alcuni settori dovranno esser delegati
a livello europeo. L’osservazione è ragionevole: non è pensabile che
settori come quello spaziale, o dell’Intelligenza Artificiale, possano
essere affrontati in Europa a livello nazionale. Tutto dipende da che
modello di Europa si vorrà realizzare, e con quale collocazione nei
rapporti internazionali e quali obiettivi geopolitici. Quella per la
verità è stata la via imboccata dai Padri fondatori di un’Europa ben
diversa dall’attuale, con la CECA (Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio) nel 1951 e con l’EURATOM e l’ESA (Comunità Europea per
l’Energia Atomica) nel 1957.
Nessun commento:
Posta un commento